10 anni dopo

Ecco qui un racconto che ci vuole un bel coraggio a pubblicare. A dirla tutta questo testo è tutto quello che un racconto non dovrebbe essere. l'idea è piuttosto confusa, e già questo di solito basta a mandare a puttane tutto il lavoro, aggiungo poi che il linguaggio è inutilmente sgrammaticato e il personaggio fa quello che gli pare in aperta opposizione con quello che l'autore (in questo caso io) si aspettava da lui. volevo una prosa molto fluida sul genere della beat generation e mi è venuta fuori una cosa che non si sa cos'è, con una punteggiatura che sembra messa qua e là a casaccio da un bambino di seconda elementare. il protagonista, che doveva essere il solito cinico, insensibile bastardo, mi si è trasformato in un filosofo della domenica con influenze new age. la storia, nel suo complesso è pasticciata e poco convincente. detto questo, potreste chiedermi perchè cavolo lo stia pubblicando lo stesso. bella domanda, me la sono posta anch'io. la risposta è che comunque questo racconto mi è costato tempo e fatica, e siccome non mi va di stare seduto alla scrivania per niente, qualcosa dovevo comunque farci. anche perchè è da questa estate che lo rileggo di tanto in tanto e provo a pensare al modo di renderlo almeno decente, senza ottenere altro che incasinare ancora di più le cose. quindi va bene, così, cioè, non va bene, ma è meglio se ci metto un punto e faccio finta di non averlo mai scritto.
sopra un'immagine dell'Isola di Formica, sulla quale è stato ambientato questo racconto. Sullo sfondo è possibile vedere Levanzo, la più piccola delle isole Egadi.
10 anni dopo
“Ecco, siamo arrivati” dice Mario spegnendo il motore.
Io e Toni saltiamo giù dalla barca e a piedi raggiungiamo l’isola.
“La Formica…” continua, Mario, “mi fa sempre un effetto… è come passare da una barca piccola a una un poco più grande. Quel faro sembra un’enorme vela ammainata…”
Si gratta la nuca.
“Tornare qui è come riavvolgere il nastro di quella sera… mi ricordo tutto, fin nei minimi particolari. A volte quando sono a casa mi pare che certe cose le vado scordando, ma quando sono qui…”
Toni sale su uno scoglio, si sbottona la patta, se lo tira fuori e comincia a urinare in mare.
“Voi date troppa importanza al ricordo, siete troppo attaccati al passato, e così perdite di vista il presente e, cosa ancora più importante, il futuro.”
“È proprio perché diamo importanza al presente che ricordiamo il passato,” ribatte Mario, “avere consapevolezza dei propri errori serve a non ripetere più le stesse stronzate.”
“Sarà, ma pi mia il passato è passato e u presente è presente. Sono due cose distinte e separate. Comparti stagni. Nella vita non ti succede mai due volte la stessa cosa. Per cui è sufficiente rifarsi alle tre regole fondamentali della vita: uno, appizza sempre in faccia, forte e pi primo; due, con le fimmine non averci mai nessuna pietà; e tri, la più importante di tutte, non pisciare mai controvento.”
“A proposito, preferirei che non pisciassi lì” dice Mario.
“E dove dovrei pisciare?”
“Dall’altra parte dell’isola, non voglio che pisci lì. È come se urinassi sulla tomba di Marta.”
“Dall’altra parte dell’isola sono controvento, terza regola fondamentale di vita. E poi non può essere ancora qui Marta, le correnti l’avranno portata al largo, sono passati dieci anni ormai…”
“Il suo spirito è ancora qui, dieci anni non sono niente per uno spirito.”
“Vabbè, allora dimmi che non si può più pisciare nel mar Mediterraneo.”
“Ho solo detto che non devi pisciare da questa parte dell’isola.”
Toni si riabbottona i pantaloni e salta giù dallo scoglio.
“Finito. Sono sicuro che Marta capirà, anche lei avrà bevuto birra, qualche volta.”
Mario lo lascia perdere. Guarda il cielo.
“Io dico che è meglio cominciare, tramonta.”
Torna alla barca e prende un borsone da tennis, lo apre ed estrae tre bottiglie di wiscky, una per ciascuno. Ce le lancia, le prendiamo al volo.
“Cazzo è sta robba?” dico.
“È quello che ho trovato.”
“Chi doveva portare i teli da mare” chiede, Toni.
“Sono sulla barca,” rispondo.
Stendiamo i teli sul terreno fatto di ciottoli appiattiti e levigati dal mare. Mario estrae delle candele e dei piattini da caffè da una delle tasche del suo borsone. Le accendiamo. Facciamo cadere le prime gocce di cera sul piattino e ci incolliamo sopra le candele. Il buio è sceso pesantemente su tutte le cose e ora nei nostri visi c’è qualcosa di spettrale. La piccola, tremolante, luce delle fiammelle ci scava occhiaie profondissime, mentre le nostre pupille si muovono rapide a fissare l’oscurità imminente.
Mario prende la parola:
“Siamo qui per ricordare Marta, scomparsa in queste acque il 15 giugno del 1996, esattamente 10 anni fa. Siamo qui per assumerci le nostre responsabilità, le nostre colpe, per pentirci e per renderle giustizia, affinché la sua anima possa riposare in pace. Siamo qui per provare a essere quegli uomini che allora non siamo stati. Siamo qui per non dimenticare.” Fa un lungo respiro. “Perdonaci, Marta… se puoi.”
“Perdonaci” ripeto.
“Amen” fa quello stronzo di Toni.
“Bene” continua, Mario, “chi vuole cominciare?”
Io e Toni guardiamo altrove, vorremmo tanto avere un compagno alto dietro cui nasconderci, come ai tempi della scuola.
“Facciamo accussì,” dice Toni, “lo tiriamo fuori tutti e tre, quello che ce l’ha più corta comincia a parlare.” Sghignazza da solo.
“Facciamo una gara di apnea, invece” dico io, “uno alla volta ci immergeremo mentre un altro cronometrerà il tempo di resistenza, chi ci sta di meno parla.”
I ragazzi sono d’accordo.
Dentro di me so di non poter competere con quel bestione di Toni, sembra gli abbiano incorporato due bombole da sub sotto le costole. Ma Mario non può battermi, con quella pancia così flaccida e le tette cascanti che sembrano due mozzarelle avariate, non può proprio battermi. Almeno così credo. Invece nel modo di immergermi mi entra l’acqua nel naso e mi viene subito da tossire perché mi arriva fino alla gola e mi brucia e così risalgo subito.
“6 secondi” dice Toni, “complimenti, hai battuto il record di apnea di Maiorca.”
Provo a convincerli che non vale, perché non ero concentrato, ma a loro non frega veramente un cazzo.
Soffio via tutta l’acqua dal naso, insieme a una bella porzioncina di morvo che rimane qualche istante a penzolare da una narice prima che con un movimento poco accorto me lo spalmi sul mento.
“Sei lo schifo della terra” dice Toni.
Con una mano mi tolgo via il morvo dalla faccia, poi me la sciacquo in mare.
“Fanculo” dico, attaccandomi subito alla bottiglia di wiscky.
“Mi sa che tocca a te” dice Mario.
Mi accendo una sigaretta. Il vecchio Irish comincia già a farmi effetto. Meglio così, non voglio pensare troppo a quello che devo dire.
“Forse certe cose devono proprio accadere,” comincio, schiarendomi la voce, “ma quando accadono a una come te, Marta, viene da pensare che il destino sceglie sempre le persone sbagliate.
Il destino… che parola inutile.
Il destino siamo noi, tutti noi. Non del tutto forse, ma almeno in parte è così. Nessuno può fare a meno di influenzare il destino delle altre persone, anche se questo può accadere a livelli diversi di profondità. E questo è quello che è successo tra noi. Tu hai influenzato il nostro destino e noi il tuo. Certo tu era una di quelle persone che fanno bene al destino degli altri, senza volerlo eri una che indirizzava la vita degli altri su strade migliori, anche se con noi non sei riuscita a farlo. Non del tutto almeno. Noi, invece…
Quando le nostre strade si sono incrociate, è stato come una lotta tra il bene e il male. Ed è stato più forte il male. Siamo come l’acido muriatico, noi, corrodiamo tutto quello con cui veniamo in contatto.”
Faccio un attimo di pausa. Inghiotto un altro sorso di wisky, tiro una boccata dalla mia pall mall, mi gratto la faccia. È come se le parole fossero tutte corse a nascondersi. Un attimo prima erano lì, e adesso… no, anzi no. Non è proprio così. Ci sono, le parole ci sono, le ho tutte, dalla prima all’ultima, è l’ordine che mi manca. È come quando aprono i cancelli allo stadio e tutta la gente che nel frattempo si era assiepata intorno, si ammucchia all’improvviso davanti all’ingresso. Le parole ci sono, devo solo metterle in fila dalla prima all’ultima, perché tutte insieme non è possibile dirle. Da qualche parte comunque dovrò cominciare, e forse l’ordine verrà poco a poco, da solo.
“Questa cosa di influenzare il destino degli altri, forse è la prima volta che ne parlo, ma è da un bel pezzo che ci penso. Me la immagino come una specie di flusso di energia, come… conosci l’effetto Kirlian? Si mette un oggetto a contatto con un foglio fotografico e vi si applica un’elevata tensione elettrica. Così facendo l’immagine dell’oggetto si imprime sul foglio fotografico e attorno ai bordi compare un alone luminescente. Qualcuno dice che quella sia l’aura vitale. Questo tipo, Kirlian, ha inventato questa tecnica e ha passato il resto della sua vita andandosene in giro a fotografare piante, animali e anche persone, e compariva sempre questo alone di luce tutto intorno, l’aura appunto, cioè la nostra energia spirituale. L’anima forse è proprio questo, l’energia dell’universo che pervade tutte le cose, esseri viventi e materia inanimata. Secondo certe filosofie orientali quest’energia non è altro che consapevolezza. Consapevolezza di quello che siamo e di quello che dovremmo essere, il nostro posto nell’immenso ingranaggio dell’universo, questo grande orologio costruito per essere perfetto, per andare alla grande… solo che in questa infinitudine di ingranaggi, c’è qualche rotella che a volte impazzisce. La pazzia è proprio questo, è perdita di consapevolezza. È come se in questo orologio che tengo al polso qualche rotellina non sapesse da che parte girare. Ecco, quelle rotelline siamo noi. Tutto l’universo è costruito su questa sorta di gerarchia della coscienza di essere. Un sasso non è così diverso da me e te, è sempre fatto di materia e di energia che tiene insieme quella materia. L’unica differenza tra me e il sasso è che io so di esistere e lui no.
