racconto: una serata alla grande

È uno di quei periodi che ho un così pressante bisogno di scopare che passo giorni interi a spremermi la fava. Chiuso nella mia stanza, a cavalcioni sul letto, con gli occhi al soffitto e la bocca aperta e giù, fino a quando consumo tutto il rotolo di carta assorbente e non mi rimane più una goccia da versare. È così che mi è venuta l’idea di scrivere, mi sono convinto che l’unico modo per trovare una tipa disposta a scopare con me è elevare la mia condizione sociale. Mi sono detto: “Ettore, tu non sai fare niente, ma se ti impegni puoi diventare un buon cazzaro”. E allora eccomi qua, ci sto provando.
Può sembrare un’idea bizzarra, lo so, ma è così che gira il mondo. Le femmine sono geneticamente troie, non te la danno neanche morte se sei una specie di signor nessuno, senza titoli, o soldi o prestigio sociale: è una legge di natura universale. Prendiamo gli animali, per esempio, gli animali femmina mica c’hanno il concetto dei soldi, o della fama, o del prestigio sociale… le cagne per esempio, o le femmine di ghepardo, le ghepardesse, potrebbero farsi ingroppare dalla prima bestia col cazzo in tiro che incontrano, e invece… basta dare un’occhiata a un documentario e si capisce come stanno le cose. Io li guardo da quando ero piccolo i documentari, è per questo che capisco il mondo. Le ghepardesse non si fanno ingroppare dal primo gattone maculato che si trovano davanti a spasso per la savana, no, loro vogliono il maschio dominante, “er più”, il ghepardone più figo che ci sia in tutta la fottuta prateria. E questo vale sia per la ghepardessa, che per le lombricone o le fotomodelle di Coco Chanel. È una legge che vale per tutta la cavolo di scala evolutiva.
Basta farsi un giro per i locali il fine settimana e dare un’occhiata intorno, te ne accorgi subito. Le femmine la danno a quelli ricchi, a quelli importanti, a quelli famosi, a quelli belli e io non sono nessuna di tutte queste cose, per cui passo gran parte del mio tempo a vedere gli altri scopare, per lo più su filmini porno che scarico da internet. Il poco tempo che mi rimane lo dedico a tutte le altre cose, tipo lavorare, pulire la casa, fare la spesa, e chiedermi come posso trasformarmi da sfigato doc al mille per cento a “tipo certo non bello ma comunque interessante” (ovvero in che modo posso metterla per convincere una ragazza decente a scopare con me). Una ragazza decente, dico, perché per le cozze non ci sarebbero problemi… è che io ho ancora una mia dignità e… insomma, anche l’occhio vuole la sua parte.
Messa in questi termini la vita per me è un lungo elenco di cose da fare: per sopravvivere, per mangiare, per stare in un appartamento che sia qualcosa di più di una discarica, per essere accettato dagli altri, per alzare le mie miserrime probabilità di scopare e… sapete una cosa? Questo mondo fa proprio schifo.
Quando sono a Trapani le cose per certi versi migliorano, anche se solo di poco. Questa cosa di andare a lavorare fuori, a Padova, pensavo mi avrebbe aiutato a diventare un po’ più appetibile agli occhi dell’universo femminile: tipo esotico, maschio mediterraneo, posto statale, maestro elementare… che cazzo vogliono di più ‘ste donne. Ero così pieno di entusiasmo all’inizio, avevo tanta di quella voglia di andarmene… ora invece non vedo l’ora di tornare a Trapani, di stare in vacanza, non andare a scuola, non fare la spesa, non pulire casa, non cucinare… nella mia Sicilia ho un bel po’ di tempo a disposizione, perché tutte queste cose le fa mia madre al posto mio.
Così quando sono a Padova e si avvicina il momento in cui potrò tornare a casa passo un sacco di tempo a fare progetti su come utilizzare al meglio i giorni di vacanza. Faccio scalette del tipo: 2 ore al giorno per scrivere, 2 ore al giorno per leggere, 2 ore al giorno per suonare la chitarra, e via dicendo. Le mie scalette di solito prevedono anche il tempo minimo da dedicare alla socializzazione, a stare in mezzo alla gente, cosa di cui farei volentieri a meno, ma se non esco di casa dove la trovo una ragazza disposta darmela?
