racconto: essere buoni è una questione di purezza

Questo è il mio secondo racconto che segna l'epilogo piuttosto misero del progetto narrativo che io e gigi avevamo denominato freak mail. questa volta il tema è "cosa vuol dire essere buoni". Nella foto Torre di Ligny a Trapani.
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Essere buoni è una questione di purezza
Caro Igor, ha ragione mia sorella quando dice che tutta l’infelicità dell’uomo deriva dal non sapersene stare chiuso nella propria stanza (gliel’ha detto un certo Pascal…).
Ho assistito di nascosto al matrimonio di Antongiulio e Miriam, e dopo, quando tutti hanno cominciato a riempirsi i pugni di riso, sono scappato a casa a fumare e a fissare le bottiglie vuote di birra e cola ammonticchiate sulla tavola. È stato lì che ho capito che la bontà è solo una questione di purezza, e che essere puri è la cosa più difficile del mondo e che, in sostanza, io non lo sono.
Ma lascia che ti racconti tutto dall’inizio.
Ti ricordi di Antongiulio, vero? Dovresti, se non hai dimenticato i tragici anni delle medie, le partitelle a calcio di Piazza Mazzini, quelle “spide” all’ultimo sangue sul campetto ovale circondato di aiuole e siepi e l’imponente palma che cresceva sul dischetto del centrocampo. Antongiulio era quello che portava il pallone, quello con la maglia originale del Real Madrid, con le scarpe da calcetto Adidas e i calzettoni abbinati. Era quello che passava quasi tutto il tempo in porta senza lamentarsi mai, il capro espiatorio di tutte le sconfitte, quello che camminava un passo più indietro rispetto a noi che pensavamo di essere troppo fichi per considerarlo nostro amico. Però tornava buono durante i compiti di matematica o quando si trattava di andarlo a trovare a casa per spacchiarcela con l’ultima novità in fatto di video games. Non lo so, forse dipendeva dal fatto che aveva troppe lentiggini, o troppi soldi, o camicie troppo stirate e capelli troppo ben pettinati o, più semplicemente, già allora non eravamo puri.
Poi un giorno lui fece quel gesto grande che mi salvò il culo e molto altro, e noi pensammo che quello là in qualche modo aveva le palle; in un modo tutto suo, magari, ma ce le aveva.
Parlo di quella volta che durante l’ora di italiano giocavamo a sputare la carta fra i capelli delle femmine, usando l’astuccio della biro come cerbottana. Ti ricordi quella cicciona di Marcella con i capelli così crespi che qualsiasi cosa vi si attaccava addosso ed era impossibile poi tirarla via?
Se ne andava tutti i giorni a casa con roba di tutti i tipi infilata tra i riccioli da barboncino. Era uno spasso vederla incazzarsi come una iena tutte le volte che, infilandosi una mano tra i capelli, si accorgeva dei vari corpi estranei che nel frattempo vi si erano annidati. Sapeva che eravamo noi la causa di tutto ma, anche se ci sentiva sghignazzare dietro le sue orecchie, non c’era mai stata flagranza. Quel giorno la stavamo bersagliando di brutto, un fuoco incrociato senza pietà. Lei fece l’errore di voltarsi nel momento sbagliato, quando io avevo già cominciato a soffiare nel tubetto della penna e la sfera che aveva già iniziato a rotolare sul piano inclinato, non poteva più essere fermata. La colpii sulla fronte con la pallottola di carta tutta bella masticata e inzuppata della mia saliva. Quella volta non si limitò ad incazzarsi, si mise proprio a piangere e io cominciai a farmela sotto, perché avevo già preso tre note di demerito quell’anno e pensavo che questa volta sarei finito dal preside. Mia madre sarebbe stata convocata a scuola e sarebbe venuta fuori tutta la storia delle mie assenze e i compiti mai fatti e tutti i casini che combinavamo. Erano ancora i tempi in cui avevo paura dei miei genitori, in cui davo importanza alla loro approvazione, anche se non sapevo bene perché.
