martedì, luglio 25, 2006

racconto: saluti estremi



questo racconto è il seguito del precedente che avevo intitolato, senza rigfletterci troppo, "una serata alla grande" e che invece, ripensandoci bene, mi piacerebbe intitolare "salvate Arianna".

l'immagine qui a fianco è un dipinto di Van Gogh di cui non conosco il nome.

ovviamente le immagini che inserisco c'entrano poco e niente con quello che scrivo, ma ritengo che abbelliscano il blog.

Ps: anche se spesso utilizzo me stesso come protagonista dei miei racconti, questi sono totalmente inventati. io sono ovviamente molto peggio del personaggio che descrivo.


Hanno aspettato che uscissi dall’ospedale per dirmi che Elvis stava morendo. Forse pensavano che non avrei retto al colpo, che mi sarei spezzato anche l’altra gamba, o che avrei ingoiato tutte le pagine della settimana enigmistica fino a soffocarmi. Se penso ai loro teatrini mi metto a ridere, quell’orrenda sfilata di parenti e parentini e sottospecie di amici…
“Com’è successo? Guidavi tu?”
“Compare dimmi chi è questo figlio di troia cha gli vado a rompere il culo…”
Io con i miei otto punti di sutura in bocca… tutte le volte che non avevo voglia di parlare bastava mordicchiare un po’ per farli sanguinare, una cosa troppo spacchiusa. Così potevo evitare tutti quei sorrisini forzati che faccio di solito ai cugini della mamma: “lui è il parrino di…” e giù elenchi di perfetti sconosciuti che fingo di conoscere, altrimenti le spiegazioni si sprecano.
C’è di buono che come arrivano se ne vanno.
“Chi cazzo era quello?”
Mia madre spalanca gli occhi.
“Come chi era?” (è proprio allibita), “non hai mai sentito parlare di Mastro Lindo?”
Hanno tutti soprannomi strambi, i parenti di mia madre... Schifosi corvi della malora, spuntano solo quando c’è di mezzo una disgrazia, o un’eredità da spartirsi.
Già me li immagino al mio funerale: “Che disgrazia! Così Giovane”; “Io lo sapevo che sarebbe finito male”; “se l’è cercata…”; “non c’è mai stato tanto con la testa…”; “a quanto pare non è vero che è andato a Padova per insegnare, ce l’ha mandato sua madre per allontanarlo da certe brutte compagnie…”; “sicuro come la morte, guardalo in faccia: quello si drogava”; “non ha mai avuto voglia di fare niente, era un fannullone.”
Preferisco una corona di crisantemi ai piedi del letto che un parente dentro la stanza, mi mette più allegria.
“Com’è stato l’incidente? E tu come stai? Che ti sei fatto?”
Piuttosto mi cappotterei altre dieci volte, magari in diretta tv, a reti unificate, almeno non mi toccherebbe raccontarlo a tutti.
“Otto punti in bocca, altri dieci dietro l’orecchio, la tibia della gamba destra spezzata in due punti, praticamente tutte le costole incrinate… il resto lo potete vedere.”
Iaco mi guarda la faccia tutta piena di lividi viola. Chiude gli occhi, lo aiuta a comporre un’espressione turbata, a metà tra la sofferenza e la paura, le labbra che si increspano… è un campione a fare le facce, ha una dote naturale.
“Cazzo compare, quando l’ho saputo… non ci volevo credere che c’eri tu in quella macchina… ma come cazzo è successo…”
Mio dio ti prego…
Poi arriva anche la stronza di Anna.
“Ma perché ve ne siete andati così? Io e Patrizia stavamo tornando, eravamo andate a comprare le sigarette…”
Le faccio un sorriso fasullo, il migliore di cui disponga, così se ne può andare leggera, e prima possibile.
“Ti ho comprato il sudoku,” dice, prima di sparire dietro la porta.
Poi finalmente arriva il giorno che vengo dimesso.
Mi godo gli sguardi delle ragazze lungo il corridoio dell’ospedale. Mi piacciono i loro occhi pieni di compassione mentre, aggrappato alle stampelle, zampetto piano verso l’uscita. Sono tutte mamme, tutte infermierine, camice e biancheria candidi, potrei chiedere a una qualsiasi di loro di occuparsi di me e… come potrebbe dirmi di no, dopo vermi guardato in quel modo?