Poi però arrivo a Trapani e non faccio niente di tutto quello che avevo programmato: dovrei scrivere e invece navigo su internet, dovrei leggere e mi sparo le seghe sui filmatini che nel frattempo ho scaricato da internet, dovrei uscire a socializzare e invece resto in casa a ciondolare del tutto schiffarato tra la mia stanza e la cucina alla ricerca di cibarie, gli arancini della mamma, avanzi di cannelloni al ragù di carne o mustazzoli ericini da bagnare nel vino rosso, e poi di nuovo dalla cucina alla mia stanza, dove con la pancia piena mi metto a dormire. Sono fancazzista per natura, diciamo pure un tipo semplice, uno che si accontenta, a cui basta poco per essere felice.
È la fica l’unico tassello che manca alla mia felicità perfetta, la nota dolente, se non fosse per questo piccolo particolare non ci sarebbe nulla in grado di spingermi fuori dalle quattro mura di una stanza. Se solo avessi una ragazza sarei un gioioso, splendido, perfetto nullafacente.
E invece mi ritrovo intorno alle otto di sera a programmare qualcosa per dare un senso alla giornata. La mattina e il pomeriggio se ne sono andati in niente di produttivo e quando è sceso il buio, dopo essermi fin lì detto inutilmente cose del tipo “dovrei scrivere, dovrei leggere, dovrei fare questo e dovrei fare quest’altro” e trovato puntualmente cose più piacevoli e più inutili da fare, mi sono detto “dovrei uscire”, “dovrei divertirmi”… ed è bastato solo pensarlo che subito mi è venuta voglia di stendermi a letto e di infilarmi una mano nelle mutande. Ma ogni tanto vincono anche i doveri…
Telefono ad Anna e le chiedo dei suoi programmi per la serata.
“Sono all’8 e ½ con Patty e certe sue amiche, mangiamo lì e poi… non lo so, tu non ce la fai a venire ormai, giusto?”
Che stronza, se davvero mi avesse voluto a quella cazzo di cena mi avrebbe invitato…
“No, ho ancora un mucchio di cose da fare e … semmai per il dopocena…”
“Occhei, dovrebbe venire anche Daniela più tardi, potresti sentirla e metterti d’accordo con lei.”
Verso le undici e mezza io e Daniela siamo all’8 e ½, uno di questi nuovi bar-pub-ristorante che si sono aperti recentemente a Trapani. È la prima volta che vengo qui. Houge bar, indica l’insegna, non so nemmeno che cazzo vuol dire. C’è un bancone con un numero esagerato di baristi, e poi, entrando, sulla destra, un secondo ambiente, defilato verso l’interno, con dei tavolini dove la gente mangia. Individuiamo subito Anna e Patty e le tre befane sedute con loro. Stanno ancora mangiando il dessert. In mezzo a loro una bionda con la bocca da pompinara e l’espressione da pompinara che non ride mai e si atteggia a fare la strafica si volta a guardarmi con la sua aria di presunta superiorità.
“Te lo ricordi a lui? andava al magistrale” fa Patty.
Questa stronza mi guarda come si fa con uno scarrafone e scuote la testa. Mi guarda dall’alto in basso, nonostante il suo metro e un cazzo di rotolini di pancetta sulla panza e le cosce e le tette cadute.
Mi sta troppo sul cazzo questa qui, è meglio se vado a prendermi una birra. E poi non mi sento a mio agio con loro, non lo so, sarà per via di Patrizia, dei suoi occhi chiari e delle sue labbra, non posso fare a meno di immaginarmele su una qualche parte del mio corpo. È sempre così, sono a disagio in compagnia di una ragazza che mi piace, anche se mi piace solo un poco.
Mi bevo la mia beck’s fuori dal locale, fumando l’ennesima sigaretta. Gruppetti sparsi di ragazzi e ragazze parlano di chissà che cosa. Io mi ritrovo con Daniela, davanti al suo corpo deformato, con il busto troppo grosso e tozzo e le gambe secche lunghe, per niente aggraziato dal vestitino nero e dalle calze nere e stivaletti tipo Visitors, né dal trucco leggero sulle labbra e attorno agli occhi e non so che dirle. Non faccio che guardarmi intorno. In uno dei gruppetti dieci metri più in là vedo Stefania, la mia ex. Cioè, non proprio la mia ex, ci sono stato in tutto un mese e dieci giorni, compresa la settimana in cui lei è partita e se n’è andata in Tunisia a fare le vacanze di Natale con suo padre che faceva il poliziotto all’ambasciata italiana, e quando è tornata mi ha mollato e io ci ho pianto per un tempo esagerato. A pensarci adesso mi vergogno troppo di questa cosa, e ancora adesso non mi sento di andare da lei e dirle ciao come stai, e parlarle, anche si in fondo non mi dispiacerebbe, perché è proprio bella, così bella che penso che ha fatto bene a mollare un fallito sfigato come me.
