racconto: freak mail

questo è il mio primo sconclusionato racconto. non ha un titolo, se proprio insistete possiamo chiamarlo freak mail, dal nome del progetto narrativo che avevamo pensato di mettere su io e un mio caro amico di nome gigi e che consisteva nel creare due personaggi e farli interagire tramite mail. il mio personaggio, nato dalla vulcanica mente di gigi, si chiama Igor e fa il porno-attore. in questo racconto rispondo alla lettera del suo personaggio, curzio, sul tema "cosa vogliono le donne". questo racconto fa proprio schifo quindi sfogatevi pure in sede di commenti. sopra una splendida veduta della mia Trapani.
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“Tutte le nostre impressioni disperate insieme…”
Caro Curzio, più che un debole per i classici direi proprio che hai un debole per le complicazioni. La tua domanda è quantomeno esagerata, come in certi quiz televisivi in cui ti offrono un miliardo per indovinare quanti fagioli ci sono dentro il vaso di vetro. Nemmeno Rain Man potrebbe farcela. Il fatto stesso di chiederselo significa aver sbagliato il punto di osservazione. La vera domanda non è cosa vogliono le donne, ma cosa vogliamo noi, e come fare per ottenerlo. Perdere tempo a capire le femmine è fatica sprecata. Non lo sanno nemmeno loro cosa vogliono. Alcune non immaginano nemmeno di volere qualcosa. Le donne sono povere creature imprigionate nella loro stessa complessità, nelle loro ridondanze, sculettanti inquietudini che attraversano i nostri prati di futilità con frasi dense di pleonasmi. In omaggio alle donne Freud ha coniato il termine “isteria”, per identificare tutti quei disturbi psichici che sono esclusivo appannaggio del sesso femminile. Povero Sigmund, se avesse immaginato che cento anni di psicanalisi non avrebbero nemmeno scalfito il mistero che avvolge l’altra metà del cielo (quello in tempesta, oserei dire) si sarebbe risparmiato la fatica. Magari si sarebbe dedicato alla musica, o all’ippica. Del resto non è neppure colpa sua, se pensi che prima di lui migliaia di anni di filosofia non sono serviti nemmeno ad avvicinarsi al nucleo della questione. Non c’è da stupirsi che dalle parti di Atene gli uomini scopassero con tutti meno che con le femmine. I filosofi greci dovevano essere omosessuali per frustrazione, e malcelato orgoglio. Meglio avere idee modeste su se stessi.
Dunque, caro Curzio, lasciamo perdere i dogmi di fede e atteniamoci al pensiero scientifico. Cosa vogliono loro non possiamo saperlo, quello che vogliamo noi, sì. Perciò concentriamoci su quest’ultimo aspetto.
Io per esempio, maestro dell’autoconsapevolezza, ho capito subito che la mia più grande aspirazione è quella di mantenermi inutile e cialtrone il più a lungo possibile. Come tu sai, in vita mia non ho mai voluto fare un cazzo, anzi ho sempre considerato l’inutilità una cosa seria, una vera e propria scelta di vita, come andare a vivere in campagna o vendersi la moto. Eppure negli ultimi tempi qualcosa è cambiato.
Penso di avere scoperto in me una certa vocazione per l’arte (e non mi riferisco al cinema porno). Qualcosa di indefinito, però, come certi sogni bizzarri che non ci capisci niente, ma se ti fermi a rifletterci, convinto che debbano per forza voler dire qualcosa, ci trovi un sacco di significati possibili, e non sai mai qual è quello giusto.
Ieri, finito di girare, sono andato al bar con il mio collega Roccia (il nome d’arte non è casuale). Ci siamo stravaccati sul divanetto e abbiamo ordinato da bere per rimetterci in sesto. Così ero lì che mi stavo scolando un “Cuba libre” e all’improvviso gli faccio:
“Compare, non pensi che fancazzista come sono potrei averci la stoffa dell’artista?”
“Che sei un fancazzista non c’è dubbio” mi ha risposto.
“Allora che ne pensi se ci mettiamo in società? Io ci metto il cervello e tu mi fai da agente?...”
Così abbiamo costituito la società. Mi rimane solo da capire quale genere di arte fa più al caso mio.
Ci ho pensato tutta la notte e una mezza idea ce l’ho.
Forse potrei fare lo scrittore. Credo di averne i numeri.
Mi ricordo di una volta che un’attrice con cui avevo girato delle scene mi ha detto che ho un modo di parlare forbito. Bè, non ha usato proprio questo termine, ovviamente, dubito che ne conoscesse il significato. In realtà ha detto soltanto: “ma lo sai che parli bene? Si vede che leggi Dylan Dog”. A quei tempi leggevo solo le etichette dei vini che compravo al supermercato, ad essere sincero (mi faceva scialare l’espressione “retrogusto fruttato”), ma qualcun’altro un paio di giorni prima aveva dimenticato nella mia macchina una copia del fumetto e lei ne è rimasta parecchio impressionata, manco si trattasse dell’Ulisse di Joyce.
Si chiamava Anna, o qualcosa del genere.
C’è da dire che quella volta con lei avevo proprio fatto la mia porca figura da star del pornazzo. Ero ancora alle prime esperienze nel mondo del cinema hard, e gnocche come la pischella in questione mi facevano un certo effetto di novità ingrifante (come diresti tu se stessimo parlando di un libro), ma non riuscivo a togliermi dalla testa la visione di te che mi passavi arance e sigarette attraverso le sbarre di una prigione. Ci ho messo un’ora prima di mollare l’ancora. Continuavo a pensare a quante possibilità ci fossero che quella lì avesse davvero l’età che diceva di avere.