A casa è una pacchia, passo tutto il giorno a giocare campionati di calcio alla play station: gli faccio un culo così a sti gobbi di merda.
L’unica cosa mia madre non vuole che chiuda a chiave la porta della mia stanza, non si sa mai dovessi avere bisogno di qualcosa… per farmi le seghe mi tocca chiudermi nel cesso, come facevo ai tempi delle superiori. A parte questo però non è niente male questa degenza. I parenti hanno smesso di venirmi a trovare. L’ospedale lì attira di più. Vogliono il sangue quelli, sono vampiri.

La pacchia dura solo una settimana però, poi ricomincia lo scazzo.
Mia madre infila la testa nella stanza mentre sono intento a vincere lo scudetto con l’Inter (solo alla play station succedono ‘ste cose).
“Iaco e Anna vengono a mangiare da noi, avrai voglia di un po’ di compagnia, no?”
Grugnisco senza alzare gli occhi dal monitor.
“Sto facendo la zuppa di cozze…”
“Bene.”
“Volevo prendere anche i ricci, ma non li avevano… il mare è stato brutto in questi giorni.”
“Porca Eva sto cazzo di coso…”
Agito in aria il joystick.
Lei ci resta male, ha voglia di fare conversazione, ma per fortuna non è una che si accanisce su certi propositi.
“Fra una ventina di minuti sarà pronto” dice, e sparisce.
Quando non ho voglia di parlare, mi invento un problema tecnico. Funziona sempre.
Anna e Iaco faticano a trovare argomenti di conversazione nuovi, per cui riciclano quelli utilizzati in ospedale.
“Com’è compare? Come va? Come stai?...”
Sono una palla, e io non c’ho nemmeno più la scusa dei punti in bocca.
Finito di mangiare beviamo il caffè. Quei due figli di buttana si accendono le loro belle sigarette e se le fumano davanti a me, belli pacifici e appagati, con la panza piena delle cozze di mia madre. Non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello che anch’io posso averci il desiderio di una paglia. Eppure lo sanno che da quando ho ripreso a fumare lo faccio di nascosto. Che bastardi.
Li invito ad andare nella mia stanza a sentire un po’ di musica.
“Ho l’ultimo ciddì di Capossela.”
“Magari dopo…” fa Anna, ruotando lo sguardo intorno in cerca di conferme.
“C’è una cosa che devi sapere,” dice mia madre, “e ho pensato che era meglio che fossero loro a dirtela.”.
Cerco di ricordare se ho fatto qualche cazzata negli ultimi tempi, qualcosa per cui potrei meritarmi un predicozzo, ma non mi viene in mente niente. Comunque sia negare, negare sempre, anche di fronte all’evidenza.
Non è vero, non sono stato io, siete stati informati male, è tutta una congiura…
“Compare,” fa Iaco, mettendoci dentro una pausa holliwoodiana (le pause e le facce sono la sua specialità), “devo darti una brutta notizia…”
Altra pausa.
“Elvis… sta morendo.”
Abbasso lo sguardo sulla tovaglia, sento i loro occhi su di me, la loro volontà di scoprire i miei sentimenti, fanno attenzione ad ogni mio più piccolo movimento, come si tirano e si rilassano i muscoli della mia faccia. È come avere tante sanguisughe attaccate al cuoio capelluto, vogliono fagocitare i miei pensieri, nutrirsene, e devono smetterla, non possono farlo, non è giusto, vorrei gridare “basta! Non ne avete il diritto! Smettetela!...” e invece resto zitto, mi metto un pugno davanti alla bocca e comincio a soffiarci dentro.
“...La merda di cancro allo stomaco” continua lui, “peggiora di giorno in giorno… peserà al massimo 40 chili. Se ti sei chiesto perché non sono più venuto a trovarti all’ospedale, bè, adesso l’hai capito.”
“Non ce la facevamo…” continua Anna, “tu sai quanto bene vogliamo a te e quanto ne vogliamo a Elvis, e vedere tutti e due in quello stato, scusaci ma, era proprio troppo.”
“Certo, lo capisco.”
“Tra i due dovevamo fare una scelta,” continua Iaco, “e non volercene se abbiamo scelto quello che credevamo ne avesse più bisogno.”
“Avete fatto bene.”
“Non che tu non ne avessi bisogno ma, cazzo, Ettore…” Iaco sospira (è un campione di sospiri, e di facce e di pause), “quando vedrai Elvis capirai di cosa stiamo parlando.”
Gli metto una mano sulla spalla per rassicurarlo, ma la tolgo subito, non sono fatto per i contatti fisici.