Finiamo di fumare, torniamo dentro e non vediamo più Anna e Patty e le altre. Saranno andate in bagno… le aspettiamo appoggiati al bancone, sperduti nella nostra assenza di parole e ci sentiamo stranieri in quell’angolo di mondo che si va popolando pian piano di tipi molto più fichi di noi, più alti di noi, più sorridenti di noi e più ben vestiti di noi. Così ben vestiti che a un certo punto mi sembra palese che la mia giacchetta beige è proprio brutta e comincio a sentirmi un fesso e a pensare che tutti lì dentro mi hanno guardato almeno una volta e hanno riso di me, del mio modo orribile di vestire, e mi sento un pesce fuor d’acqua, sempre più imbarazzato e impacciato e di cattivo umore.
Entra Stefania, qualche metro più indietro rispetto a un tipo alto, con una giacca nera, che potrebbe benissimo essere quello che attualmente se la scopa. Anzi sono sicuro che è così, si capisce da come gli cammina dietro, dalla poca distanza che tiene. E sono felice di vederla, eppure non sono felice, perché, cazzo, non posso fare a meno di pensare che questo è proprio il momento sbagliato per trovarmela di fronte. Insomma, non qui, non adesso che mi sento una caccoletta tirata fuori dal naso e spiaccicata sul muro, non con questa orribile giacchetta beige addosso e poi qua dentro c’è tutto questo caldo, la gente intorno che respira e le luci e l’aria ferma che mi fa bruciare la faccia e me la fa diventare tutta piena di sfumature viola da ristagno della circolazione sanguigna. Ma Stefania viene proprio verso di me, con quella sua faccia angelica e anche un po’ diabolica, e mi prende la strizza di trovarmi lì, faccia a faccia con lei, la sua pelle così trasparente, doverla guardare negli occhi, sentire il suo profumo, e allora scappo, le volto le spalle facendo finta di niente e mi infilo in bagno, che poi è il posto più adatto per una merda come me.
Mi guardo allo specchio, ho un’incredibile faccia di cazzo, rossa e gonfia e con gli occhi pesti per via di tutto il tempo che ho passato a sonnecchiare e a smorzarmi il pistolotto.
Quando torno fuori mi sento un po’ più calmo e un po’ meno orribile di fuori, ma sempre brutto e ripiegato su me stesso e maligno-contorto dentro.
Stefania ricompare all’improvviso e io penso che stavolta la saluto, e dentro di me mi preparo tutto un corredo di sorrisi e gesto con la mano e parole tipo come stai e che piacere, perché adesso credo di poterle parlare, ne sono abbastanza convinto, mi farò raccontare com’è andata la sua vita in tutti questi anni in cui non ci siamo più visti e cosa fa adesso, cosa non fa e… ma lei mi passa davanti del tutto indifferente, guarda davanti a sé con uno sguardo così dritto che se per sbaglio si trovasse uno sgabello davanti ci finirebbe addosso e si spaccherebbe tutti i denti sul pavimento, scafazzandosi il naso piccolo a patatina che una volta ci uscivo pazzo. Sono sicuro che se le succedesse davvero una cosa del genere, si rialzerebbe facendo finta di niente, al massimo spolverandosi i pantaloni con le mani, e continuerebbe a camminare come se non avesse per niente la faccia devastata, con i denti tutti frantumati e il sangue gocciolante sul colletto della camicia bianca.
Rinuncio subito a qualsiasi tentativo di attirare la sua attenzione, figuriamoci, sarebbe capace di attraversarmi come un fantasma. Quando è passata mi volto a guardarle il culo dentro i jeans stretti blu: sembra disegnato da Giotto. Ha messo su qualche chiletto dai tempi del magistrale, ma pochi e tutti nei punti giusti. Per certi versi è una fortuna che non mi cachi più nemmeno di striscio, perché è proprio una picciotta spettacolare, riflette la luce in un modo che la fa sembrare diversa da tutte le altre persone e credo che potrei innamorarmi di nuovo di lei, all’istante, qui e adesso, o in qualunque altro posto e momento… e sarebbe una sofferenza inutile.