L’albero ha un livello di consapevolezza più alto del sasso, è su un piano gerarchico più elevato. Certo, l’albero non ha un “io”, non dice a se stesso io sono un pino, oppure sono un abete e dunque sono un vegetale e mi stanno sulle palle i rottweiler che mi vengono a pisciare sulle radici. Non dice niente del genere. Però sa che ha bisogno del sole per sopravvivere, e di affondare le sue radici più a fondo possibile nella terra per assorbire le sostanze nutritive ed è per questo che si vedono alberi ai fianchi delle montagne crescere tutti storti, perché sanno che per sopravvivere devono cercare di dirigere i loro rami verso il sole, per poter mettere in atto il processo della fotosintesi clorofilliana. Hanno questo genere di consapevolezza.
Un cane, non sa di essere un cane, probabilmente non sa nemmeno di chiamarsi Bobby, ha solo capito che quando sente quel suono pronunciato dal suo padrone deve correre verso di lui; e sa che è divertente riportare indietro la pallina lanciata lontano, perché si beccherà una carezza in mezzo alle orecchie e ha imparato che dopo gliela lanceranno di nuovo lontano, e lui correrà di nuovo e ci saranno altre carezze tra le orecchie e pacche sulla schiena e tutto questo lo farà sentire bene.
Per noi uomini invece il discorso è più complesso. Noi pensiamo di sapere chi siamo, di essere consapevoli perché leggiamo Flaubert, o perchè dipingiamo nature morte su piatti di ceramica, o perché scriviamo “viva la fica” nei cessi della stazione, e in certe sere d’agosto, con una pioggia di meteoriti che infiamma il cielo, ci chiediamo che cosa c’è oltre quel buio, e se qualcuno accenderà di nuovo la luce dopo che saremo morti.
Ci sono filosofi che stanno lì a discutere se un albero esiste lo stesso se nessuno lo guarda…
Quando ero piccolo d’estate andavamo sempre dai miei zii in campagna, restavamo lì a goderci il fresco, a camminare in mezzo alle piante e a mangiare roba appena raccolta dai campi. La sera mi arrampicavo sopra un ulivo, mi trovavo un ramo abbastanza comodo da potermici sdraiare e abbastanza in alto da poter guardare il cielo. Restavo un sacco di tempo così, solo io e l’albero e non facevo altro che guardare il cielo. Tutte quelle stelle mi facevano sentire meno di niente…
Lo sai che ci sono un sacco di scienziati che credono che sia possibile viaggiare nel tempo?
Minchia, questa cosa è troppo spaventosa secondo me. Perché vuol dire che da qualche parte nello spazio-tempo accadono di nuovo le stesse cose che sono accadute qui 10 anni fa, e magari fra un’ora, una settimana o un anno, da qualche parte nello spazio-tempo noi staremo ancora parlando seduti su questi scogli, da quella parte vedremo di nuovo le luci di Trapani, e da quest’altra le isole Egadi, e Toni avrà smesso da poco di pisciare spalle al vento e staremo ancora bevendo uischi irlandese… E se esiste un posto chiamato passato (un posto dove forse tu sei ancora viva), allora esiste anche un posto chiamato futuro, perché il presente è il futuro del passato e anche il passato del futuro, e dunque c’è un posto dove stanno già accadendo le cose che noi vivremo domani, tra un mese, o tra dieci anni, o venti, e se questo è vero, forse non sono nemmeno io che sto pensando queste cose, forse era già scritto nel mio destino che un giorno avrei pensato e detto queste cose, qui davanti a loro, su questo isolotto in mezzo al mare, esattamente dieci anni dopo aver visto il blu del mare portarsi via te, Marta, con il tuo pareo azzurro e gli occhi azzurri e le tue dita lunghe da violinista mancata. E dunque da qualche parte c’era anche scritto che non ti avremmo salvata, e che Mario avrebbe comprato uischi irlandese e io non mi sarei mai laureato in psicologia, e che a 17 anni avrei allagato i bagni dell’istituto magistrale otturando i lavandini con della carta di giornale. E lo stronzo che la settimana scorsa si pomiciava la mia ex davanti al Caffè delle Rose, non deve prendersela con quel figlio di buonadonna che gli ha rigato la punto verde, perché era scritto nel mio destino che lo avrei fatto.
Non ti nascondo che provo un certo sollievo all’idea che non sono io il responsabile di tutte le stronzate che ho fatto, che c’è un mandante delle mie cazzate, di fronte al quale io sono solo un ignaro esecutore. Però è anche angosciante, questa prospettiva, perché io ho sempre pensato di essere anche i miei errori, di essere anche il mio passato, l’insieme delle scelte, delle decisioni prese, delle rinunce, le volte che ho ordinato una pizza alla romana perché non avevo voglia di cucinare, o che ho telefonato a scuola inventando una malattia che non avevo per poter restare a letto fino a tardi. Un miliardo di decisioni, di cose che ho fatto o che non ho fatto, un miliardo di brevissimi istanti in cui pensavo di stare affermando il mio modo di essere, guidare con un braccio appoggiato al finestrino, o prendere una granita al limone, un miliardo di piccolissimi particolari senza nessuna importanza, per i quali non ho mai pensato di poter essere fiero di me stesso, ma che adesso, di fronte a questa possibilità che la mia vita possa essere soltanto una storia scritta su un libro, che tutte le vite di questa povera umanità possano essere soltanto una storia scritta su un libro, che il libero arbitrio sia solo un’illusione, che quello che penso in realtà c’è qualcun altro che lo pensa per me, di fronte a questa prospettiva, dicevo, tutti quei piccoli momenti, e i miliardi di me stesso che li hanno abitati, mi mancano terribilmente. È come se qualcuno me li avesse rubati.
Ma non può essere così, c’è qualcosa che non quadra.
Se noi adesso ci proiettassimo nel futuro e potessimo vedere gli errori che faremo, e le sofferenze che questi errori ci procureranno… prova a immaginare cosa sarebbe accaduto se esattamente 10 anni fa, proprio qui su questo isolotto, avessimo potuto guardare nel futuro e vederci come siamo adesso, e capire il male che ci siamo fatti in tutto questo tempo per il solo fatto che nessuno di noi si è gettato in mare per salvarti la vita. Se avessimo potuto vedere allora lo squallore che è stata la nostra vita da quel momento in poi, con addosso il peso della nostra corrosività, del nostro saper soltanto distruggere tutto quello che ci capita tra le mani. Se avessimo potuto vedere tutto questo e poi tornare su quella barca, di nuovo vent’anni, con tutte le nostre idee idiote a frullarci per la testa, io dico che tutto sarebbe cambiato, sarebbe stato tutto diverso. Forse non saremmo nemmeno sbarcati su questo isolotto. Tu non saresti mai finita in fondo al mare, e tutta la nostra vita avrebbe avuto più senso. Quindi non può esserci un destino scritto, non può esserci un posto chiamato futuro dove accadono le cose che accadranno domani, perché se ci fosse, e fosse possibile raggiungerlo, poi tutto cambierebbe. Il futuro è un ventaglio di possibilità e per ogni scelta che compi ci sono possibilità che perdi e altre che trovi. Il futuro non è un racconto scritto, qualcosa di immutabile, è una mano di poker, semmai, e sta a te decidere di cambiare tre carte, o darti servito con una coppia di sette.
Ecco questa è la nostra consapevolezza. Tutti noi dovremmo vivere sapendo che ogni nostra decisione, ogni cosa che facciamo o non facciamo, influenza il corso degli eventi, ricade sul nostro destino e di riflesso sul destino di chi ci sta intorno, e come un sasso lanciato in uno stagno, che crea cerchi concentrici che si allargano e arrivano fino ai bordi dello specchio d’acqua, allo stesso modo, ogni nostra piccola decisione crea questi cerchi concentrici di energia tutto intorno, e influenza il mondo intero, dalla persona che ci sta di fronte fino all’ultimo uomo sulla faccia della terra, e noi dovremmo vivere sapendo questo, sapendo che il nostro agire influenza il destino dell’umanità, che attimo dopo attimo, ognuno di noi contribuisce a creare e modificare il futuro dell’universo. Dobbiamo essere consapevoli di questo nostro ruolo di costruttori dell’universo, perché se non lo siamo, qualcuno ci andrà di mezzo, noi stessi, o le persone che ci stanno vicine, com’è successo a te 10 anni fa, o qualcuno dall’altra parte del mondo che magari adesso sta morendo perché noi avremmo potuto fare qualcosa e non l’abbiamo fatta. Se non sei consapevole… allora sei come un ingranaggio di un orologio che non sa da che parte girare. E mi viene da dire che noi siamo stati questo fino ad oggi, e che sarebbe bene che non lo fossimo più. Quelli come noi, quelli che non hanno consapevolezza, quelli che non sanno da che parte girare, sono un pericolo per se stessi e per gli altri, sono un pericolo per il mondo intero. Meglio essere un sasso, allora, perché un sasso ha sempre la giusta dose di consapevolezza, che è una consapevolezza minima magari, ma che non è mai meno di quella che dovrebbe essere. Un sasso non è mai un pericolo per l’universo, almeno fino a quando non finisce in mano a un teppista deficiente che lo lancia contro il vetro di una macchina. Un sasso non è mai un pericolo per l’universo, l’uomo lo è.”
Mi accendo una sigaretta e mi caccio in bocca la bottiglia di irish. Non ho mai fatto un discorso così lungo, non ci sono abituato, per cui non sono sicuro di essere d’accordo con quello che ho detto, non sono nemmeno certo se quello che ho detto è chiaro o meno, se sono riuscito ad esprimere quello che veramente volevo dire, o se mi sono incasinato, se sono stato confusionario, tutti quei discorsi cominciati e lasciati a metà, accavallati, dire una cosa e poi dirne un’altra, i concetti nebulosi che si inseguivano e io provavo a dire tutto quello che mi veniva in mente, perché, pensavo, alla fine capirò quello che intendo dire, alla fine mi verrà in mente anche una conclusione per tutto queste parole e tutto finalmente apparirà chiaro, inconfutabile e illuminante. E dopo un discorso così, io non faccio mai discorsi, perché sono convinto di non saperli fare, ma dopo un discorso così, dicevo, vorrei tanto poter bere questo uischi irlandese senza fare nessuna smorfia, senza strizzare gli occhi, o fare una faccia schifata come succede sempre ogni volta che mi ritrovo questa roba in bocca. E vorrei anche vedere stupiti i miei amici, affascinati per le mie parole, e che dicessero che non se l’aspettavano che in me ci fosse tanta profondità. Tutto qua, davvero, solo il loro stupore e bere uischi come un cowboy, come se questo fosse un vecchio film americano.