Il giorno dopo mi infilo in macchina con mia madre e mi faccio portare da Elvis. So che è quello che tutti si aspettano da me, per questo lo faccio. Non voglio che si sospetti che sono un insensibile, certe qualità preferisco tenerle nascoste.
Mia madre mi accompagna fin dentro la stanza di Elvis, seguendo con attenzione i miei passi strascicati sulle stampelle. Si ferma qualche istante a parlare con i genitori del mio caro amico e poi si dilegua, lasciandomi solo con tutti loro.
La faccia di Elvis fa impressione, è tutta giallognola, sembra gli abbiano scarnificato la testa per poi ricoprire il teschio con della carta da cucina.
Sua madre mi fa accomodare su una sedia ai bordi del letto.
Per i primi 20 o 30 minuti mi tocca sorbirmi la cronistoria minuziosa della malattia di Elvis. Lo sapevo, ero preparato a questo. Spero solo non si scivoli troppo sul melodrammatico.
Il padre ce l’ha più col destino; la madre con i dottori: sono degli incompetenti, dei superficiali, potevano salvarlo se… ha visto troppe volte “E.R.”.
Guardo Elvis: dubito che quella sia la faccia di uno che avrebbe potuto cavarsela se solo avesse incontrato medici un po’ più in gamba.
“Dobbiamo operarlo prima possibile, dicevano, e poi cambiavano idea, gli davano quelle porcherie che lo facevano solo vomitare… gli hanno fatto cadere tutti i capelli…”
Scoppia a piangere.
Io non so che cazzo dire, non so proprio che cazzo dire… tengo gli occhi bassi e aspetto in silenzio. Non può piangere in eterno.
Mi domando se quei due sappiano quali erano i rapporti tra me e Elvis negli ultimi tempi, se sono al corrente del fatto che io e lui eravamo pizzicati per via di una certa ragazza che forse non ne valeva neanche la pena, ma che comunque le cose stavano così e che… si, insomma, non ci parlavamo più da un pezzo.
“Una volta questa casa era un via vai di gente, ragazzi che entravano e che uscivano in continuazione, adesso…”
Annuisco piuttosto contrito, anche se questo discorso ha tutta l’aria di essere una predica indiretta per il sottoscritto.
“Non sa quante volte ho pensato a Elvis…” dico, più paraculo che posso. Scuoto il capoccione.
“Ma tu stai a Padova” dice il padre, come se parlasse con sua moglie invece che con me, “e poi hai anche avuto l’incidente…”
“Non se la merita una cosa del genere Elvis, non se la merita…” Ricomincia a piangere.
“Ma Anna e Iaco sono venuti qualche volta a trovare Elvis, no?”
“Quei due, sono venuti una volta, hanno portato dei cioccolatini, e poi… Spariti. Chi li ha visti più? I cioccolatini a uno che ha il cancro allo stomaco…”
Adesso singhiozza.
È insopportabile la gente che piange. Vorrei catapultarmi fuori dalla finestra. Cadere dal terzo piano non può essere peggio che stare lì a sentirla frignare.
Quando entra Loris, il fratello di Elvis, la madre smette di piangere, e a me sembra un intervento divino, il deus ex machina di certi romanzi d’appendice.
“Ho parlato con don Giuseppe” dice, “ oggi non ce la fa a venire. Ha detto che fa un salto domani mattina verso le dieci.”
Sua madre annuisce, il suo sguardo si perde nel vuoto. Si sparge nella stanza un silenzio pesante dove tutti guardano per terra, oppure guardano Elvis, o il crocifisso o il bicchiere d’acqua sul comodino e nessuno guarda gli altri.
Poi il padre mette un braccio attorno alla moglie.
“Vieni,” dice, “lasciamo un po’ soli i ragazzi.”
Escono.
Loris scuote la testa.
“Non si vuole rassegnare all’evidenza. Lui… ha gia tutti e due i piedi nella fossa.”
Si avvicina al letto, prende un braccio di Elvis, lo solleva e lo lascia ricadere sul materasso.
“Bisogna guardare in faccia la realtà.”
“Già” dico, tanto per non starmene ancora zitto.
“Vuoi sapere come la penso?”
“Dimmelo.”