Che indifferenza… ma è tutto quello che mi merito… sono un perdente… senza voglia di fare nulla… senza nessuna qualità e senza nessuna capacità di fare niente… solo ammucchiare parole in modo disordinato, caotico, inseguendo sempre un senso che ogni volta mi sfugge.
Il locale nel frattempo si è riempito. Tempo 15 minuti, esco, rientro, e mi ci vuole un’eternità per prendere un jack e cola, e poi un’altra eternità per tornare fuori all’aperto, respirare aria che non sia già stata respirata da una decina di altre bocche e scendere dai trenta gradi di dentro, ai quindici gradi della primavera siciliana.
Ritrovo Daniela.
“Anna e Patty se ne sono andate” dice.
“Come andate? Così, senza dire niente?”
“Si, le ho viste salire in macchina e andare via… non hanno salutato, che ne so, forse tornano…”
Stronzissime pulle!
Andate a fanculo voi e la vostra stronzissima amica bocchinara bionda in sovrappeso… non è nemmeno una bionda naturale… mollarci qua in questo modo… fottetevi, buttane! Il vostro lordissimo pacchio al vento…
“Va bene, tanto ci divertiamo di più io e te da soli…” fa Daniela.
Ma fottiti pure tu! Vi odio, femmine del cazzo.
Voglio solo andare a casa, lì sto bene, la mamma mi ha fatto gli arancini, e forse nel forno ne è rimasto ancora qualcuno al prosciutto e formaggio e fredde mi piacciono quasi più che calde… hanno il sapore del volere bene e… ma non posso andarmene così, farei la figura del moccioso depresso…
Resto lì, non faccio che andare avanti e indietro dal bancone alla strada e poi di nuovo al bancone per ordinare altri jack e cola e poi fumare sigarette e fingere di stare bene lì, zitto come un baccalà, nel bailamme di strafiche profumate e figli di papà che si agitano intorno.
A un certo punto Daniela avvista persone che conosce, tipo amici della cognata del suo ragazzo incontrati chissà quando in un qualche raduno familiare tipicamente pacecoto.
Ci avviciniamo a loro più per disperazione che per effettivo desiderio di stare in compagnia. Cominciano tutti a parlarsi tra di loro, avvicinandosi le bocche agli orecchi per via della musica troppo forte e io non sento niente di quello che si dicono. Stringo un mucchio di mani e poi mi ritrovo di nuovo solo e zitto, con le mani in tasca a guardare stupefatto l’altissima concentrazione di facce di cazzo e di culi di donne e di labbra pittate con le lingue che spuntano fuori veloci a inumidire il rossetto. Daniela si intrippa a parlare con uno di questi qui, un militare, collega del suo ragazzo da quello che capisco dalle poche parole che afferro sotto la musica assordante dei Subsonica. Parole tipo “Enzo” e “missione” e “Nassirya”.
A un certo punto mi volto e dietro di me c’è lei, mora, magra, belle tette e pancia piatta scoperta. È bella nonostante tutto, nonostante gli occhi spenti, con le palpebre pesanti e lo sguardo smorto che posa sulle cose e le persone senza lasciarsi attrarre da niente, come se non vedesse niente. Si passa una mano sulla fronte sudata, mentre la sua amica bionda, carina ma molto meno fica di lei, le fa la guardia, pronta ad afferrarla al volo nel caso caschi all’improvviso da un lato o dall’altro. Un ragazzo che sembra un fotomodello, col suo metro e 90 e la schiena dritta le si avvicina per dirle qualcosa nell’orecchio. Qualcosa di non troppo gentile immagino, perché poi se ne va e lei ha la faccia di chi non sa se deve piangere o vomitare. L’amico di Daniela, col suo fare da sergente dei marines, le si avvicina, evidentemente la conosce. In un attimo sono tutti attorno a lei, gli amici di Daniela, e Daniela e io e l’amica di lei carina ma non troppo fica. Lei è così torta che si vede benissimo che non capisce niente di quello che le dicono, perché non cambia mai espressione, si limita a guardare quelli che le parlano con i suoi occhi neri vacui.
Poco dopo, non so come, mi ritrovo in macchina con tutta questa gente che non conosco, compresa lei, questa splendida ragazza ubriaca che si chiama Arianna.
“Andiamo al Muna” dice qualcuno, mentre ci infiliamo nelle vie del centro storico.
Io ho un bisogno di pisciare che a momenti me la faccio addosso, ma tanto il Muna è vicino, e decido di stringere i denti e pensare a qualcosa che mi distragga dalla vescica piena che comincia a farmi male.