Invece la prof vide Antongiulio che rideva e lo cazziò di brutto, perché era il più bravo di tutti e una cosa del genere da lui non se la sarebbe mai aspettata. La prese quasi come una cosa personale e gli fece tutto un discorso paranoico su quanto fosse sorpresa e delusa per quello che aveva fatto e lo spedì fuori dalla classe. Io ero sicuro che lui si sarebbe difeso, aspettavo di vederlo puntare l’indice verso di me e di sentirgli dire le cose come stavano veramente. Dentro di me tramavo già la vendetta. L’avrei preso a calci in culo all’uscita dalla scuola e tutti avrebbero riso di lui vedendolo andarsene via storto e con le mani sul sedere a proteggersi l’osso sacro. Era tutta colpa sua e della sua risatina da femmina e… invece lui non disse nulla, alzò il culo dalla sedia e uscì fuori al posto mio.
Io ero così sorpreso, così riconoscente che… fu così che diventammo amici. E lo siamo ancora oggi. Anzi, lo eravamo fino a pochi giorni fa. Fino a quando io e Roccia non ci siamo messi in testa che dovevamo essere buoni con lui, in pratica.
Lascia che ti dia un consiglio, compare: mai prendersi a cuore la felicità degli altri. Non è cosa nostra la felicità degli altri, non ci appartiene. È una cosa troppo fragile, delicata… e poi cosa c’entriamo noi con la felicità? Chi l’ha mai vista? Chi lo sa com’è fatta? Bisogna essere proprio tristi per voler fare felici gli altri.
Il fatto è che io e Roccia eravamo convinti di sapere cosa fosse meglio per Toni. Sapevamo con certezza cosa fosse il bene o, quantomeno, sapevamo distinguerlo dal male. Credo che Roccia sia ancora convinto di questo. Quanto a me, ho capito troppo tardi come stavano le cose. È sempre stato così in vita mia, arrivo sempre dopo in tutto quello che faccio. Una dote molto apprezzata nel mio lavoro, magari, quanto a tutto il resto… lasciamo perdere.
Eppure io so quanto ho detestato il fatto che qualcun altro dovesse decidere la strada giusta per me. Quella più sicura, quella senza buche, né lavori in corso e con tutte le indicazioni ben in vista ad ogni bivio. Gli studi classici, poi giurisprudenza e tutta una serie di nozioni sul modo giusto di salutare, di vestirsi, di stare a tavola e riabbassare la tavoletta del water dopo aver pisciato. Ho sempre pensato che ci fossero troppe regole nella mia vita e troppe persone interessate al mio destino. Per come la vedo io, due genitori così presenti come i miei, erano tre persone di troppo con cui dover fare i conti. Era già un problema farli con me stesso, infatti. E lo è ancora adesso.
Non è facile che gli altri accettino che tutto quello che vuoi fare nella vita è scopare, mangiare e dormire fino a quando ti pare, specialmente se questi altri sono quelli che ti hanno messo al mondo. Per questo esistono gli amici. I legami di sangue hanno troppe implicazioni, troppi diritti di natura, troppi… sono cravatte strette che somigliano a nodi scorsoi.
Gli amici, invece… a loro piaci così come sei. Fancazzista come sei, stronzo come sei, bastardo come sei, lurido, piscione, paraculo come sei. Loro non cercano di cambiarti.
Dunque è stata tutta colpa mia.
L’assurda pretesa di essere buono… puah!
Io buono, ci credi? Sarebbe proprio una cosa divertente, se non fosse così tragica.
Il problema è che continuo a fidarmi di Roccia. Una parte di me si dev’essere convinta che lui è un fottuto geniaccio con un quoziente intellettivo di 280. Cioè, dentro di me so benissimo che è un deficiente, è solo che me lo ricordo sempre troppo tardi. Mi torna in mente quando ormai non c’è più nulla da fare.
A Roccia piaceva Toni. Gli è piaciuto subito, dalla prima volta che gliel’ho presentato. Roccia ha questa tendenza a sentirsi subito in sintonia con le persone che per i suoi amici sono importanti. Certo, questo non basta a fare di lui una bella persona, ma quantomeno contribuisce a renderlo uno stronzo sopportabile, talvolta addirittura simpatico. Fino a quando non gli si concedono margini per prendere iniziative, almeno.