“Se fosse stato per me gli avrei già messo un cuscino in faccia. Hai idea di quanto tempo ha passato su quel letto? A che serve tenerlo qui in queste condizioni? È come una pianta grassa ormai, solo che un cactus non devi lavarlo tutte le mattine. C’era bisogno di arrivare a questo? I medici erano stati chiari, sapevamo che prima o poi sarebbe entrato in coma e che quella sarebbe stata l’anticamera della fine. E allora perché non farlo prima? Perché non risparmiare a lui e a tutti noi questa sofferenza? Hai idea di quanta merda ho dovuto togliergli dal culo? Sentivo sempre quel feto tremendo addosso, non la smettevo più di lavarmi le mani.”
Guarda Elvis, fa no con la testa. Si gira, arriva fino alla porta, poi ci ripensa e torna indietro.
“È tutta colpa di questa mentalità cattolica. Il Vaticano è la rovina dell’Italia. In Olanda è tutta un’altra cosa, sono molto più civili da quelle parti. Sai che fanno in Olanda in questi casi?”
“Si fanno una canna?”
“A parte quello. Ti iniettano una puntura di arsenico o di non so quale altra sostanza velenosa e nel giro di pochi secondi sei all’altro mondo. Hanno più rispetto per la vita. In Italia invece i morti sono più importanti dei vivi. Cioè, non fraintendermi, compare, ti ho già detto come la penso: c’era bisogno di fargli passare tutto questo?”
“Si, l’hai già detto.”
“…vomitare e vomitare… non ha fatto altro negli ultimi 6 mesi. Gli usciva dalla bocca roba verde e marrone che non si capiva che cazzo era… e scaccava dalla mattina alla sera… mia madre insisteva per farlo mangiare: gli preparava i tortellini… io glielo dicevo: che cavolo gli prepari la pasta che tra mezzora la vomita tutta nel secchio?
Quando le cose andavano bene si riempiva le mutande di merda. Lo sapevano che non c’era niente da fare. I dottori e mia madre e tutti gli altri. Lo sapevano, e hanno fatto finta di niente, hanno continuato a sperare nel miracolo.”
Bò, che cazzo vuole che gli dica?
“Si, è proprio come dici tu, questo Vaticano di merda… e questo papa nuovo e anche peggio di quello di prima, più conservatore, più ortodosso… è peggio, è molto peggio.”
Annuisce senza fare nessuna espressione, sembra una carpa d’allevamento. Sta pensando che sono ignorante come una pecora e che non ne capisco niente di cattolicesimo e politica e morale e che sto solo parlando a vanvera, solo per evitare di restarmene in silenzio e farci la solita figura da fesso.
È brutto dirlo ma ha proprio ragione.
“Vabbè, ora devo andare” dice.
“Oh, aspè! Non è che ti ritrovi un po’ di erba? Sai com’è, per ora non posso uscire e sono rimasto a secco.”
“No, non ci voglio avere niente a che fare con questa merda.”
Mi fissa con un sopracciglio più alto dell’altro che nel suo caso denota uno sguardo truce.
“Dovresti lasciarla perdere pure tu quella roba: è veleno. Non vedi come si è ridotto mio fratello?...”
“Non credo c’entri l’erba, in Olanda la danno ai malati terminali come antidepressivo…” dico, convinto che basti questo a dissuaderlo dall’idea che sono un tossico di merda, oltre che il probabile assassino di suo fratello.
“In Italia mio cugino s’è beccato 5 anni perché coltivava la canapa indiana nell’orticello di mia zia. Un suo caro amico l’aveva convinto che fosse illegale solo spacciarla, non coltivarla. Ma non ci andrà in galera, ha un posto riservato nel reparto psichiatrico del Sant’Antonio Abate. Sé fumato il cervello.”
“Ah, mi spiace. E ce l’hai il numero di questo suo amico?”
Se ne va senza rispondermi sbattendo la porta.
Resto solo con lui.
“Elvis ci sei ancora? Non te ne sei andato vero?”
Gli poggio una mano sul collo per sentire il battito. Non sento niente, ma è ancora caldo.
“No, perché se sei già morto come faccio a dirti tutto quello che ti devo dire? E sarebbe ingiusto se tu te ne andassi senza darmi la possibilità di spiegarti. Ho un sacco di cose dentro che vanno su e giù… è come… hai presente quando c’è una scrivania con un sacco di fogli sopra e qualcuno apre una finestra? Ecco, io mi sento così, ho un sacco di fogli che se ne vanno in giro per la stanza e so già che sarà un casino mettere di nuovo tutto in ordine.