Davanti al Muna un gruppetto di ragazzi ballano in strada, ognuno con qualcosa da bere in mano. La musica si sente forte anche da fuori. Si fermano tutti lì, davanti all’ingresso a parlare con qualcuno che non riesco neanche a vedere. Io ho voglia di dare un’occhiata dentro, non ci sono mai stato, e poi ho sempre quel bisogno di pisciare che mi preme sulla cintura dei pantaloni. Un bestione in maglietta nera però se ne sta davanti a me e mi impedisce di entrare. Dico “scusa” e gli faccio segno di spostarsi. Quello però non ha nessuna intenzione di farmi entrare. Mi spinge indietro con una manata.
“Ce l’hai il timbro?” fa.
Gli rispondo “no, che timbro?”
“Se non hai il timbro devi pagare 7 euro per entrare.”
“Ah, scusa, non lo sapevo, pensavo fosse un pub.”
“Pensavo avevi il timbro” mi risponde il coglione con l’aria di chi mi prende per il culo e aspetta solo una scusa per farmi volare a gambe all’aria.
“Fanculo stronzo” gli rispondo.
“Che cos’hai detto?” fa lui, “ripeti quello che hai detto se c’hai le palle.”
“Ho detto fanculo stronzo, e aggiungo anche che sei un gran pezzo di merda.”
Allora mi si parano davanti tutti e due, lui e il suo compare, un po’ meno bestione di lui e con la scritta security man sulla maglietta rossa.
“Avete bisogno di venire in due per sentirvi forti?” dico.
Il bestione numero uno fa un segno all’altro di restare fuori dalla faccenda che tanto se la sbriga da solo.
“Hai parlato assai” mi fa e parte all’arrembaggio.
Ovviamente non si aspetta che sono un campione di boxe, che frequento la palestra di Cristian Safina e passo un’ora al giorno a riempire di cazzotti il sacco che ho attaccato al soffitto di camera mia. Viene sotto a mani basse, convinto che me ne starò lì a farmi frullare e appallottolare come carta pesta. Non capisce che così è fin troppo facile per me centrargli la mascella e infatti quando questo succede gli si dipinge sul volto una faccia del tutto sorpresa. Il secondo cazzotto è un gancio al mento che gli toglie ogni dubbio: proprio così, questo stronzetto alto un metro e un cazzo me le sta suonando di brutto. Poi gli mollo un uno-due a entrambi gli zigomi. Il cazzone barcolla per alcune frazioni di secondo e poi frana giù al tappeto.
Proprio in quel momento qualcuno della compagnia di pacecoti amici di Daniela dice che, al diavolo, 7 euro per ballare sono un vero furto e propone di andare al Beach Bar a Marausa.
“Lì si balla gratis” fa, con l’aria di chi la sa proprio lunga.
Ci incamminiamo di nuovo verso le macchine e io non riesco più a pensare a nient’altro che al mio bisogno di pisciare e che fra qualche giorno, tornato a Padova, ci vado davvero a iscrivermi a questa palestra di boxe, e mi compro un sacco da attaccare al soffitto di camera mia e ci passerò un’ora al giorno a dare cazzotti e tra un anno torno qua e rompo il culo a questo stronzo di un buttafuori di merda.
Poi siamo di nuovo tutti in macchina. Io sempre nella Clio magenta del sergente dei marines, tutto gasato con la splendida Arianna ancora un po’ torbida al suo fianco. Seduti dietro con me ci sono Lisa, l’amica di Arianna, e un altro tipo di cui non saprei che dire, se non che il pizzetto gli conferisce una tremenda faccia da scemo.
Manco il tempo di salire in macchina che il nostro sergente dei marines comincia subito a spacconare, fa fischiare le ruote in partenza e in via G. B. Fardella si mette a gareggiare con l’altra auto, una Punto bianca. Si sorpassano a vicenda facendosi boccacce e facce strane che secondo loro dovrebbero essere buffe e mostrandosi l’un l’altro il dito medio. Tra la nostra e l’altra auto è uno sghignazzare continuo, a parte me, che non ci trovo un cazzo di divertente in questa situazione e Arianna che non è ancora riemersa dal pozzo di delusioni amorose e Red Bull con vodka liscia in cui è sprofondata. In via Marsala i due piloti passano agli spiritosi apprezzamenti verso le reciproche sorelle. Adesso siamo di nuovo in testa noi e il nostro Sergente comincia ad andare a zig zag per coprire entrambe le carreggiate e scoraggiare ogni tentativo di sorpasso da parte dell’altro coglione. Superiamo il passaggio a livello e ben presto siamo fuori dal centro abitato, fuori dalla zona industriale, lungo la via del sale.