Si trattava soltanto di organizzare l’addio al celibato di Toni, una cosa semplice se conosci qualche troietta disposta a fare sesso per soldi senza altre implicazioni e, visto il lavoro che facciamo, non avevamo che l’imbarazzo della scelta.
- Luana?
- No, troppo passiva, troppo… tanto vale che gli compriamo una bambola gonfiabile, almeno se la porta a casa e gli resta pure il ricordo.
- Carmela?
- Per carità, lasciamo perdere le lorde. Dobbiamo fare una cosa di classe.
“Ci sono” fa Roccia, “la pischella… come si chiama?...”
“Quale pischella?”
“Quella con le braccia secche… finicchia…”
“…”
“Quella che ti sei portato allo scaro della frutta e gli hai regalato le arance…”
“Semmai LE ho regalato…”
“Cazzo, che romanticone.”
“Non le ho regalato proprio niente, imbecille.”
“Quella è perfetta, no? Cioè, non pare per niente una che gli piace il cannolo.”
“Si, sarà pure perfetta, ma dove la vai a trovare quella? Saranno passati due anni da quella volta che abbiamo girato assieme.”
Siccome l’idea non era malaccio, chiediamo a Vattiata se sa come rintracciare la pischella in questione.
“Chi Anna? Ah, ma quella è perfetta. A quest’ora sarà pure maggiorenne.”
“Come maggiorenne?” gli dico, “Scusa ma non lo era già due anni fa?”
“Appunto, se lo era due anni fa, figuriamoci ora.”
C’era qualcosa che non quadrava.
“Ci penso io” dice Vattiata, “consideratela cosa fatta.”
Finito di girare io e Roccia andiamo a scassarci al solito pub.
È venerdì sera e il locale di Iaco pullula di signorinelle scollacciate. Facciamo a gara a chi avvista più mutande.
- Bianche. Uno a zero.
- Rosa. Uno a uno.
- Chi?
- Quella là seduta di spalle con mezzo culo di fuori.
- Nera e rossa: 3 a 1. Ma le gemelle non dovrebbero portarle dello stesso colore?
Non alziamo nemmeno lo sguardo al di sopra del bacino. Facciamo le lastre a tutte le femminucce con i nostri raggi x all’avanguardia. I maschi ci guardano di sguincio, soffiano dal naso come torelli nell’arena, ma capiscono che è meglio se tengono le mani in tasca che qua c’è pane per i loro denti.
- Viola, abbinate al golfino: vale doppio.
Poi usciamo fuori a fumare una sigaretta e il discorso si fa serio.
“A te ti pare che questa è la tipa giusta per Toni?” fa Roccia.
“Mi pare una brava picciotta.”
“Brava picciotta? Quella volta a casa mia non ci è sembrata tanto brava picciotta, mi pare…”
La notte non faccio che pensarci e ad ogni minuto che passa, ogni sigaretta che fumo, ogni bicchiere di Nero d’Avola che mi calo, mi sembra che il discorso di Roccia assuma sempre più una sua coerenza.
Insomma cosa vuole questa tipa dal nostro compare? Chi cazzo è questa stronza che se ne va in giro vestita Gucci, con la borsetta imbottita dei soldi di papà, facendosi chiamare Sissi?
Per come la vedevo io, una così, con quel nome da principessa, poteva essere solo una gran troia.
E non mi importava della vita futura di Toni? Solo a pensarci ero triste per lui. Tutte quelle cravatte, le cene dai parenti, diciotto posate ai lati del piatto, lo shopping il sabato pomeriggio alla Maison della Moda, il loro parlare forbito… e poi niente più parolacce, niente più sbronze, niente più Manu Chao in macchina a tutto volume di notte, niente più canne, fame chimica e avvicinare le ragazze in discoteca e dire: certo che se tu avessi anche le tette saresti proprio una strafica.