Ma c’è troppo mare intorno perché sia così.
“Bel discorso, ma non sono sicuro di averci capito granchè” fa Mario.
Ci resto male, mi aspettavo tutt’altra accoglienza perle mie parole, mi aspettavo luccichii negli occhi, e bocche spalancate che non riescono a dire wow! Però lo vorrebbero, farebbero di tutto per dirlo, e certi fremiti come quando si assiste alla manifestazione del genio, come stare di fronte a Picasso mentre dipinge, o ascoltare Chopin che suona un notturno, come quando Maradona scartò tutta la squadra dell’Inghilterra ai mondiali dell’86 o… insomma, incredulità, che qualcuno dicesse impossibile, no, no, non ci credo, è successo davvero…è successo davvero, qui, davanti ai miei occhi… invece…
“Cioè, io intendevo dire che la consapevolezza… cioè, forse non mi sono spiegato bene… Toni, tu che ne pensi?”
“Io penso che le tradizioni vanno rispettate” dice Toni.
“Certo, appunto” dico, “le tradizioni sono un forma di consapevolezza di…”
“Rum e pera, quella sera di dieci anni fa stavamo bevendo rum e pera. Perché hai preso stu schifo di uischi?”
“È quello che ho trovato, ti ho detto.”
“Abbiamo sempre vivuto rum e pera. Tutti i 15 luglio del cazzo che mi costringete a passare con voi in questo merdoso isolotto, abbiamo sempre vivuto rum e pera.”
“Questo non è un party, è una commemorazione. Noi veniamo qui per estinguere un debito.”
“Vaffanculo tu e le tue regole del cazzo.”
Toni si alza, fa dieci metri verso la base del faro, resta fermo qualche istante a fissare la parete cilindrica e poi torna indietro, scalcia una pietra che si trova sul suo percorso e si rimette a sedere con noi.
“Tanto dove cazzo posso andare?”
Mario si volta ancora verso di me.
“Dovevi finire il tuo discorso, mi sembra…”
In realtà pensavo di averlo già finito, ma evidentemente le somme che avevo tirato erano somme soltanto per me, loro aspettavano qualcosa di più chiaro. Non potevo chiuderla lì, ormai ero lanciato, ero entrato nell’ottica di un me stesso fine oratore, dovevo andare fino in fondo.
“Si, certo, e vorrei prendere spunto dalle tue parole, quando dici che siamo qui per ricordare… insomma, mi sembra che in tutti questi anni che ci siamo ritrovati qui è stato come mettere su sempre la stessa cassetta, e discutere sempre delle stesse cose, come il megadirettore generale di Fantozzi, che costringe i suoi dipendenti a vedere sempre lo stesso film, “La corazzata Potiomkin”, e si aspetta ogni volta un’emozione nuova, un commento diverso, qualcosa di più del solito elogio al montaggio analogico. Ecco, dunque io direi, che noi oggi siamo qui per prendere coscienza, vedere in che modo è cambiato il nostro modo di guardare il mondo in tutti questi anni dalla morte di Marta, cos’è cambiato nel nostro modo di voltarci indietro e ricostruire il passato.
Io, per esempio… le prime volte che siamo tornati su quest’isola, parlo dei primi tre o quattro anni, c’erano momenti in cui avevo l’impressione che lei fosse ancora qui con noi, che fosse seduta in mezzo a noi, non il suo fantasma, ma proprio lei, Marta, come se non fosse mai successo nulla. E mi aspettavo di vederla spuntare fuori da un momento all’altro, di voltarmi a destra o a sinistra e accorgermi di lei, aspettavo che uscisse fuori con una delle sue battute che non facevano ridere mai nessuno, perché lei non aveva proprio i tempi per le battute, e poi faceva delle premesse lunghissime, troppo ricche di particolari e di spiegazioni e così capivi con troppo anticipo quello che stava per dire. Non aveva il dono della sorpresa. Insomma non ti veniva per niente da ridere, al massimo le facevi un sorriso, ma la maggior parte delle volte la prendevamo per il culo per le sue battute che facevano davvero schifo. Comunque io avevo questa impressione della presenza di lei, ed era un’impressione proprio bella, perché lei era quella di sempre, quella che abbiamo sempre conosciuto, con quella sua pelle distesa e trasparente, e non era per niente incazzata, non c’era niente che lasciasse credere che ce l’avesse con noi perché nessuno quella notte si è buttato in mare per lei.
Poi, però, con il passare del tempo non è stato più così, nel senso che non ho più pensato che lei fosse qui con noi, e adesso… ci credi che a volte non mi ricordo nemmeno la sua faccia? È come se qualcuno m’avesse sfregato un’enorme gomma sulle tempie per cancellarmi il ricordo della sua faccia. Solo che non ha fatto in tempo a cancellare tutto, ha smesso prima che io perdessi anche la forma del viso, quell’ovale allungato che si stringeva improvvisamente verso il mento, e i suoi capelli biondo cenere, ricci ma non troppo, che erano come una specie di… hai presente la parte tutto intorno alla pizza, che poi in mezzo c’è il pomodoro e la mozzarella? Ecco i suoi capelli mi facevano questo effetto e tutto il resto era il condimento. Mi ricordo questo e basta, i suoi capelli e i suoi occhi azzurri in mezzo. Mi manca la forma della sua bocca, tranne il sorriso, e mi mancano il naso e le sopracciglia e gli zigomi e la rotondità delle guance. A volte penso a Marta e vedo una ragazza dal viso ovale e con i capelli ricci e gli occhi azzurri e poi basta, nulla più. Una ragazza senza faccia, gli occhi chiari che si aprono su una superficie piatta, senza nemmeno le orbite, solo le palpebre che si aprono e l’azzurro delle pupille. Ogni tanto vedo anche la sua bocca che sorride, ma di solito no. Se non sorride invece non c’è niente, scompare proprio tutta la bocca con le labbra e tutto il resto. È una cosa così triste… perché io sento ancora il bisogno di averla dentro di me, e di avercela tutta intera, e questo deteriorarsi della sua immagine, del ricordo che ho di lei, è una cosa a metà tra il tradimento e l’abbandono. Perché noi le avevamo promesso che non l’avremmo dimenticata e io, invece, senza volerlo, ogni giorno perdo un pezzo di lei, e mi sento in colpa per questo. Altre volte invece penso che non sono io a dimenticarla, è lei che sta andando via, è lei che mi lascia solo. E mi chiedo perché.
Sempre più spesso torno a rivedere le sue foto, così completo l’immagine che ho nella mia mente, ci aggiungo i particolari che mancano. Ma ottengo solo istantanee, una Marta ferma immobile e non appena le chiedo di muoversi, ecco che scompare di nuovo tutto, e il suo viso torna ad essere un ovale piatto con al centro due pupille azzurre. Per questo, secondo me, non dovremmo ricordare solo quello che è successo quella sera, ma ricordare proprio lei, com’era fatta, dentro e fuori, quello che diceva e faceva e come lo diceva e faceva.”
“Si” dice Mario, “anch’io a volte penso a Marta e dico: era proprio così? sono proprio sicuro che lei fosse così? O questo è quello che ho deciso di ricordare perché mi fa comodo pensare a lei in certi termini? E a volte ho la sensazione che non è Marta con tutto quello che di meraviglioso c’era in lei, a mancarmi, ma solo il fatto che stare con lei mi faceva sentire importante, ci faceva sentire importanti. Marta come amplificatore del nostro modo di percepirci, come restitutrice di quel senso della vita che ci mancava; forse è solo questo che sentiamo di aver perso, forse la nostra è solo nostalgia di quando siamo stati bene con noi stessi, perché a quei tempi, senza ammetterlo, dentro di noi pensavamo che se esistevamo per una come Marta, allora esistevamo davvero.”
“Stronzate” dice, Toni, “state dicendo solo stronzate. Il fatto che una come Marta uscisse con noi non mi faceva sentire per niente meglio, per niente più esistente di prima che la conoscevo, o di dopo. Era una figlia di papà, con i soldi fin dentro le mutande. Se stava con noi era per la sua mania di protagonismo. Le piaceva che la guardassimo dal basso verso l’alto perché nella piscina che aveva in giardino ci entravano le fondamenta di tutte e tre le nostre case messe insieme. È per questo che stava con noi, perché nella sua compagnia di fighetti non la cacava nessuno, lì i soldi ce li avevano tutti.”
“No, Toni,” dice Mario, “stai soltanto nascondendo la polvere sotto il tappeto, e così facendo costruisci soltanto delle apparenze, un’illusione di pulito, ma quanto prima, lo sai, la polvere salterà di nuovo fuori.”
“Comprerò un tappeto più grande.”
Restiamo qualche istante in silenzio, un silenzio che non ci permette di ascoltare la dolce risacca del mare. I sassolini sotto di noi sono perfettamente piatti e levigati, in un mondo migliore faremmo a gara a chi li fa saltare di più sulla superficie dell’acqua.
“Certe volte dubito di avere un’anima. Quello che abbiamo fatto a Marta… mi sa che Kirlian farebbe fatica a fotografare la nostra aura” dice Mario.
“No,” rispondo, “al massimo si renderebbe conto che le nostre aure fanno proprio schifo. Dai suoi esperimenti si vede infatti che l’aura cambia in base all’umore e al livello di salute degli esseri viventi. Così c’è chi ha un’aura luminosissima e chi meno. Gli esseri viventi, per esempio ce l’hanno più luminosa degli oggetti inanimati. Ma c’è qualcosa di ancora più straordinario in questa storia. Un giorno, Kirlian fotografò con il suo metodo una foglia a cui aveva strappato una parte. Era una di quelle foglie a cinque punte che somigliano un po’ alla canapa indiana e Kirlian strappò una di queste cinque punte e poi fotografò la foglia e scoprì che l’aura era rimasta intera. Capisci? La foglia aveva 4 punte mentre l’aura continuava ad averne 5. Questa secondo lui era la prova dell’esistenza dello spirito, o comunque di una qualche forma di energia che permane anche quando parti di quel corpo non ci sono più. Come la storia dell’arto fantasma. Tantissime persone che hanno subito una qualche amputazione rivelano di sentire ancora delle sensazioni legate a quell’arto che non hanno più. Sentono dolore, o prurito, o caldo, o freddo, eppure quell’arto non ce l’hanno più. Un’altra scoperta sensazionale di Kirlian è quella che le piante hanno sentimenti. Scoprì che le piante si amano e si odiano proprio come facciamo noi. Lui osservò un albero grande, adulto che, posto vicino ad altri due alberi più piccoli, emanava un’aura avvolgente verso uno di questi due, quasi volesse proteggerlo, e un’aura di negatività verso l’altro albero. Io penso che forse farebbe bene a tutti noi poterci fotografare con il metodo Kirlian, e vedere un po’ che genere di energia malsana spargiamo sul mondo, su tutte le cose.