Il pilota della Punto, vista l’impossibilità di sorpassarci, decide che è divertentissimo provare a metterci paura avvicinandosi velocissimamente al nostro paraurti, fingendo di volerci tamponare.
“Figlio di buttana, ora ti fotto io” grida il Sergente, e comincia tutta una serie di manovre di accelerazioni e frenate improvvise e poi di nuovo accelerazioni. Ma è proprio in una di queste manovre che la Punto si infila alla nostra sinistra per sorpassarci. Il Sergente però, con tutto l’alcool che si è bevuto stasera, figuriamoci se ha voglia di farsi fottere. Scala in terza per fare andare su di giri il motore e spinge a tavoletta. Per un bel po’ restiamo testa a testa lungo tutto il rettilineo e le curve che incontriamo e io penso che se viene una macchina di fronte loro sono fatti e molto probabilmente anche noi. E poi a un certo punto arriva la curva, una curva vera, una di quelle che non puoi sperare di prenderla in quinta a 120 all’ora, lo capisce anche un bambino, e poi stronzo di un sergente, hai una fottuta Clio del cazzo, mica una Ferrari, e nemmeno una BMW, e dunque “porco mondo frena!” gli urlo.
“Sono in corsia interna, ce la faccio.”
Guardiamo la punto a fianco a noi e loro ci guardano e tutti, dico tutti, hanno occhi pieni di preoccupazione e luminosi punti interrogativi sulla testa e tutti vorremmo sapere cos’hanno quei due nel cervello e quale destino ci aspetta dietro la curva, mentre lei, la curva, si avvicina così in fretta che…
“Frena” dice l’amica di Arianna.
“Ce la faccio, ti dico che ce la faccio.”
“Compare, frena” gli grida il tipo con il pizzetto.
E qualcuno frena, in effetti, ma non è il Sergente, non siamo noi. Sentiamo il fischio stridulo degli pneumatici della Punto che si consumano sull’asfalto come un pezzo di Parmigiano sulla grattugia e nello stesso istante ci accorgiamo che la curva è lì, ci siamo già in mezzo, con la nostra velocità chiaramente eccessiva. Il Sergente capisce che quella cazzo di curva è molto più brutta di come se la ricordasse e non c’è più il tempo per scalare le marce e non è nemmeno il caso di pensare a frenare perché si bloccherebbero le ruote e l’auto finirebbe dritta dritta sulla corsia opposta e si schianterebbe sul guardarail, sempre sperando che non giunga una macchina di fronte…
In quella frazione di secondo che gli rimane per pensare, il Sergente decide che l’unico modo di affrontare la curva è prenderla più stretta possibile, ed è quello che fa. Imbocchiamo la curva con le ruote di destra che sfiorano il cordolo della strada, ma è chiaro fin da subito che non basterà. Il Sergente sterza ancora un po’ a destra, spera che qualche centimetro ancora basti a salvarci la pelle, ma… cazzo, basta proprio poco per mandare tutto a puttane.
La ruota anteriore destra tocca il cordolo e ci ribaltiamo. Uno, due, tre e non so quante volte ancora.
Quando riapro gli occhi, dopo un lasso di tempo che potrebbe essere un secondo o un’eternità, faccio fatica a capire dove sono. So solo che è tutto troppo buio e troppo stretto. Non riesco a muovermi, posso a malapena respirare, ma la cosa più spaventosa è che non sento più il mio corpo, non so dire cosa c’è ancora e cosa mi manca. Le gambe in basso, per esempio, le avverto solo come qualcosa di pesante, quindi forse ci sono ancora, ma non saprei dire in che stato siano.
Mi passo la lingua fra i denti, e anche quelli sembra ci siano ancora ma ho un sapore tremendo in bocca. La mia lingua sguazza in un liquido caldo e denso. Provo a sputare. Un miscuglio di bava e sangue e non so cos’altro mi cola giù lentamente per il mento e la guancia. Mi brucia tutta la faccia e vorrei tanto potermi guardare allo specchio o avere almeno qualcuno davanti che possa giurarmi che non me ne andrò in giro per il resto dei miei giorni con una frittata al posto del naso e che anche tutto il resto è apposto, cioè niente guance aperte in due come sofficini o un occhio che penzola fuori dalla sua orbita. Mi viene in mente che potrei provare a muovere un braccio per toccarmi la faccia e cercare di capire cosa c’è ancora e cosa invece è sparso qua e là, se brandelli di carne e ossa del mio volto sono adagiati sul tappetino della macchina e cosa invece è volato fuori dal finestrino e adesso è sull’asfalto, in attesa di essere rosicchiato da un branco di cani randagi. Ma non riesco a muovermi, anche il più piccolo movimento mi sembra impensabile, come se non l’avessi mai fatto in tutta la mia vita.