Niente più mattine disfatte a mettere insieme i vaghi ricordi per ricostruire la nottata precedente. Niente più ozio, né vizi, niente eccessi e rischi e risse e… vita.
Non c’erano proprio dubbi: dovevamo salvarlo.
Quando Toni arriva da Iaco il locale è ancora vuoto. Ci siamo solo io e Roccia e un vecchio al banco con un bicchiere di vino rosso in mano che guarda una partita del campionato tedesco alla tv.
Io e Roccia abbiamo avuto il tempo di buttare giù un paio di aperitivi, schifezze alla frutta buone per liceali.
Toni è con Sissi, si tengono per mano.
Lei è così magra, con il cappotto nero, il naso dritto e gli occhi che emanano luce.
“Sei sempre più bella” dice Roccia. Per una volta ha proprio ragione.
Toni si siede al tavolo con noi. Sembra sempre così pieno di orgoglio quando sta con lei.
Sissi gli mette una mano sulla spalla.
“Mi raccomando” dice, “non fate i bimbi cattivi.”
Sorride, ha un sacco di denti.
Quando se ne va tutto sembra all’improvviso più smorto, c’è ovunque una tale mancanza di colore e di energia che non possiamo fare meno di ordinare tre jack e cola.
All’inizio parliamo di stronzate, aneddoti ficcardigni, sciarre, imprese sulle auto, il tutto per dimostrarci a turno quanto siamo cazzuti e pazzi e figli di buonadonna.
Poi finiamo come sempre a parlare del passato.
“…Quella volta che ce la siamo vista brutta, con quei tre più grandi di noi che volevano pestarci e allora tu hai tirato fuori la storia del tuo fratello maggiore che sarebbe venuto e avrebbe rotto il culo a tutti e poi hai fatto finta di andarlo a chiamare e quelli hanno pensato che, cazzo, questo fratello più grande c’era veramente e doveva essere proprio un figlio di buttana e hanno subito cambiato atteggiamento e con una scusa se ne sono andati…”
Mentre Toni racconta io rido, anche se in realtà non l’ascolto. La so a memoria quella storia, ce la siamo raccontata un sacco di volte. Preferisco pensare a Sissi, al suo collo bianco sotto il colletto della camicia, alla sua parvenza di perfezione che non è tale ma è ciò che più le si avvicina, e penso che tutti abbiamo il diritto di sbagliare e che abbiamo il diritto al riscatto, e che una come lei può anche ripulirsi l’anima, come si smacchia una maglietta schizzata di sugo.
Una volta sapevo prendere le mosche vive, le afferravo al volo con una mano nel momento in cui volavano via da una parete o da un mobile. Poi mi aiutavo con l’altra mano e senza farle scappare, le afferravo per un’ala e le osservavo muovere le zampette in tutte le direzioni e sbattere l’altra ala velocissimamente per potersi liberare. A volte facevo un gioco: prendevo una bottiglia vuota, ci ficcavo dentro la mosca e poi rimettevo il tappo. La guardavo da dietro la plastica trasparente mentre zampettava sulle pareti della bottiglia alla ricerca di un’uscita. Quando avevo voglia di sentirmi sadico accendevo una sigaretta, soffiavo il fumo dentro la bottiglia con una cannuccia e restavo a guardare la lenta agonia della mosca. Era proprio uno spasso…
“Certo che è veramente una cosa grande quella che stai facendo” dice Roccia. “Questo matrimonio… veramente, sono contento per te…”
“Grazie. Anch’io lo sono.”
“E poi con Sissi… che picciotta splendida… dico bene, compare?”
“Splendida” dico, ma sto ancora pensando al gioco della camera a gas.
“E tu… tu Toni, sei veramente un grande uomo. Sei veramente un signore perché…”
Fa una pausa di vent’anni. Toni sorride, io ho smesso da un pezzo.
“Io e Igor, cazzo, ti dobbiamo proprio ringraziare…”
“Ringraziare? E di che?”