Marta, invece, lei era diversa, lei di sicuro aveva un’aura avvolgente, è per questo che ci sentivamo così bene vicino a lei, perché lei ci proteggeva con la sua aura calda e luminosa.”
“Sapete una cosa?” fa Toni, alzandosi in piedi, “io mi sono rotto della vostra filosofia new age e di tutta questa apologia della povera fanciulla indifesa. Marta era solo una pischella viziata e neanche tanto intelligente, altrimenti non si metteva in testa di tornarsene a casa a nuoto con tutto il rum e pera che si era calata.”
“Non si sarebbe buttata in mare se tu non le fossi saltato addosso come un animale,” ribatte Mario.
“Eravamo tutti d’accordo. Anche tu lo eri. Avevamo comprato il rum e pera apposta.”
È vero, ce l’eravamo studiata proprio bene: rubiamo una barca e poi invitiamo Marta a fare un giro con noi, la facciamo bere, così magari… eravamo sicuri che ci sarebbe scappata un’orgia.
Pensavamo che il nostro piano fosse perfetto, anche se nessuno di noi era abbastanza “pratico” in fatto di donne da poter stimare con esatta approssimazione le nostre possibilità di riuscita…
Era tutto veramente fantastico quella sera: essere così giovani e così lontani dal resto del mondo, su questo isolotto sperduto in mezzo al mare.
Il rum e pera ci aiutava a non pensare troppo e a sostenere il confronto con la disarmante freschezza di Marta. Mi piaceva quando parlava a ruota libera, era bello ascoltarla, c’era come una musica nascosta nelle sue parole. Se ignoravi il senso e ti affidavi soltanto alle vibrazioni del suono potevi sentirla.
Poi a un certo punto disse che fra tre giorni se ne sarebbe tornata a Milano e che forse non sarebbe più venuta in vacanza in Sicilia, perché i suoi genitori avevano deciso di mettere in vendita la loro villa a San Vito lo Capo.
“Promettetemi di non dimenticarmi mai.” Disse, e uno stormo di moscerini ci entrò negli occhi.
“Però cerchiamo di non diventare troppo tristi” aggiunse, “non stasera. Adesso dobbiamo solo pensare a divertirci. Barman, un altro rum e pera.”
Dieci minuti dopo se ne stava sdraiata lì, sopra quei ciottoli, con gli occhi spalancati verso il cielo.
“Gira tutto, fermate il mondo, sta andando troppo in fretta.”
Anch’io a quel punto non ci capivo più granchè di quello che stava succedendo. Li guardavo da dietro un vetro. Sentivo le loro voci lontane, come l’ultima eco che rimbalzata da una montagna. Un’eco flebile. Si muovevano pianissimo, come bradipi attaccati l fogliame di un albero. Mi dispiaceva di non riuscire a ridere con loro di tutto questo, di questa discrepanza di sensazioni tra me e Marta. In un’altra situazione avrei detto “fate andare più in fretta il mondo, sta girando troppo lentamente.”
Ma per fortuna sono rimasto zitto, è triste ricordare i momenti allegri quando sai che non torneranno più.
Ricordo che Toni stava seduto sulla stessa roccia dalla quale oggi ha pisciato in mare. E quando l’ho visto alzarsi in piedi e andare verso Marta distesa sui ciottoli a fissare il suo mondo troppo veloce, avrei voluto dire “no, dai, lascia stare, compare. Secondo me non è proprio il caso.” Però non dissi niente.
Poi non lo so bene che cosa è successo, mi mancano un sacco di particolari per poter dire con certezza quello che ho visto. C’era troppo buio, la luna non bastava. E c’era sempre quel vetro troppo spesso tra me e loro a creare una distanza ulteriore, una separazione di mondi, di dimensioni, come se fossimo nel punto di incontro di tanti universi paralleli. Eravamo tutti e 4 qui eppure non eravamo insieme, perché ognuno apparteneva ad un universo differente.
Marta era poco più di un’ombra, solo deboli sfumature cromatiche che la staccavano dallo sfondo grigio dei ciottoli e Toni, invece, Toni mi sembrava più una nube malsana, come il fumo che esce da una ciminiera. E l’ho visto distendersi sopra di lei e cancellarla, come quando fai uno scarabocchio sopra una parola scritta su un foglio. E questa cosa ha infranto il vetro, ha annullato il confine immaginario che mi separava da loro. Adesso accadeva di nuovo tutto a velocità normale, le mani di Toni la toccavano dappertutto e la sua bocca che si avvicinava a quella di Marta e lei che girava la testa a destra e sinistra per non farsi baciare.
Poi Marta si è messa a piangere ed è stato a quel punto che ho sentito Mario che diceva “basta, dai, non vedi che non vuole?”
E per un sacco di tempo l’ho odiato, Mario, per aver detto quelle parole. Perché avrei voluto dirle io, avrei dovuto dirle io, perché ancora adesso mi sentirei più pulito se le avessi dette. Invece niente, me ne sono rimasto zitto, come ho fatto sempre in tutta la mia vita ogni volta che parlare sarebbe potuto servire a qualcosa.
Dopo quelle parole Toni l’ha lasciata stare. Si è alzato ed è andato a farsi un altro rum e pera, credo. Marta si è messa a sedere, si è portata le mani al volto e ha continuato a piangere.
Io ho provato ad avvicinarmi a lei, volevo tranquillizzarla, volevo che si sentisse protetta, e le ho messo un braccio sulle spalle. Ma lei si è ritratta.
“Non mi toccare. State lontani da me. Mi fai schifo, mi fate tutti schifo.”
Ha cominciato a gridare che voleva essere riportata a casa, che voleva che mettessimo in moto la barca e ce ne tornassimo a terra, ma a quel punto anche noi avevamo tutti troppa paura. Il mare nel frattempo si era fatto grosso e poi prima di tornare indietro volevamo essere sicuri che lei non ci avrebbe messi nei guai.
“Marta stai calma. Non è successo niente, non ti facciamo niente. Siamo noi, i tuoi amici. Calmati un po’ e poi ti riportiamo a casa.”
Eravamo più cacati di lei.
A un certo punto ha visto le luci di quella barca in lontananza e ha cominciato a gridare aiuto, a saltare e ad agitare le braccia per farsi vedere. Noi non sapevamo più che fare, più le stavamo addosso per tentare di calmarla e più le mettevamo paura. E a un certo punto l’ho vista gettarsi in acqua e ha cominciato a nuotare…
Come ha potuto pensare di poter raggiungere quella fottutissima barca? Era solo un puntino in mezzo mare.
Le abbiamo gridato di tornare indietro, ma lei non ci ha dato ascolto.
“Dobbiamo salvarla” continuava a dire Mario.
“Lasciala stare” ripeteva Toni, “quando si renderà conto che non ce la può fare tornerà indietro da sola.”
E poi non l’abbiamo vista più. Abbiamo aspettato e sperato di vederla spuntare da un momento all’altro, vederla nuotare di nuovo verso la Formica, ma così non è stato.
“Non possiamo metterci sulla barca con questo tempo, non torneremo più indietro.” Diceva Toni.
“E che dovremmo fare? Lasciarla annegare?” rispondeva Mario.
“Ci sono degli scogli che emergono a qualche centinaio di metri da qui. Si sarà fermata su quegli scogli. Domani mattina, quando il mare si sarà calmato la andiamo a riprendere. Intanto lasciala lì che si rinfresca un poco le idee.”
“Non c’è nessuno scoglio che emerge in queste zone” dico, dopo un lungo silenzio.
Mi guardano entrambi con un’aria piuttosto perplessa.
“E con questo?” risponde Toni.
“Avevi detto che c’erano. Avevi detto che sicuramente Marta si sarebbe fermata su quegli scogli. Te li sei inventati.”
“Cosa dovevamo fare, annegare insieme a lei? Vi ho salvato la vita impedendovi di buttarvi in mare dietro quella pazza. Non sareste più tornati indietro.”
“Dunque dovremmo esserti riconoscenti” gli risponde Mario.
“Andate a fanculo. Mi sono rotto di questa cazzata del ricordo. Il prossimo anno ve la fate da soli la gita in barca.”
Io e Mario ci guardiamo un attimo negli occhi. Non c’è bisogno di parole.
“Hai ragione” dice Mario, “ non ha più senso essere qua. Torniamo a casa.”
Ci rimettiamo sulla barca. Il mare è piatto come una tavola e una lieve brezza ci accarezza la pelle. Ci aspettano alcune miglia di mare e di silenzio prima di tornare sulla terra ferma.
Guardo dietro di noi l’isola Formica farsi sempre più piccola e distante, fino a quando diventa solo una macchia di colore che galleggia all’orizzonte, ma so che dentro di me non sarà mai abbastanza lontana.
“C’è qualcosa che non va” dice Mario.
“Che cosa?” risponde Toni.
“Non saprei. Senti un po’ tu questo motore, fa un rumore strano.”
Toni viene dietro verso la poppa della barca e si china con la testa che quasi rasenta le acque per ascoltare il borbottio del motore.
Marco, in piedi dietro di lui, afferra un remo, guarda Toni, ci pensa un attimo, lo solleva al cielo, e per pochissimi secondi, che però sembrano molti di più, restiamo tutti e tre così, sospesi tra il vivere e il morire, ancora una volta, esattamente dieci anni dopo.
Poi però ci ripensa e abbassa il remo.
“Io non sento nulla di strano” dice Toni voltandosi verso di noi. “Cosa fai con quel coso in mano?”
“Pensavo ci fossero delle alghe attaccate all’elica.”
“E volevi toglierle con quello? Sei proprio un deficiente.”
Seduto su una poltrona a casa di Mario, un appartamentino fatiscente nel cuore della Trapani vecchia, guardo fuori dalla finestra le onde infrangersi sulla scogliera, l’acqua che diventa bianca, che si imbizzarrisce e si impenna, e resta qualche istante sospesa in aria, e poi ricade giù, dividendosi in mille goccioline.