Solo ora mi ricordo che devo pisciare, che è da quando siamo andati via dal Muna che ho la vescica piena e vorrei tanto lasciarmi andare, ma non mi sento ancora pronto per abbandonare ogni dignità. Per quello che ne so potrei anche ritrovarmi con i pantaloni sbrindellati e finire col pisciare addosso a qualcuno.
Già, qualcuno, che fine hanno fatto gli altri? Per un attimo mi viene in mente di provare a chiamare, e stare a vedere chi mi risponde, ma poi dubito di riuscire a farlo. Mi mancano le forze e ho troppo poca aria nei polmoni. L’idea di non riuscire nemmeno parlare è troppo destabilizzante. Meglio prima cercare di capire come sto io, e poi si vedrà come stanno gli altri.
Provo a muovere un piede, “ma se anche non dovessi riuscirci,” mi dico, “ci potrebbero essere mille altri motivi per cui non sono in grado di muovermi, e questo non significherebbe necessariamente che ho la colonna vertebrale spezzata. Giusto?”
Mi prendo qualche minuto in cui raccolgo tutte le forze e il coraggio di cui dispongo. Poi mi concentro sul mio piede destro e, che meraviglia, le dita si muovono all’interno della scarpa. Poi provo con la caviglia e… dio, non sono mai stato così felice di muovere la caviglia o di compiere un qualsiasi altro movimento. “Cioè, cazzo, dove si è mai visto uno paralizzato alle braccia e non alle gambe?” penso, e mi viene da ridere, ma subito mi prendono dolori lancinanti per tutto il torace. Lascio perdere. Per un attimo mi sembra di ricordare di aver visto una volta in televisione uno paralizzato alle braccia e non alle gambe, o forse me l’hanno raccontato, ma poi, no, certamente mi sto sbagliando. La mia schiena è apposto, e io sono felice, potrei averci anche il cranio aperto in due, per quello che ne so, e la mia materia grigia potrebbe essere lì che cola giù (forse è questo quel gusto orrendo che sento in bocca) ma io mi sento felice.
Che fine hanno fatto allora gli altri?
Muovo lo sguardo intorno per vedere se avvisto porzioni di corpo umano nei paraggi, ma è troppo buio e il mio angolo di visuale è troppo stretto. Qualcosa mi dice che potrei essere stato catapultato in avanti fin sotto il cruscotto nella parte anteriore destra dell’abitacolo. Ma se così fosse dovrebbe esserci Arianna vicino a me. O forse lei è stata catapultata all’indietro e adesso si trova sottosopra al mio posto. Mi si forma in testa l’immagine di tutti noi sballottolati dentro l’abitacolo come calzini in una lavatrice.
Comunque sia non riesco a vedere Arianna, non vedo niente che possa assomigliare lontanamente a un suo braccio, o a una sua gamba o a una qualsiasi altra parte del suo corpo. Vorrei che non si fosse fatta niente, più di ogni altra cosa vorrei che lei non si fosse fatta niente. Cioè, prima di tutto vorrei non averci la faccia spappolata o il cranio aperto in due con il cervello che cola giù come il tuorlo di un uovo dal guscio rotto, e poi vorrei che lei non si fosse fatta niente. Provo a chiamarla, cerco di far entrare più aria possibile nei polmoni, ma non mi escono le parole di bocca. È come se mi fossi scordato come si fa a parlare. O forse lo so ancora come si parla, ma è probabile che ho uno squarcio all’altezza della carotide e l’aria che non passa più attraverso la mia gola non può far vibrare le corde vocali e dunque mi è impossibile emettere suoni.