Tuo fratello è solo uno stronzo, immagino che questo già lo sai. Non credo a niente di tutte le stronzate che ha detto, soprattutto il fatto che sei già all’altro mondo. Io lo so che tu sei ancora qui e ci senti parlare di te e ti rendi conto di quanto siamo piccoli e meschini. Ci stai guardando, sei qui da qualche parte che svolazzi, e ci vedi tutti riuniti in questa stazione desolante ad aspettare che parta il tuo treno. Dimmi una cosa, com’è il mondo visto da quel finestrino?”
Tiro fuori il pacchetto di sigarette e ne accendo una.
“Posso? O hai paura che il fumo passivo ti faccia male?”
Rido da solo come un perfetto idiota. Del resto chi l’ha detto che non lo sono?
“ltro mondo. e sei già al'o, immagino che questo lo sai già, e per questo io non credo a tutte le stronzate che ha detto, intTi ricordi Melina, la picciotta che conoscemmo durante le manifestazioni studentesche quando si gridavano slogan contro la Jervolino? Era pazza di te. Erano tutte pazze di te. Andava dicendo in giro che le piacevi perché avevi il nome di Presley, eri bello come Dylan di Beverly Hills ed eri maledetto come Jim Morrison. Melina era una picciotta troppo avanti, portava le mutande colorate dieci anni prima che diventassero di moda. Tu la cacavi e non la cacavi, dipendeva da come ti svegliavi la mattina. Te lo potevi permettere, del resto, avevi un sacco di fiche che ti venivano dietro. Io non riuscivo a spiegarmela questa cosa, non riuscivo a capire com’era che si innamoravano sempre tutte di te: tu non somigli per niente a Luke Perry.
Facevamo le feste e tu bevevi come una spugna e ruttavi e piritiavi davanti a tutti e facevi un feto di alcol che non ti si poteva stare vicino, eppure le femmine era tutte lì che si bagnavano le mutande solo a guardarti. Quando io e Melina siamo diventati amici sapevo benissimo che lei non aveva scelto me, che gli servivo solo per poterti stare più vicino. La odiavo e allo stesso tempo la amavo ma non gliene facevo un colpa. Tu eri troppo di un’altra categoria rispetto a me. Però mi dava fastidio vedere che la consideravi una “cosa” tua. Per te era una riserva da tenere in panchina perchè prima o poi sarebbe tornata utile. A dire la verità quella tra me e Melina non era neanche questa grande amicizia, parlavamo sempre e solo di te e lei aveva sempre un buon motivo per mettersi a piangere. Facevo una fatica bestiale a convincerla che tu non eri poi così bastardo come sembravi e che… ma adesso te lo posso dire, non lo facevo per amicizia. Era solo che quello era l’unico modo per starle vicino: ascoltarla e dirle le cose che voleva sentirsi dire. Poi ci abbracciavamo e restavamo un sacco di tempo così, in silenzio, a scaldarci. Lei mi chiamava fratellino, io per dovere di corrispondenza la chiamavo sorellina… almeno fino a quando non è successo quello che è successo. Sto parlando della storia del bacio e tutto quello che è venuto dopo, con lei che a casa tua, durante la tua festa di compleanno, mi ha chiesto di fare l’amore. Nel tuo letto.
Io pensavo che sarebbe stata una cosa bellissima, me l’ero sempre immaginato come, che ne so, buttarsi da un trampolino altissimo e, lungo la caduta, non pensare affatto a quanto può essere profonda l’acqua, ma pensare solo al volo, allo stile, alla perfezione dei movimenti, e poi quel che sarà sarà.
Invece non è stato niente di tutto questo. Per tutto il tempo che è durato non ho fatto altro che chiedermi dove fosse lei, e con chi stesse davvero facendo l’amore.
Porca zozza, quello era un momento mio e io non ti avrei mai permesso di rovinarmelo ma… è tutta una stronzata questa cosa che il destino è nelle nostre mani, che ce lo facciamo noi. Per me non è mai stato così. Perché il destino è fatto anche di altre persone e tu non puoi controllare le altre persone. L’ho capito quando lei ha cominciato ad ansimare forte e a gemere e a ripetere ad alta voce il mio nome, fingendo un orgasmo che non stava avendo. Dovevi sentirla, era un orgasmo veramente strafasullo. Voleva solo che tu ci sentissi o che qualcun altro ci sentisse e te lo venisse a riferire. Io volevo solo piangere, invece, ma non lo feci, non con lei nuda sotto di me. Cercai solo di accelerare un po’ la cosa, non avevo più voglia che durasse tanto. E quando fu il momento di venirmene non lo tirai fuori. Non so se fu una scelta vera e propria o se semplicemente le cose andarono così. È vero però che dopo, per un bel po’ di tempo ci ho pensato a questa cosa, al rischio che lei restasse incinta, e forse ci ho pure sperato, perché credevo che con un bambino di mezzo lei sarebbe stata mia per sempre.