È già passata una settimana da quando siamo tornati sull’isola Formica.
Mario mette su “Riders on the storm” dei “Doors”. Apre un cassetto della scrivania, tira fuori un panetto di fumo e comincia a rullare.
“Eravamo d’accordo che l’avremmo fatto,” dico.
Lecca la striscia di colla sulla cartina e poi la arrotola.
“Ci sono modi giusti e modi sbagliati per rimediare alle cose” risponde Mario, mentre accende il cannone, “e io sono stanco di fare sempre la cosa sbagliata.”
“Ecco, siamo arrivati” dice Mario spegnendo il motore.
Io e Toni saltiamo giù dalla barca e a piedi raggiungiamo l’isola.
“La Formica…” continua, Mario, “mi fa sempre un effetto… è come passare da una barca piccola a una un poco più grande. Quel faro sembra un’enorme vela ammainata…”
Si gratta la nuca.
“Tornare qui è come riavvolgere il nastro di quella sera… mi ricordo tutto, fin nei minimi particolari. A volte quando sono a casa mi pare che certe cose le vado scordando, ma quando sono qui…”
Toni sale su uno scoglio, si sbottona la patta, se lo tira fuori e comincia a urinare in mare.
“Voi date troppa importanza al ricordo, siete troppo attaccati al passato, e così perdite di vista il presente e, cosa ancora più importante, il futuro.”
“È proprio perché diamo importanza al presente che ricordiamo il passato,” ribatte Mario, “avere consapevolezza dei propri errori serve a non ripetere più le stesse stronzate.”
“Sarà, ma pi mia il passato è passato e u presente è presente. Sono due cose distinte e separate. Comparti stagni. Nella vita non ti succede mai due volte la stessa cosa. Per cui è sufficiente rifarsi alle tre regole fondamentali della vita: uno, appizza sempre in faccia, forte e pi primo; due, con le fimmine non averci mai nessuna pietà; e tri, la più importante di tutte, non pisciare mai controvento.”
“A proposito, preferirei che non pisciassi lì” dice Mario.
“E dove dovrei pisciare?”
“Dall’altra parte dell’isola, non voglio che pisci lì. È come se urinassi sulla tomba di Marta.”
“Dall’altra parte dell’isola sono controvento, terza regola fondamentale di vita. E poi non può essere ancora qui Marta, le correnti l’avranno portata al largo, sono passati dieci anni ormai…”
“Il suo spirito è ancora qui, dieci anni non sono niente per uno spirito.”
“Vabbè, allora dimmi che non si può più pisciare nel mar Mediterraneo.”
“Ho solo detto che non devi pisciare da questa parte dell’isola.”
Toni si riabbottona i pantaloni e salta giù dallo scoglio.
“Finito. Sono sicuro che Marta capirà, anche lei avrà bevuto birra, qualche volta.”
Mario lo lascia perdere. Guarda il cielo.
“Io dico che è meglio cominciare, tramonta.”
Torna alla barca e prende un borsone da tennis, lo apre ed estrae tre bottiglie di wiscky, una per ciascuno. Ce le lancia, le prendiamo al volo.
“Cazzo è sta robba?” dico.
“È quello che ho trovato.”
“Chi doveva portare i teli da mare” chiede, Toni.
“Sono sulla barca,” rispondo.
Stendiamo i teli sul terreno fatto di ciottoli appiattiti e levigati dal mare. Mario estrae delle candele e dei piattini da caffè da una delle tasche del suo borsone. Le accendiamo. Facciamo cadere le prime gocce di cera sul piattino e ci incolliamo sopra le candele. Il buio è sceso pesantemente su tutte le cose e ora nei nostri visi c’è qualcosa di spettrale. La piccola, tremolante, luce delle fiammelle ci scava occhiaie profondissime, mentre le nostre pupille si muovono rapide a fissare l’oscurità imminente.
Mario prende la parola:
“Siamo qui per ricordare Marta, scomparsa in queste acque il 15 giugno del 1996, esattamente 10 anni fa. Siamo qui per assumerci le nostre responsabilità, le nostre colpe, per pentirci e per renderle giustizia, affinché la sua anima possa riposare in pace. Siamo qui per provare a essere quegli uomini che allora non siamo stati. Siamo qui per non dimenticare.” Fa un lungo respiro. “Perdonaci, Marta… se puoi.”
“Perdonaci” ripeto.
“Amen” fa quello stronzo di Toni.
“Bene” continua, Mario, “chi vuole cominciare?”
Io e Toni guardiamo altrove, vorremmo tanto avere un compagno alto dietro cui nasconderci, come ai tempi della scuola.
“Facciamo accussì,” dice Toni, “lo tiriamo fuori tutti e tre, quello che ce l’ha più corta comincia a parlare.” Sghignazza da solo.
“Facciamo una gara di apnea, invece” dico io, “uno alla volta ci immergeremo mentre un altro cronometrerà il tempo di resistenza, chi ci sta di meno parla.”
I ragazzi sono d’accordo.
Dentro di me so di non poter competere con quel bestione di Toni, sembra gli abbiano incorporato due bombole da sub sotto le costole. Ma Mario non può battermi, con quella pancia così flaccida e le tette cascanti che sembrano due mozzarelle avariate, non può proprio battermi. Almeno così credo. Invece nel modo di immergermi mi entra l’acqua nel naso e mi viene subito da tossire perché mi arriva fino alla gola e mi brucia e così risalgo subito.
“6 secondi” dice Toni, “complimenti, hai battuto il record di apnea di Maiorca.”
Provo a convincerli che non vale, perché non ero concentrato, ma a loro non frega veramente un cazzo.
Soffio via tutta l’acqua dal naso, insieme a una bella porzioncina di morvo che rimane qualche istante a penzolare da una narice prima che con un movimento poco accorto me lo spalmi sul mento.
“Sei lo schifo della terra” dice Toni.
Con una mano mi tolgo via il morvo dalla faccia, poi me la sciacquo in mare.
“Fanculo” dico, attaccandomi subito alla bottiglia di wiscky.
“Mi sa che tocca a te” dice Mario.
Mi accendo una sigaretta. Il vecchio Irish comincia già a farmi effetto. Meglio così, non voglio pensare troppo a quello che devo dire.
“Forse certe cose devono proprio accadere,” comincio, schiarendomi la voce, “ma quando accadono a una come te, Marta, viene da pensare che il destino sceglie sempre le persone sbagliate.
Il destino… che parola inutile.
Il destino siamo noi, tutti noi. Non del tutto forse, ma almeno in parte è così. Nessuno può fare a meno di influenzare il destino delle altre persone, anche se questo può accadere a livelli diversi di profondità. E questo è quello che è successo tra noi. Tu hai influenzato il nostro destino e noi il tuo. Certo tu era una di quelle persone che fanno bene al destino degli altri, senza volerlo eri una che indirizzava la vita degli altri su strade migliori, anche se con noi non sei riuscita a farlo. Non del tutto almeno. Noi, invece…
Quando le nostre strade si sono incrociate, è stato come una lotta tra il bene e il male. Ed è stato più forte il male. Siamo come l’acido muriatico, noi, corrodiamo tutto quello con cui veniamo in contatto.”
Faccio un attimo di pausa. Inghiotto un altro sorso di wisky, tiro una boccata dalla mia pall mall, mi gratto la faccia. È come se le parole fossero tutte corse a nascondersi. Un attimo prima erano lì, e adesso… no, anzi no. Non è proprio così. Ci sono, le parole ci sono, le ho tutte, dalla prima all’ultima, è l’ordine che mi manca. È come quando aprono i cancelli allo stadio e tutta la gente che nel frattempo si era assiepata intorno, si ammucchia all’improvviso davanti all’ingresso. Le parole ci sono, devo solo metterle in fila dalla prima all’ultima, perché tutte insieme non è possibile dirle. Da qualche parte comunque dovrò cominciare, e forse l’ordine verrà poco a poco, da solo.
“Questa cosa di influenzare il destino degli altri, forse è la prima volta che ne parlo, ma è da un bel pezzo che ci penso. Me la immagino come una specie di flusso di energia, come… conosci l’effetto Kirlian? Si mette un oggetto a contatto con un foglio fotografico e vi si applica un’elevata tensione elettrica. Così facendo l’immagine dell’oggetto si imprime sul foglio fotografico e attorno ai bordi compare un alone luminescente. Qualcuno dice che quella sia l’aura vitale. Questo tipo, Kirlian, ha inventato questa tecnica e ha passato il resto della sua vita andandosene in giro a fotografare piante, animali e anche persone, e compariva sempre questo alone di luce tutto intorno, l’aura appunto, cioè la nostra energia spirituale. L’anima forse è proprio questo, l’energia dell’universo che pervade tutte le cose, esseri viventi e materia inanimata. Secondo certe filosofie orientali quest’energia non è altro che consapevolezza. Consapevolezza di quello che siamo e di quello che dovremmo essere, il nostro posto nell’immenso ingranaggio dell’universo, questo grande orologio costruito per essere perfetto, per andare alla grande… solo che in questa infinitudine di ingranaggi, c’è qualche rotella che a volte impazzisce. La pazzia è proprio questo, è perdita di consapevolezza. È come se in questo orologio che tengo al polso qualche rotellina non sapesse da che parte girare. Ecco, quelle rotelline siamo noi. Tutto l’universo è costruito su questa sorta di gerarchia della coscienza di essere. Un sasso non è così diverso da me e te, è sempre fatto di materia e di energia che tiene insieme quella materia. L’unica differenza tra me e il sasso è che io so di esistere e lui no.
L’albero ha un livello di consapevolezza più alto del sasso, è su un piano gerarchico più elevato. Certo, l’albero non ha un “io”, non dice a se stesso io sono un pino, oppure sono un abete e dunque sono un vegetale e mi stanno sulle palle i rottweiler che mi vengono a pisciare sulle radici. Non dice niente del genere. Però sa che ha bisogno del sole per sopravvivere, e di affondare le sue radici più a fondo possibile nella terra per assorbire le sostanze nutritive ed è per questo che si vedono alberi ai fianchi delle montagne crescere tutti storti, perché sanno che per sopravvivere devono cercare di dirigere i loro rami verso il sole, per poter mettere in atto il processo della fotosintesi clorofilliana. Hanno questo genere di consapevolezza.
Un cane, non sa di essere un cane, probabilmente non sa nemmeno di chiamarsi Bobby, ha solo capito che quando sente quel suono pronunciato dal suo padrone deve correre verso di lui; e sa che è divertente riportare indietro la pallina lanciata lontano, perché si beccherà una carezza in mezzo alle orecchie e ha imparato che dopo gliela lanceranno di nuovo lontano, e lui correrà di nuovo e ci saranno altre carezze tra le orecchie e pacche sulla schiena e tutto questo lo farà sentire bene.