A un certo punto mi sembra di sentire un respiro provenire da dietro le mie spalle. Anzi, non è proprio un respiro, è un rantolo, neanche, è più un boccheggio, come se qualcuno stesse facendo una sauna troppo calda. Ma non sono sicuro di averlo sentito davvero. Provo a restare in ascolto per vedere se lo sento di nuovo, ma niente. C’è troppo silenzio, un silenzio così innaturale che non sembra di questo mondo. All’improvviso capisco di non poter essere sicuro di nulla: tutta questa improbabile lucidità con la morte che potrebbe essere lì, pronta a ghermirmi da un momento all’altro… mi assale il panico. Potrei essere già morto, o essere sul punto di morire, magari ho il freno a mano conficcato nella pancia, o potrei aver perso già troppo sangue per sperare di salvarmi, e magari poco fa non stavo affatto muovendo la caviglia, era solo un’impressione, tutto ciò potrebbe essere solo una mia impressione…
Sono queste le ultime cose che penso prima di perdere i sensi.
Quando riapro gli occhi sento un sacco di voci intorno a me. Due paramedici parlano fra loro mentre mi sistemano un collarino sotto il mento. I vigili del fuoco hanno tagliato via la cappotta dell’auto e adesso c’è più luce intorno, ma l’auto è così sbrindellata che non riesco lo stesso a capire in quale posizione mi trovo rispetto al mio posto a sedere al momento dell’incidente. L’aria fresca della sera mi pizzica la fronte e le guance ed è una sensazione bella, la sensazione di essere ancora vivo.
“È in sensi,” grida uno dei paramedici a qualcun’altro. “Mi senti?” mi domanda, “è tutto apposto, ora ti sistemiamo il collare e poi ti tiriamo fuori di qui.”
“Avete anche il guinzaglio?” domando, con quel po’ di voce che mi ritrovo, ma quello non capisce.
“Si, si, stai tranquillo, ora ti tiriamo fuori di qui.”
“Ho il naso fracassato?”
“Come?”
“Il naso, com’è?”
“Ce l’hai ancora.”
Tutta questa gente intorno, persone che non riesco a vedere in faccia, ma so che ci sono, e sono lì, e provano a salvarmi la vita, non so come dire, danno speranza…
Mi riapproprio pian piano di tutte quelle sensazioni che per tutto il tempo che sono stato lì, a chiedermi se fossi ancora vivo, avevo perso, e solo adesso mi accorgo di averci i pantaloni bagnati.
“Mi sono pisciato addosso” dico, mettendomi a ridere.
“Si, ti sei pisciato addosso.”
“Mi sono pisciato addosso…” rido così tanto che cominciano a farmi così male le costole che è come se qualcuno me le stesse prendendo a martellate una a una. Ma non me ne frega niente, mi sono pisciato addosso, posso sentire il puzzo di urina che sale su dal basso e la sensazione di mutande bagnate e di jeans bagnati e sono troppo felice per questo.
“Se avessi la schiena rotta non le sentirei le gambe, giusto? Cioè, il fatto che sento che sono bagnato, è una cosa positiva, giusto?”
Ma nessuno mi risponde.
Svengo ancora un’infinità di volte prima che riescano a tirarmi fuori dalla macchina. L’ultima cosa che ricordo è che riapro gli occhi e sono disteso su una barella. Il cielo è proprio sopra di me con delle stelle così grandi che sembra un enorme albero di limoni e mi basta allungare una mano per raccoglierli tutti. Ci viene fuori un’immensa granita.
“Salvate Arianna” dico, mentre mi caricano sull’ambulanza, “vi prego…”
2 Commenti:
WOW. Bel racconto, davvero!
Ma ben tornato!!!
Mi chiedevo, infatti, dove fossi finito!
Hai visto che piano piano il mio cervello si è messo in moto?
Si vede che leggo Dylan Dog?
Ah ah ah...
Grazie per i complimenti, li accetto volentieri!
Accetto anche critiche lo sai vero? Si, sempre con le modalità indicate, logico(eh eh eh)!
Ti dirò che con i BASTARDISIDE c'è da penare non poco, prevedo guerra ma, d'altra parte, me li cerco con il lanternino per cui...
Spero che il tuo PC si rimetta presto. Non vedo l' ora di leggere quello che ti ha suggerito questa vacanza. Per quanto, sarei moooolto più curiosa di leggerti dopo un anno trascorso ad insegnare ad una caterva di bimbetti urlanti!
Per il linkaggio...ti conviene seguire Blogspot e le sue direttive sui link ( ehm, non saprei proprio spiegartelo eh eh eh).
Per il resto, buon rientro a Padova, spero non ti risulti oltremodo traumatico. Sai com'è, arrivi fresco fresco dalla tua bella Sicilia...
Ciao Killer seriale, a presto!
Un bacio
Silvia
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