Per anni mi sono chiesto come avevi fatto a saperlo. Nessuno può averci sentiti, con tutta quella musica sparata a massimo che era persino difficile percepire i propri pensieri. Ma poi ho capito.
Dimmi una cosa: te lo ha detto proprio lei in persona o si è limitata a farlo sapere a qualcuna che certamente non si sarebbe persa l’occasione di farti questa confidenza?
Anna, per esempio.
Vabbè, non importa. Quello che conta è che tu mi hai perdonato… dovrei dire così, no?
Hai sempre avuto un cuore grande come una capanna, vecchio mio. Anche se, forse non è così difficile perdonare un ladro che non è riuscito a rubarti nulla, dico bene? I ladri sfigati fanno sempre compassione.
Adesso dirai che parlo di cose vecchie, che quello non sei più tu e che l’altro non sono più io (non è proprio così, compare, perché almeno io sono sempre quello, sempre lo stesso). Comunque hai ragione, forse è meglio passare a cose più recenti: Veronica, per esempio.
Sapevi che piaceva a me, lo sapevano tutti. Lo sapevi tu, lo sapeva lei e lo sapevano tutti gli altri. Non dovevi far altro che startene un po’ per i cazzi tuoi, eri così bravo a sparire quando io avevo bisogno del tuo aiuto. E invece io passavo da lei per invitarla a prendere un aperitivo e sotto casa sua ci trovavo te: “Elvis mi ha invitata da lui per vedere i suoi quadri...”
Le telefonavo la sera e trovavo il telefono occupato per ore, e con chi stava parlando lei? Con Van Gogh, ovviamente. E tutte le attenzioni che di punto in bianco avevi per lei… roba che prima che scoprissi che la volevo, manco ti passava per la mente di telefonarle. Non ne eri innamorato, in quel caso ti avrei capito, forse... Soltanto non potevi accettare il fatto che una ragazza potesse starti intorno senza essere innamorata di te. Eri ossessionato dall’idea di veder ridotto il tuo harem. Lei non era altro che l’ennesima figurina da aggiungere al tuo album. Purtroppo, però, io di quella figurina ne ero innamorato.
E invece lei si è innamorata di te, così, per caso: “compare davvero mi dispiace che le cose siano andate così. Io non ho fatto niente perché accadesse, e comunque se tu vuoi io mollo subito, se tu mi dici che sei innamorato di lei io ci sto niente a farmi da parte.”
“Bè, in effetti sono un zinzino innamorato di lei, si.”
Forse sono esagerato. Che male c’è se continuavi a passare ore a telefono con lei e a invitarla a casa tua a vedere i tuoi dipinti del cazzo? Del resto mi avevi promesso di lasciarla perdere, no?
Fanculo, compare, so benissimo cosa vi dicevate in quelle fottute telefonate. Perché, vedi, Veronica le registrava, così poteva riascoltarle la sera prima di andare a dormire. Era convinta che se si fosse addormentata ascoltando la tua voce ti avrebbe sognato.
Lei mi faceva ascoltare le vostre telefonate e poi mi chiedeva: “Secondo te che avrà voluto dire con queste parole?” mi chiedeva un parere “disinteressato”. A volte saltava certe parti dicendo, “no, questo non te lo posso fare sentire, è troppo personale”.
Non so se fosse sadismo il suo o se per lei il fatto di essersi innamorata di te implicava di conseguenza che io non fossi più innamorato di lei. Le ragazze hanno un concetto troppo elevato dell’amicizia tra maschi.
Ad ogni modo, dire cose “troppo personali” non è esattamente quello che io intendevo per “farsi da parte”, ma probabilmente sono io che ho una visione distorta delle cose.
Purtroppo per te lei non era tipo da accettare una “compartecipazione degli utili”. Era troppo una picciotta con le palle per accollarsi una situazione del tipo sto-con-te-ma-non-sto-con-te-perché-intanto-mi-vado-facendo-tutte-quelle-che-incontro.