Guardo la faccia di Toni così distesa e mi accorgo che è tutto talmente sbagliato che non capisco come fa Roccia a non capirlo. Il momento è sbagliato, il posto è sbagliato, le lampadine con la loro poca luce sono sbagliate, le bottiglie sugli scaffali e le sedie e il tavolo su cui poggiamo i nostri gomiti sono sbagliati, e soprattutto noi, noi siamo quanto di più sbagliato ci possa essere lì dentro e nel raggio di non so quanti chilometri. Siamo sbagliati perché non siamo puri, ed è chiaro che è tutto un discorso di purezza e che non ci si può svegliare una mattina e decidere che si vuole fare del bene. Perché non è una questione di fare, è questione di essere.
“Io e Igor ti dobbiamo ringraziare per come… ma si, tanto Sissi di sicuro ti ha già detto tutto…”
“Tutto cosa?”
Il sorriso di Giulio non si è ancora estinto, ma per me è già una reminiscenza, qualcosa che rimbalza nella mia mente, in arrivo da molto lontano.
“Ma sì, dai. Hai capito di cosa parlo.”
“Ti sbagli, non credo di avere capito.”
“Quella cosa di me e Igor con Sissi… a casa mia… lei ti avrà già detto tutto, no?”
“Cioè? Aspetta un momento, che cosa avrebbe dovuto dirmi?”
“Vuoi dire che non ti ha detto nulla?”
“Che cosa avrebbe dovuto dirmi?”
“Cazzo! Pensavo proprio che tu sapessi tutto.”
Lo stronzo di Roccia fa questa faccia dispiaciuta che è tutta un programma.
“Niente, compare, lascia perdere, non è successo niente a casa mia. Non è mai successo niente. Sissi è fantastica, cioè, va… è proprio fantastica, e sei proprio fortunato a sposarti una ragazza così… fantastica...”
“Che cosa cavolo è successo a casa tua?”
Roccia mi guarda e scuote la testa.
“Mi sa che dobbiamo raccontargliela per forza, ormai, questa storia.”
Una parte di me lo odia. L’altra si limita a detestarlo.
“Ma cosa vuoi che sia successo” dico, “una sera siamo usciti insieme e ci siamo un poco stoccati, come è capitato un sacco di volte anche a noi tre. Eri tu che quando stavi a Palermo per l’università ci dicevi di portarla fuori, di farla divertire…”
“Si, compare, ma io credo che a questo punto Toni voglia sapere quello che è successo dopo che abbiamo bevuto” dice Roccia.
È un tale coglione a volte…
“Già, che cosa è successo dopo che avete bevuto?”
Toni ha una vena sulla fronte che fa impressione. La posso vedere pulsare. Ho paura che da un momento all’altro gli scoppi la testa come nel film “Scanners”.
“Devi mettere che eravamo tutti troppo torti per capire bene cosa facevamo e cosa non facevamo” continua, Roccia. “Avevamo bevuto e fumato e… eravamo veramente torti di brutto…”
“Porca troia, l’ho capito che eravate torti, eravate tortissimi, ma voglio sapere cosa cazzo è successo dopo.”
Roccia fissa la parete di fronte espirando rumorosamente.
“Diglielo tu” dice il bastardo, scuotendo la sua enorme testa di cazzo.
Prendono tutti e due a fissarmi.
“Insomma, in parole povere, Sissi voleva sapere com’era questa storia che facciamo gli attori porno e io gli spiegavo che certe volte non è tutta questa gran cosa, perché non è che decidi tu cosa fare e cosa non fare, perché c’è un regista, no? E allora certe volte magari decidi tu, reciti a soggetto, diciamo, ma la maggior parte delle volte è il regista che ti dice tu mettiti sopra, tu sotto, tu di lato, in diagonale eccetera eccetera. E Sissi… faceva domande… e rideva, sai com’è Roccia, è uno che fa ridere. Insomma, lui gli faceva l’imitazione di Vattiata che spiega a un’attrice che deve fare una pecorina… Sissi era pisciata dalle risate… e poi…”
“Insomma, per farla breve ce la siamo scopata in due” dice Roccia. “Più volte” aggiunge poi, sottovoce, quasi con pudore.