“Vai tranquillo, ha 18 anni. Me l’ha detto lei.” aveva insistito Vattiata, il regista di tutti i miei film.
Più che fidarmi avevo sperato che ne avesse almeno 16.
Finito di girare l’avevo portata a bere qualcosa in un pub scadente del centro storico. Uno di quegli inviti che nascono quando la noia si approssima alle soglie della disperazione.
Parlò tutto il tempo del suo sogno di fare la parrucchiera. Non potevo fare a meno di chiedermi perché mai una che vuole passare la sua vita a pettinare la gente ritenga che la via più breve per realizzare il suo sogno sia quella di diventare una specialista con i sigari.
Dopo due ore di discorsi sugli shampoo, le creme e le messe in piega, anch’io mi sentivo un’autorità in materia.
Più tardi ci ritrovammo di nuovo in macchina, senza un motivo ben preciso, né una meta da raggiungere.
Fai fatica a capire a cosa ti serve una donna quando te la sei scopata ancora prima di sapere il suo nome. Se poi non c’è di mezzo quella specie di malattia chiamata amore, ritengo che le uniche ragioni per finire in piena notte allo scaro della frutta per prendere un caffè insieme a una come lei, in un bar improvvisato o improbabile, e senza nessuna necessità di mostrare interesse o fingere romanticismo, siano solo un’invincibile insonnia o una disperante e ineluttabile solitudine . Io quella notte ce le avevo entrambe.
“Che volete?” Chiese il barista, utilizzando probabilmente le uniche due parole di italiano del suo vocabolario.
“Un attimo che mi consulto con la mia partner” avevo risposto, enfatizzando la pronuncia della “a” nell’ultima parola, in modo da farla sembrare quasi una “o”, giocando ad assumere un’aria un po’ british.
Il barista prese a guardarmi con una certa diffidenza. Probabilmente si stava chiedendo che cazzo significasse la parola “partner”, o “consulto”, e se per assonanza gli fosse venuto in mente un qualche significato poco amichevole, come minimo mi avrebbe sputato nella tazzina.
“Un succo di frutta alla pesca” aveva cinguettato la pischella.
Ti assicuro, caro Curzio, che quella Anna sarà anche stata una ragazzina senza cervello, e futura parrucchiera dalla precoce dedizione al “galippo” ma, porco zio, faceva sorrisi a regola d’arte.
Il barista ci servì le nostre ordinazioni in bicchierini di plastica. Ne approfittammo per improvvisare una consumazione itinerante, a spasso tra le cassette di frutta e verdura dei coltivatori. Lei insisteva che dovevamo per forza comprare qualcosa, perché i prezzi erano troppo convenienti, e ho fatto una fatica bestia a convincerla che l’unica frutta che mangio sono le ciliegie dei mon chery.
Alla fine la riaccompagnai a casa.
“Ma lo sai che parli bene? Si vede che leggi Dylan Dog” disse, fermi in macchina sotto casa sua. Mi guardava dritto negli occhi, come se fosse l’unico modo per non lasciarsi sfuggire quell’attimo.
“In che senso parlo bene?”
“Quello che hai detto al barista…” aveva aggiunto senza finire la frase, soddisfatta della sua eloquenza.
C’era qualcosa di dolce in lei, eppure, per quanto mi sforzassi (non è vero, non mi sforzavo affatto), non riuscivo a provare niente aldilà di un crescente stimolo alla minzione, effetto delle troppe bionde doppio malto. Con la sua presenza stupita al mio fianco, e i suoi occhi che amplificavano i silenzi in mezzo alle parole, io non mi chiedevo nemmeno perché cavolo fosse rimasta con me tutta la notte, mentre dietro le case spuntavano lattei i primi pallori dell’alba. A pensarci adesso, forse aspettava solo un altro invito. Un invito come si deve, stavolta, un invito che controbilanciasse tutto quello che tra noi era già accaduto. E in seguito lo giustificasse, magari.
Che ne so, forse per lei uno che per campare si scopa delle sconosciute deve essere proprio un buon padre per i suoi figli. O magari il fatto che ci siamo scambiati i nostri fluidi corporei prima di stringerci la mano era a suo parere il presupposto ideale per una grande storia d’amore, ma io non intendevo occuparmi delle sue rappresentazioni del mondo. Non mi innamoro mai delle colleghe, lo sai, e poi lei era troppo sballata per me e di una fragilità incauta che mi metteva a disagio.
Senza contare che prevedevo di incontrarla ancora nel salotto di Vattiata.
“Vabbè… ciao, allora” le dissi.
“Ciao” rispose lei, al termine di un silenzio di sguardi dirottati altrove. Scese dalla macchina.
Aveva addosso una di quelle tristezze che riconosci sempre troppo tardi.
Tornando verso casa avevo continuato a sentire il suo profumo e a riascoltare nella testa la sua voce che diceva “ma lo sai che parli bene…”
Non lo so, compare, se davvero parlo bene, ma forse sarebbe cambiato qualcosa se avessi immaginato che quella era l’ultima volta che l’avrei vista. O forse no.
Certe cose, l’ho già detto, è meglio non chiedersele.
Però magari sarà anche grazie a lei se divento un artista. Non credi?
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