Così è arrivato il momento della vendetta. Mai fidarsi delle donne, compare, dovresti saperlo.
“Elvis è uno stronzo!” diceva.
“Davvero?”
“Si. E vuoi anche sapere perchè è uno stronzo?”
“Sentiamo.”
“Ascolta questa telefonata. È proprio tutto quello che ci siamo detti due giorni fa, tutto per filo e per segno, versione integrale.”
“Bene. Non fa ingrassare, allora.”
Facevo lo sbruffone ma avrei voluto che ti sentissi tu come mi sentivo io…
Dicevi cose che per me erano tremende: “Tu non lo vuoi a Ettore. Avanti ammettilo che non lo vuoi.”
“Questo non ti riguarda.”
“Devi ammetterlo. Non te ne frega un cazzo di lui.”
“Lo dici tu.”
“Dillo che non te ne frega un cazzo di lui.”
“Gli voglio bene.”
“Quello è innamorato di te. Non puoi continuare ad illuderlo. Devi dirglielo, altrimenti non lo capirà mai.”
“Diglielo tu, allora.”
“A me non mi crederebbe. Ormai s’è fottuto il cervello.”
Sai com’è, “Quello” pensava che tu fossi suo amico…
“Tu sei innamorata di me, Veronica.”
“Io non sono per niente innamorata di te.”
“Si che lo sei, si vede lontano un miglio che sei innamorata di me.”
“Pensa pure quello che vuoi.”
In un certo senso ti ammiravo, perché io non potrei mai dire niente del genere. Io non sono mai sicuro di quello che gli altri provano per me, ho sempre la sensazione che tutte le mie relazioni siano provvisorie, se non proprio occasionali. Ho sempre paura che i sentimenti degli altri per me siano contratti a termine e non faccio che chiedermi quando scadranno.
“Lo sai che mi ha detto quello? È venuto qui ieri pomeriggio e mi ha fatto tutta una scenata di gelosia, perché dice che devo lasciarti stare. Continuava a dire “ma che vuoi dimostrare? Che cavolo vuoi dimostrare?” Pensa che per me tu sei una specie di gioco di società, che voglio dimostrare che sono meglio di lui, che posso fregargli la ragazza quando e come voglio…”
“Ha detto così?”
“Si è fottuto il cervello… fregargli la ragazza per dimostrare che sono meglio di lui…”
Te la ridevi…
Per un sacco di tempo ho pensato che la mia vita sarebbe stata migliore senza di te, se non ti avessi mai incontrato, o se, meglio ancora, tu non fossi mai esistito. E adesso sembra arrivato il momento di scoprire se avevo ragione.
Ma già mi viene il dubbio di essermi sbagliato.
Perché tu te ne vai, è vero, ma lo fai alla grande, come hai sempre fatto. Te ne vai sul più bello, come un pugile che conquista il mondiale e lo difende contro tutti i migliori pugili del mondo e poi, dopo che tutta una generazione di sfidanti è stata messa al tappeto, prima che possa nascere un nuovo campione in grado di buttarlo giù, dice: adesso basta.
Per me invece non cambierà niente. Forse appartengo a quel genere di persone che sono destinate a non essere mai felici.
Vuoi sapere una cosa? Tu adesso… io ti guardo e… fai proprio senso… hai una pelle orribile. Il tuo truccatore dovrà fare i miracoli per presentarti in modo decente per l’atto finale. Ci saranno tutte le tue ammiratrici, bagnate come sempre, anche se stavolta per un altro motivo, e tu avrai quella faccia lì, quella faccia orrenda… Ma non disperare, sono sicuro che per loro resterai un tipo arrapante anche dentro la cassa da morto. Più arrapante di me, almeno.
Ora però devo andare, si è fatto tardi. Fra poco comincia “Una mamma per amica” e non posso perderlo, perché sembra proprio che Lorelai sposerà Liuk e che Rory… bè, lei ha lasciato il college… ma lasciamo perdere.
Se vedi Lui digli che non c’ho proprio capito un cavolo di tutta questa pantomima, di questa giostra disperata che ha messo su. Mi sfugge proprio il senso di questo… correre verso il nulla. Però magari se distribuisse un po’ meglio certe cose… i soldi, la gnocca, la felicità, gli scudetti… giusto per sapere di cosa si tratta…
E poi… c’è bisogno di un po’ più di leggerezza quaggiù. Diglielo, se lo vedi...”
Mi alzo, impugno bene le mie stampelle e barcollo fino alla porta. Mi volto a guardarlo: sono sempre tristi le ultime volte.
“Ciao, Elvis. Buon viaggio.”