Per noi uomini invece il discorso è più complesso. Noi pensiamo di sapere chi siamo, di essere consapevoli perché leggiamo Flaubert, o perchè dipingiamo nature morte su piatti di ceramica, o perché scriviamo “viva la fica” nei cessi della stazione, e in certe sere d’agosto, con una pioggia di meteoriti che infiamma il cielo, ci chiediamo che cosa c’è oltre quel buio, e se qualcuno accenderà di nuovo la luce dopo che saremo morti.
Ci sono filosofi che stanno lì a discutere se un albero esiste lo stesso se nessuno lo guarda…
Quando ero piccolo d’estate andavamo sempre dai miei zii in campagna, restavamo lì a goderci il fresco, a camminare in mezzo alle piante e a mangiare roba appena raccolta dai campi. La sera mi arrampicavo sopra un ulivo, mi trovavo un ramo abbastanza comodo da potermici sdraiare e abbastanza in alto da poter guardare il cielo. Restavo un sacco di tempo così, solo io e l’albero e non facevo altro che guardare il cielo. Tutte quelle stelle mi facevano sentire meno di niente…
Lo sai che ci sono un sacco di scienziati che credono che sia possibile viaggiare nel tempo?
Minchia, questa cosa è troppo spaventosa secondo me. Perché vuol dire che da qualche parte nello spazio-tempo accadono di nuovo le stesse cose che sono accadute qui 10 anni fa, e magari fra un’ora, una settimana o un anno, da qualche parte nello spazio-tempo noi staremo ancora parlando seduti su questi scogli, da quella parte vedremo di nuovo le luci di Trapani, e da quest’altra le isole Egadi, e Toni avrà smesso da poco di pisciare spalle al vento e staremo ancora bevendo uischi irlandese… E se esiste un posto chiamato passato (un posto dove forse tu sei ancora viva), allora esiste anche un posto chiamato futuro, perché il presente è il futuro del passato e anche il passato del futuro, e dunque c’è un posto dove stanno già accadendo le cose che noi vivremo domani, tra un mese, o tra dieci anni, o venti, e se questo è vero, forse non sono nemmeno io che sto pensando queste cose, forse era già scritto nel mio destino che un giorno avrei pensato e detto queste cose, qui davanti a loro, su questo isolotto in mezzo al mare, esattamente dieci anni dopo aver visto il blu del mare portarsi via te, Marta, con il tuo pareo azzurro e gli occhi azzurri e le tue dita lunghe da violinista mancata. E dunque da qualche parte c’era anche scritto che non ti avremmo salvata, e che Mario avrebbe comprato uischi irlandese e io non mi sarei mai laureato in psicologia, e che a 17 anni avrei allagato i bagni dell’istituto magistrale otturando i lavandini con della carta di giornale. E lo stronzo che la settimana scorsa si pomiciava la mia ex davanti al Caffè delle Rose, non deve prendersela con quel figlio di buonadonna che gli ha rigato la punto verde, perché era scritto nel mio destino che lo avrei fatto.
Non ti nascondo che provo un certo sollievo all’idea che non sono io il responsabile di tutte le stronzate che ho fatto, che c’è un mandante delle mie cazzate, di fronte al quale io sono solo un ignaro esecutore. Però è anche angosciante, questa prospettiva, perché io ho sempre pensato di essere anche i miei errori, di essere anche il mio passato, l’insieme delle scelte, delle decisioni prese, delle rinunce, le volte che ho ordinato una pizza alla romana perché non avevo voglia di cucinare, o che ho telefonato a scuola inventando una malattia che non avevo per poter restare a letto fino a tardi. Un miliardo di decisioni, di cose che ho fatto o che non ho fatto, un miliardo di brevissimi istanti in cui pensavo di stare affermando il mio modo di essere, guidare con un braccio appoggiato al finestrino, o prendere una granita al limone, un miliardo di piccolissimi particolari senza nessuna importanza, per i quali non ho mai pensato di poter essere fiero di me stesso, ma che adesso, di fronte a questa possibilità che la mia vita possa essere soltanto una storia scritta su un libro, che tutte le vite di questa povera umanità possano essere soltanto una storia scritta su un libro, che il libero arbitrio sia solo un’illusione, che quello che penso in realtà c’è qualcun altro che lo pensa per me, di fronte a questa prospettiva, dicevo, tutti quei piccoli momenti, e i miliardi di me stesso che li hanno abitati, mi mancano terribilmente. È come se qualcuno me li avesse rubati.
Ma non può essere così, c’è qualcosa che non quadra.
Se noi adesso ci proiettassimo nel futuro e potessimo vedere gli errori che faremo, e le sofferenze che questi errori ci procureranno… prova a immaginare cosa sarebbe accaduto se esattamente 10 anni fa, proprio qui su questo isolotto, avessimo potuto guardare nel futuro e vederci come siamo adesso, e capire il male che ci siamo fatti in tutto questo tempo per il solo fatto che nessuno di noi si è gettato in mare per salvarti la vita. Se avessimo potuto vedere allora lo squallore che è stata la nostra vita da quel momento in poi, con addosso il peso della nostra corrosività, del nostro saper soltanto distruggere tutto quello che ci capita tra le mani. Se avessimo potuto vedere tutto questo e poi tornare su quella barca, di nuovo vent’anni, con tutte le nostre idee idiote a frullarci per la testa, io dico che tutto sarebbe cambiato, sarebbe stato tutto diverso. Forse non saremmo nemmeno sbarcati su questo isolotto. Tu non saresti mai finita in fondo al mare, e tutta la nostra vita avrebbe avuto più senso. Quindi non può esserci un destino scritto, non può esserci un posto chiamato futuro dove accadono le cose che accadranno domani, perché se ci fosse, e fosse possibile raggiungerlo, poi tutto cambierebbe. Il futuro è un ventaglio di possibilità e per ogni scelta che compi ci sono possibilità che perdi e altre che trovi. Il futuro non è un racconto scritto, qualcosa di immutabile, è una mano di poker, semmai, e sta a te decidere di cambiare tre carte, o darti servito con una coppia di sette.
Ecco questa è la nostra consapevolezza. Tutti noi dovremmo vivere sapendo che ogni nostra decisione, ogni cosa che facciamo o non facciamo, influenza il corso degli eventi, ricade sul nostro destino e di riflesso sul destino di chi ci sta intorno, e come un sasso lanciato in uno stagno, che crea cerchi concentrici che si allargano e arrivano fino ai bordi dello specchio d’acqua, allo stesso modo, ogni nostra piccola decisione crea questi cerchi concentrici di energia tutto intorno, e influenza il mondo intero, dalla persona che ci sta di fronte fino all’ultimo uomo sulla faccia della terra, e noi dovremmo vivere sapendo questo, sapendo che il nostro agire influenza il destino dell’umanità, che attimo dopo attimo, ognuno di noi contribuisce a creare e modificare il futuro dell’universo. Dobbiamo essere consapevoli di questo nostro ruolo di costruttori dell’universo, perché se non lo siamo, qualcuno ci andrà di mezzo, noi stessi, o le persone che ci stanno vicine, com’è successo a te 10 anni fa, o qualcuno dall’altra parte del mondo che magari adesso sta morendo perché noi avremmo potuto fare qualcosa e non l’abbiamo fatta. Se non sei consapevole… allora sei come un ingranaggio di un orologio che non sa da che parte girare. E mi viene da dire che noi siamo stati questo fino ad oggi, e che sarebbe bene che non lo fossimo più. Quelli come noi, quelli che non hanno consapevolezza, quelli che non sanno da che parte girare, sono un pericolo per se stessi e per gli altri, sono un pericolo per il mondo intero. Meglio essere un sasso, allora, perché un sasso ha sempre la giusta dose di consapevolezza, che è una consapevolezza minima magari, ma che non è mai meno di quella che dovrebbe essere. Un sasso non è mai un pericolo per l’universo, almeno fino a quando non finisce in mano a un teppista deficiente che lo lancia contro il vetro di una macchina. Un sasso non è mai un pericolo per l’universo, l’uomo lo è.”
Mi accendo una sigaretta e mi caccio in bocca la bottiglia di irish. Non ho mai fatto un discorso così lungo, non ci sono abituato, per cui non sono sicuro di essere d’accordo con quello che ho detto, non sono nemmeno certo se quello che ho detto è chiaro o meno, se sono riuscito ad esprimere quello che veramente volevo dire, o se mi sono incasinato, se sono stato confusionario, tutti quei discorsi cominciati e lasciati a metà, accavallati, dire una cosa e poi dirne un’altra, i concetti nebulosi che si inseguivano e io provavo a dire tutto quello che mi veniva in mente, perché, pensavo, alla fine capirò quello che intendo dire, alla fine mi verrà in mente anche una conclusione per tutto queste parole e tutto finalmente apparirà chiaro, inconfutabile e illuminante. E dopo un discorso così, io non faccio mai discorsi, perché sono convinto di non saperli fare, ma dopo un discorso così, dicevo, vorrei tanto poter bere questo uischi irlandese senza fare nessuna smorfia, senza strizzare gli occhi, o fare una faccia schifata come succede sempre ogni volta che mi ritrovo questa roba in bocca. E vorrei anche vedere stupiti i miei amici, affascinati per le mie parole, e che dicessero che non se l’aspettavano che in me ci fosse tanta profondità. Tutto qua, davvero, solo il loro stupore e bere uischi come un cowboy, come se questo fosse un vecchio film americano.
Ma c’è troppo mare intorno perché sia così.
“Bel discorso, ma non sono sicuro di averci capito granchè” fa Mario.
Ci resto male, mi aspettavo tutt’altra accoglienza perle mie parole, mi aspettavo luccichii negli occhi, e bocche spalancate che non riescono a dire wow! Però lo vorrebbero, farebbero di tutto per dirlo, e certi fremiti come quando si assiste alla manifestazione del genio, come stare di fronte a Picasso mentre dipinge, o ascoltare Chopin che suona un notturno, come quando Maradona scartò tutta la squadra dell’Inghilterra ai mondiali dell’86 o… insomma, incredulità, che qualcuno dicesse impossibile, no, no, non ci credo, è successo davvero…è successo davvero, qui, davanti ai miei occhi… invece…
“Cioè, io intendevo dire che la consapevolezza… cioè, forse non mi sono spiegato bene… Toni, tu che ne pensi?”