Lo guardo come si fa con una merda di cane sopra un tappeto nuovo.
Lui allarga le braccia come a dire “ci voleva tanto?”
Toni rimane un lungo minuto in silenzio a fissare il bicchiere, mordicchiandosi le labbra.
“Voglio soltanto sapere una cosa: quando è successo questo, io e lei stavamo già insieme?”
“No.” Dico, io.
“Si.” Risponde Roccia.
“Vaffanculo!” gli dico a denti stretti.
All’improvviso mi sembra evidente che stiamo facendo un’enorme cazzata. Ma quel che è peggio è che so benissimo dentro di me quello che sente Toni. È come se mi avesse prestato la sua pelle e il suo stomaco e il suo cuore e ogni singola cellula delle sue ossa e del suo cervello e… tutti quei brividi, quel verme schifoso dentro la pancia, la violenza del sangue pompato dentro le vene, i 200 battiti al minuto, tutta quella congestione di idee impazzite dentro la testa, e so quanto vorrebbe adesso uscire da questa fottuta bottiglia, e so che non voglio un amico-mosca, che non voglio vederlo sbattere sulle pareti in voli brevissimi e soprattutto non voglio più essere lo stronzo che soffia il fumo nella cannuccia.
“È stato un sacco di tempo fa… è stato… non è stato niente… un errore di percorso… cioè, cazzo, compare, Sissi è perfetta, lo sai… insomma, non è questione di cadere, è questione di rialzarsi, dopotutto, giusto?”
Toni nemmeno mi guarda, fa una miriade di respiri corti, rapidi, ravvicinati.
Vorrei dirgli che può togliere il tappo, che può volare via, alla ricerca di altre bottiglie di cola, e briciole di pane sulla tavola, o altre merde, se preferisce, magari meno fetenti di noi, perché come me e Roccia sarebbe davvero difficile trovarne altre.
Non c’entrava niente adesso tirare fuori quella storia. Era stato solo l’errore di una sera e poi non era affatto vero quello che aveva detto Roccia, che loro due stavano già insieme quando è successo. Ma ormai è troppo tardi per rimediare, Toni non mi crederebbe più.
Sissi ha sempre voluto Toni, l’ha voluto dal primo momento che lo ha visto. Perché lui è meglio di noi, è sempre stato migliore di noi. Lui era quello con la maglietta originale del Real e i calzettoni neri abbinati, quello con il colletto della camicia sempre pulito e ottimo in tutte le materie, quello con la testa sulle spalle, quello che è andato fuori dalla classe al posto mio, quello… E Sissi, riesci a immaginarti Sissi? Le sue dita lunghissime sulle spalle di Toni, la leggerezza, un insieme di movimenti che si susseguono con la giusta lentezza e scioltezza, un fluido profumato versato in un bicchiere di cristallo, quel suo dire “non fate i bimbi cattivi”, la luce tutta intorno, questo suo sembrare piccola, il suo sembrare grande, tutto un equilibrio di opposti, ciascuno nell’esatta dose, nemmeno un grammo di più, neanche una briciola in meno e il vento che passa tra i suoi capelli…
Quando Toni se ne va rimane il silenzio e qualcosa di pensante nel cuore, una specie di paura, come quando da bambino rompevo qualcosa dei miei e non capivo a cosa servisse, ma sapevo che era una cosa importante. E mi sentivo in colpa.
Cinque minuti dopo sulla porta d’ingresso si materializza Anna, vestita, si fa per dire, con una minigonna che parte da sotto l’elastico delle mutande.
“Non ci posso credere: chi di voi due si sposa?”
Io e Roccia ci guardiamo in silenzio.
“Nere” dice lui, “4 a 3, ho vinto”.
Dunque, caro Curzio, la bontà non è roba per tutti. È solo una questione di purezza, di predisposizione, è come essere alti, o mancini, o averci l’orecchio per la musica. Certe cose, se non ce le hai, non te le puoi inventare. Quindi è meglio non ostinarsi a voler fare del bene se non ci si è portati, qualcuno potrebbe andarci di mezzo.
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