17 Commenti:

Blogger encefalogramma ha detto...

Ciao torbido, un'altro bel racconto! Grazie del commento sul mio blog, e' bello sapere che qualcuno mi caga! Comunque scrivi molto bene,sai?

10:21 AM  
Blogger Nuvola Passeggera ha detto...

Complimenti Torbido.

Sono riuscita a leggere solo i primi due racconti ma tornerò per leggere gli altri...

...A presto!
Silvia

1:48 AM  
Blogger Nuvola Passeggera ha detto...

...Ah ah ha!!
Ruba ruba...
.....Anche se credo che una mente creativa come la tua non abbia bisogno di suggerimenti di qual si voglia natura...!

Si sono molto interessanti, sei descrittivo, immediato e, fin' ora, mai noioso.
Mi piacciono molto i finali che ingentiliscono di molto il personaggio principale!...
PS:
Bel profilo; proprio un bel profilo che, immagino, aiuta ad acchiappare eh?!!

A presto...

(Adesso me ne manca uno solo da leggere quindi... al lavoro!! )

11:00 AM  
Blogger Nuvola Passeggera ha detto...

Ciao Torbido!
Beato te che te ne stai ancora in vacanza!
Senti, ti ho linkato nel mio blog. Spero non ti dispiaccia!
Arrivederci...dalla gattona!!
eh eh he...
un bacio.
Silvia

12:29 PM  
Blogger Nuvola Passeggera ha detto...

Ehi Torbido!!
Sei a seppellire ragazze o, sei solo rientrato nel ruolo del maestro serio e tuttodunpezzo??
E fatti sentire no?
CIAO!!

5:42 AM  
Anonymous Anonimo ha detto...

Bel post, sono riuscita a leggerlo tutto. un salutone da vicenza
luana

3:46 AM  
Anonymous Anonimo ha detto...

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Everybody has a reasonable idea about what is doable with it. Still the desire to learn more about it is simple to comprehend because knowledge can enable you. Here are just a couple of useful suggestions on this specific subject, and you can develop from that as you see fit.

The general complexities of men's and women's fashion

Both women and men may feel the demands of maintaining their wardrobe up-to-date and in season, yet men's fashion frequently seems a lot less difficult. Of course, for both genders, clothes and style options may be equally as intricate, and there are many'modern'things that could easily become fashion faux pas - who are able to say they often times see people walking around in 70s flames? On the other side, men's fashion features a few staple goods that can exist forever - which man is likely to keep an eye out of place with a good-quality, tailored suit, for example? Pick traditional pieces, colours and fabrics and you'll never look out-of-place.

Why common men's style is timeless

The traditional man's suit has scarcely changed for over a hundred years. True, there are numerous options for various situations, however they are all common in their quest for a clever, sharp try to find the individual. The great thing about common fashion for men is that it's simply fashionable simply cool. A well-groomed gentleman will more often than not look his sharpest in a well-tailored suit, and this is a testament to the design of such apparel. A match will undoubtedly be worn to work in several professions due to the professional search it provides to the person, instilling a feeling of respect and trust. Equally a match will be worn to several social situations, such as a tuxedo to a black-tie affair. This incredible versatility which allows matches to be worn in almost all functions is what gives it its eternal edge and a permanent devote men's fashion.

Contemporary movements in traditional men's style

Although classic men's styles can never be replaced, it's interesting to remember that shifts in men's fashion trends have produced particular basic garments back into fashion. The acceptance of vintage clothing, especially, has had back a wide-variety of common designs into men's wardrobes, such as that of the dandy guy. 'Dandy'is a term used to make reference to men who dress yourself in a classic yet elegant way, placing value on appearance and working in a sophisticated approach. This tendency for nearly'over-the-top'common style for men is evident from events including the'Tweed Run', wherever men and women of all ages dress yourself in obviously Victorian-style outfit and decide to try the roads on vintage bicycles - with lots of the men wearing perfect mustaches! This is just one single of several types of proof showing the resurrection of such styles. There are also numerous sites online which give attention to gentlemanly type - such as'The Dandy Project'and'Dandyism'- as well as whole internet sites such as'The Art of Manliness'specialized in providing articles on traditional men's fashion and grooming.

In summary, whilst specific areas of classic men's fashion can be brought back as new developments, the simple garments which they are based on will never fall out of fashion.

"All it requires really are a few simple clothes. And there is one secret - the simpler the better." - Cary Grant

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