“Io penso che le tradizioni vanno rispettate” dice Toni.
“Certo, appunto” dico, “le tradizioni sono un forma di consapevolezza di…”
“Rum e pera, quella sera di dieci anni fa stavamo bevendo rum e pera. Perché hai preso stu schifo di uischi?”
“È quello che ho trovato, ti ho detto.”
“Abbiamo sempre vivuto rum e pera. Tutti i 15 luglio del cazzo che mi costringete a passare con voi in questo merdoso isolotto, abbiamo sempre vivuto rum e pera.”
“Questo non è un party, è una commemorazione. Noi veniamo qui per estinguere un debito.”
“Vaffanculo tu e le tue regole del cazzo.”
Toni si alza, fa dieci metri verso la base del faro, resta fermo qualche istante a fissare la parete cilindrica e poi torna indietro, scalcia una pietra che si trova sul suo percorso e si rimette a sedere con noi.
“Tanto dove cazzo posso andare?”
Mario si volta ancora verso di me.
“Dovevi finire il tuo discorso, mi sembra…”
In realtà pensavo di averlo già finito, ma evidentemente le somme che avevo tirato erano somme soltanto per me, loro aspettavano qualcosa di più chiaro. Non potevo chiuderla lì, ormai ero lanciato, ero entrato nell’ottica di un me stesso fine oratore, dovevo andare fino in fondo.
“Si, certo, e vorrei prendere spunto dalle tue parole, quando dici che siamo qui per ricordare… insomma, mi sembra che in tutti questi anni che ci siamo ritrovati qui è stato come mettere su sempre la stessa cassetta, e discutere sempre delle stesse cose, come il megadirettore generale di Fantozzi, che costringe i suoi dipendenti a vedere sempre lo stesso film, “La corazzata Potiomkin”, e si aspetta ogni volta un’emozione nuova, un commento diverso, qualcosa di più del solito elogio al montaggio analogico. Ecco, dunque io direi, che noi oggi siamo qui per prendere coscienza, vedere in che modo è cambiato il nostro modo di guardare il mondo in tutti questi anni dalla morte di Marta, cos’è cambiato nel nostro modo di voltarci indietro e ricostruire il passato.
Io, per esempio… le prime volte che siamo tornati su quest’isola, parlo dei primi tre o quattro anni, c’erano momenti in cui avevo l’impressione che lei fosse ancora qui con noi, che fosse seduta in mezzo a noi, non il suo fantasma, ma proprio lei, Marta, come se non fosse mai successo nulla. E mi aspettavo di vederla spuntare fuori da un momento all’altro, di voltarmi a destra o a sinistra e accorgermi di lei, aspettavo che uscisse fuori con una delle sue battute che non facevano ridere mai nessuno, perché lei non aveva proprio i tempi per le battute, e poi faceva delle premesse lunghissime, troppo ricche di particolari e di spiegazioni e così capivi con troppo anticipo quello che stava per dire. Non aveva il dono della sorpresa. Insomma non ti veniva per niente da ridere, al massimo le facevi un sorriso, ma la maggior parte delle volte la prendevamo per il culo per le sue battute che facevano davvero schifo. Comunque io avevo questa impressione della presenza di lei, ed era un’impressione proprio bella, perché lei era quella di sempre, quella che abbiamo sempre conosciuto, con quella sua pelle distesa e trasparente, e non era per niente incazzata, non c’era niente che lasciasse credere che ce l’avesse con noi perché nessuno quella notte si è buttato in mare per lei.
Poi, però, con il passare del tempo non è stato più così, nel senso che non ho più pensato che lei fosse qui con noi, e adesso… ci credi che a volte non mi ricordo nemmeno la sua faccia? È come se qualcuno m’avesse sfregato un’enorme gomma sulle tempie per cancellarmi il ricordo della sua faccia. Solo che non ha fatto in tempo a cancellare tutto, ha smesso prima che io perdessi anche la forma del viso, quell’ovale allungato che si stringeva improvvisamente verso il mento, e i suoi capelli biondo cenere, ricci ma non troppo, che erano come una specie di… hai presente la parte tutto intorno alla pizza, che poi in mezzo c’è il pomodoro e la mozzarella? Ecco i suoi capelli mi facevano questo effetto e tutto il resto era il condimento. Mi ricordo questo e basta, i suoi capelli e i suoi occhi azzurri in mezzo. Mi manca la forma della sua bocca, tranne il sorriso, e mi mancano il naso e le sopracciglia e gli zigomi e la rotondità delle guance. A volte penso a Marta e vedo una ragazza dal viso ovale e con i capelli ricci e gli occhi azzurri e poi basta, nulla più. Una ragazza senza faccia, gli occhi chiari che si aprono su una superficie piatta, senza nemmeno le orbite, solo le palpebre che si aprono e l’azzurro delle pupille. Ogni tanto vedo anche la sua bocca che sorride, ma di solito no. Se non sorride invece non c’è niente, scompare proprio tutta la bocca con le labbra e tutto il resto. È una cosa così triste… perché io sento ancora il bisogno di averla dentro di me, e di avercela tutta intera, e questo deteriorarsi della sua immagine, del ricordo che ho di lei, è una cosa a metà tra il tradimento e l’abbandono. Perché noi le avevamo promesso che non l’avremmo dimenticata e io, invece, senza volerlo, ogni giorno perdo un pezzo di lei, e mi sento in colpa per questo. Altre volte invece penso che non sono io a dimenticarla, è lei che sta andando via, è lei che mi lascia solo. E mi chiedo perché.
Sempre più spesso torno a rivedere le sue foto, così completo l’immagine che ho nella mia mente, ci aggiungo i particolari che mancano. Ma ottengo solo istantanee, una Marta ferma immobile e non appena le chiedo di muoversi, ecco che scompare di nuovo tutto, e il suo viso torna ad essere un ovale piatto con al centro due pupille azzurre. Per questo, secondo me, non dovremmo ricordare solo quello che è successo quella sera, ma ricordare proprio lei, com’era fatta, dentro e fuori, quello che diceva e faceva e come lo diceva e faceva.”
“Si” dice Mario, “anch’io a volte penso a Marta e dico: era proprio così? sono proprio sicuro che lei fosse così? O questo è quello che ho deciso di ricordare perché mi fa comodo pensare a lei in certi termini? E a volte ho la sensazione che non è Marta con tutto quello che di meraviglioso c’era in lei, a mancarmi, ma solo il fatto che stare con lei mi faceva sentire importante, ci faceva sentire importanti. Marta come amplificatore del nostro modo di percepirci, come restitutrice di quel senso della vita che ci mancava; forse è solo questo che sentiamo di aver perso, forse la nostra è solo nostalgia di quando siamo stati bene con noi stessi, perché a quei tempi, senza ammetterlo, dentro di noi pensavamo che se esistevamo per una come Marta, allora esistevamo davvero.”
“Stronzate” dice, Toni, “state dicendo solo stronzate. Il fatto che una come Marta uscisse con noi non mi faceva sentire per niente meglio, per niente più esistente di prima che la conoscevo, o di dopo. Era una figlia di papà, con i soldi fin dentro le mutande. Se stava con noi era per la sua mania di protagonismo. Le piaceva che la guardassimo dal basso verso l’alto perché nella piscina che aveva in giardino ci entravano le fondamenta di tutte e tre le nostre case messe insieme. È per questo che stava con noi, perché nella sua compagnia di fighetti non la cacava nessuno, lì i soldi ce li avevano tutti.”
“No, Toni,” dice Mario, “stai soltanto nascondendo la polvere sotto il tappeto, e così facendo costruisci soltanto delle apparenze, un’illusione di pulito, ma quanto prima, lo sai, la polvere salterà di nuovo fuori.”
“Comprerò un tappeto più grande.”
Restiamo qualche istante in silenzio, un silenzio che non ci permette di ascoltare la dolce risacca del mare. I sassolini sotto di noi sono perfettamente piatti e levigati, in un mondo migliore faremmo a gara a chi li fa saltare di più sulla superficie dell’acqua.
“Certe volte dubito di avere un’anima. Quello che abbiamo fatto a Marta… mi sa che Kirlian farebbe fatica a fotografare la nostra aura” dice Mario.
“No,” rispondo, “al massimo si renderebbe conto che le nostre aure fanno proprio schifo. Dai suoi esperimenti si vede infatti che l’aura cambia in base all’umore e al livello di salute degli esseri viventi. Così c’è chi ha un’aura luminosissima e chi meno. Gli esseri viventi, per esempio ce l’hanno più luminosa degli oggetti inanimati. Ma c’è qualcosa di ancora più straordinario in questa storia. Un giorno, Kirlian fotografò con il suo metodo una foglia a cui aveva strappato una parte. Era una di quelle foglie a cinque punte che somigliano un po’ alla canapa indiana e Kirlian strappò una di queste cinque punte e poi fotografò la foglia e scoprì che l’aura era rimasta intera. Capisci? La foglia aveva 4 punte mentre l’aura continuava ad averne 5. Questa secondo lui era la prova dell’esistenza dello spirito, o comunque di una qualche forma di energia che permane anche quando parti di quel corpo non ci sono più. Come la storia dell’arto fantasma. Tantissime persone che hanno subito una qualche amputazione rivelano di sentire ancora delle sensazioni legate a quell’arto che non hanno più. Sentono dolore, o prurito, o caldo, o freddo, eppure quell’arto non ce l’hanno più. Un’altra scoperta sensazionale di Kirlian è quella che le piante hanno sentimenti. Scoprì che le piante si amano e si odiano proprio come facciamo noi. Lui osservò un albero grande, adulto che, posto vicino ad altri due alberi più piccoli, emanava un’aura avvolgente verso uno di questi due, quasi volesse proteggerlo, e un’aura di negatività verso l’altro albero. Io penso che forse farebbe bene a tutti noi poterci fotografare con il metodo Kirlian, e vedere un po’ che genere di energia malsana spargiamo sul mondo, su tutte le cose.
Marta, invece, lei era diversa, lei di sicuro aveva un’aura avvolgente, è per questo che ci sentivamo così bene vicino a lei, perché lei ci proteggeva con la sua aura calda e luminosa.”
“Sapete una cosa?” fa Toni, alzandosi in piedi, “io mi sono rotto della vostra filosofia new age e di tutta questa apologia della povera fanciulla indifesa. Marta era solo una pischella viziata e neanche tanto intelligente, altrimenti non si metteva in testa di tornarsene a casa a nuoto con tutto il rum e pera che si era calata.”
“Non si sarebbe buttata in mare se tu non le fossi saltato addosso come un animale,” ribatte Mario.
“Eravamo tutti d’accordo. Anche tu lo eri. Avevamo comprato il rum e pera apposta.”
È vero, ce l’eravamo studiata proprio bene: rubiamo una barca e poi invitiamo Marta a fare un giro con noi, la facciamo bere, così magari… eravamo sicuri che ci sarebbe scappata un’orgia.
Pensavamo che il nostro piano fosse perfetto, anche se nessuno di noi era abbastanza “pratico” in fatto di donne da poter stimare con esatta approssimazione le nostre possibilità di riuscita…
Era tutto veramente fantastico quella sera: essere così giovani e così lontani dal resto del mondo, su questo isolotto sperduto in mezzo al mare.
Il rum e pera ci aiutava a non pensare troppo e a sostenere il confronto con la disarmante freschezza di Marta. Mi piaceva quando parlava a ruota libera, era bello ascoltarla, c’era come una musica nascosta nelle sue parole. Se ignoravi il senso e ti affidavi soltanto alle vibrazioni del suono potevi sentirla.
Poi a un certo punto disse che fra tre giorni se ne sarebbe tornata a Milano e che forse non sarebbe più venuta in vacanza in Sicilia, perché i suoi genitori avevano deciso di mettere in vendita la loro villa a San Vito lo Capo.
“Promettetemi di non dimenticarmi mai.” Disse, e uno stormo di moscerini ci entrò negli occhi.
“Però cerchiamo di non diventare troppo tristi” aggiunse, “non stasera. Adesso dobbiamo solo pensare a divertirci. Barman, un altro rum e pera.”
Dieci minuti dopo se ne stava sdraiata lì, sopra quei ciottoli, con gli occhi spalancati verso il cielo.
“Gira tutto, fermate il mondo, sta andando troppo in fretta.”
Anch’io a quel punto non ci capivo più granchè di quello che stava succedendo. Li guardavo da dietro un vetro. Sentivo le loro voci lontane, come l’ultima eco che rimbalzata da una montagna. Un’eco flebile. Si muovevano pianissimo, come bradipi attaccati l fogliame di un albero. Mi dispiaceva di non riuscire a ridere con loro di tutto questo, di questa discrepanza di sensazioni tra me e Marta. In un’altra situazione avrei detto “fate andare più in fretta il mondo, sta girando troppo lentamente.”
Ma per fortuna sono rimasto zitto, è triste ricordare i momenti allegri quando sai che non torneranno più.
Ricordo che Toni stava seduto sulla stessa roccia dalla quale oggi ha pisciato in mare. E quando l’ho visto alzarsi in piedi e andare verso Marta distesa sui ciottoli a fissare il suo mondo troppo veloce, avrei voluto dire “no, dai, lascia stare, compare. Secondo me non è proprio il caso.” Però non dissi niente.
Poi non lo so bene che cosa è successo, mi mancano un sacco di particolari per poter dire con certezza quello che ho visto. C’era troppo buio, la luna non bastava. E c’era sempre quel vetro troppo spesso tra me e loro a creare una distanza ulteriore, una separazione di mondi, di dimensioni, come se fossimo nel punto di incontro di tanti universi paralleli. Eravamo tutti e 4 qui eppure non eravamo insieme, perché ognuno apparteneva ad un universo differente.
Marta era poco più di un’ombra, solo deboli sfumature cromatiche che la staccavano dallo sfondo grigio dei ciottoli e Toni, invece, Toni mi sembrava più una nube malsana, come il fumo che esce da una ciminiera. E l’ho visto distendersi sopra di lei e cancellarla, come quando fai uno scarabocchio sopra una parola scritta su un foglio. E questa cosa ha infranto il vetro, ha annullato il confine immaginario che mi separava da loro. Adesso accadeva di nuovo tutto a velocità normale, le mani di Toni la toccavano dappertutto e la sua bocca che si avvicinava a quella di Marta e lei che girava la testa a destra e sinistra per non farsi baciare.
Poi Marta si è messa a piangere ed è stato a quel punto che ho sentito Mario che diceva “basta, dai, non vedi che non vuole?”
E per un sacco di tempo l’ho odiato, Mario, per aver detto quelle parole. Perché avrei voluto dirle io, avrei dovuto dirle io, perché ancora adesso mi sentirei più pulito se le avessi dette. Invece niente, me ne sono rimasto zitto, come ho fatto sempre in tutta la mia vita ogni volta che parlare sarebbe potuto servire a qualcosa.
Dopo quelle parole Toni l’ha lasciata stare. Si è alzato ed è andato a farsi un altro rum e pera, credo. Marta si è messa a sedere, si è portata le mani al volto e ha continuato a piangere.
Io ho provato ad avvicinarmi a lei, volevo tranquillizzarla, volevo che si sentisse protetta, e le ho messo un braccio sulle spalle. Ma lei si è ritratta.
“Non mi toccare. State lontani da me. Mi fai schifo, mi fate tutti schifo.”
Ha cominciato a gridare che voleva essere riportata a casa, che voleva che mettessimo in moto la barca e ce ne tornassimo a terra, ma a quel punto anche noi avevamo tutti troppa paura. Il mare nel frattempo si era fatto grosso e poi prima di tornare indietro volevamo essere sicuri che lei non ci avrebbe messi nei guai.
“Marta stai calma. Non è successo niente, non ti facciamo niente. Siamo noi, i tuoi amici. Calmati un po’ e poi ti riportiamo a casa.”
Eravamo più cacati di lei.
A un certo punto ha visto le luci di quella barca in lontananza e ha cominciato a gridare aiuto, a saltare e ad agitare le braccia per farsi vedere. Noi non sapevamo più che fare, più le stavamo addosso per tentare di calmarla e più le mettevamo paura. E a un certo punto l’ho vista gettarsi in acqua e ha cominciato a nuotare…
Come ha potuto pensare di poter raggiungere quella fottutissima barca? Era solo un puntino in mezzo mare.
Le abbiamo gridato di tornare indietro, ma lei non ci ha dato ascolto.
“Dobbiamo salvarla” continuava a dire Mario.
“Lasciala stare” ripeteva Toni, “quando si renderà conto che non ce la può fare tornerà indietro da sola.”
E poi non l’abbiamo vista più. Abbiamo aspettato e sperato di vederla spuntare da un momento all’altro, vederla nuotare di nuovo verso la Formica, ma così non è stato.
“Non possiamo metterci sulla barca con questo tempo, non torneremo più indietro.” Diceva Toni.
“E che dovremmo fare? Lasciarla annegare?” rispondeva Mario.
“Ci sono degli scogli che emergono a qualche centinaio di metri da qui. Si sarà fermata su quegli scogli. Domani mattina, quando il mare si sarà calmato la andiamo a riprendere. Intanto lasciala lì che si rinfresca un poco le idee.”
“Non c’è nessuno scoglio che emerge in queste zone” dico, dopo un lungo silenzio.
Mi guardano entrambi con un’aria piuttosto perplessa.
“E con questo?” risponde Toni.
“Avevi detto che c’erano. Avevi detto che sicuramente Marta si sarebbe fermata su quegli scogli. Te li sei inventati.”
“Cosa dovevamo fare, annegare insieme a lei? Vi ho salvato la vita impedendovi di buttarvi in mare dietro quella pazza. Non sareste più tornati indietro.”
“Dunque dovremmo esserti riconoscenti” gli risponde Mario.
“Andate a fanculo. Mi sono rotto di questa cazzata del ricordo. Il prossimo anno ve la fate da soli la gita in barca.”
Io e Mario ci guardiamo un attimo negli occhi. Non c’è bisogno di parole.
“Hai ragione” dice Mario, “ non ha più senso essere qua. Torniamo a casa.”
Ci rimettiamo sulla barca. Il mare è piatto come una tavola e una lieve brezza ci accarezza la pelle. Ci aspettano alcune miglia di mare e di silenzio prima di tornare sulla terra ferma.
Guardo dietro di noi l’isola Formica farsi sempre più piccola e distante, fino a quando diventa solo una macchia di colore che galleggia all’orizzonte, ma so che dentro di me non sarà mai abbastanza lontana.
“C’è qualcosa che non va” dice Mario.
“Che cosa?” risponde Toni.
“Non saprei. Senti un po’ tu questo motore, fa un rumore strano.”
Toni viene dietro verso la poppa della barca e si china con la testa che quasi rasenta le acque per ascoltare il borbottio del motore.
Marco, in piedi dietro di lui, afferra un remo, guarda Toni, ci pensa un attimo, lo solleva al cielo, e per pochissimi secondi, che però sembrano molti di più, restiamo tutti e tre così, sospesi tra il vivere e il morire, ancora una volta, esattamente dieci anni dopo.
Poi però ci ripensa e abbassa il remo.
“Io non sento nulla di strano” dice Toni voltandosi verso di noi. “Cosa fai con quel coso in mano?”
“Pensavo ci fossero delle alghe attaccate all’elica.”
“E volevi toglierle con quello? Sei proprio un deficiente.”
Seduto su una poltrona a casa di Mario, un appartamentino fatiscente nel cuore della Trapani vecchia, guardo fuori dalla finestra le onde infrangersi sulla scogliera, l’acqua che diventa bianca, che si imbizzarrisce e si impenna, e resta qualche istante sospesa in aria, e poi ricade giù, dividendosi in mille goccioline.
È già passata una settimana da quando siamo tornati sull’isola Formica.
Mario mette su “Riders on the storm” dei “Doors”. Apre un cassetto della scrivania, tira fuori un panetto di fumo e comincia a rullare.
“Eravamo d’accordo che l’avremmo fatto,” dico.
Lecca la striscia di colla sulla cartina e poi la arrotola.
“Ci sono modi giusti e modi sbagliati per rimediare alle cose” risponde Mario, mentre accende il cannone, “e io sono stanco di fare sempre la cosa sbagliata.”
l'Isola Formica, esiste davvero (come avete visto dalla foto), è un lembo di terra a metà tra Trapani e le isole Egadi, ma è molto diversa da come la descrivo nel racconto. oltre al faro, unica costruzione di cui parlo, l'isolotto ospita delle costruzioni adibite a sala conferenza e, secondo fonti non sicure (il mio amico diego), vi risiederebbe anche una comunità di recupero per tossicodipendenti. nei pressi dell'Isola di Formica ci sono effettivamente degli scogli che emergono, come aveva detto Toni, e sui quali Marta si sarebbe potuta salvare ma... insomma in qualche modo dovevo farla morire sta disgraziata.
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