martedì, luglio 25, 2006

racconto: saluti estremi



questo racconto è il seguito del precedente che avevo intitolato, senza rigfletterci troppo, "una serata alla grande" e che invece, ripensandoci bene, mi piacerebbe intitolare "salvate Arianna".

l'immagine qui a fianco è un dipinto di Van Gogh di cui non conosco il nome.

ovviamente le immagini che inserisco c'entrano poco e niente con quello che scrivo, ma ritengo che abbelliscano il blog.

Ps: anche se spesso utilizzo me stesso come protagonista dei miei racconti, questi sono totalmente inventati. io sono ovviamente molto peggio del personaggio che descrivo.


Hanno aspettato che uscissi dall’ospedale per dirmi che Elvis stava morendo. Forse pensavano che non avrei retto al colpo, che mi sarei spezzato anche l’altra gamba, o che avrei ingoiato tutte le pagine della settimana enigmistica fino a soffocarmi. Se penso ai loro teatrini mi metto a ridere, quell’orrenda sfilata di parenti e parentini e sottospecie di amici…
“Com’è successo? Guidavi tu?”
“Compare dimmi chi è questo figlio di troia cha gli vado a rompere il culo…”
Io con i miei otto punti di sutura in bocca… tutte le volte che non avevo voglia di parlare bastava mordicchiare un po’ per farli sanguinare, una cosa troppo spacchiusa. Così potevo evitare tutti quei sorrisini forzati che faccio di solito ai cugini della mamma: “lui è il parrino di…” e giù elenchi di perfetti sconosciuti che fingo di conoscere, altrimenti le spiegazioni si sprecano.
C’è di buono che come arrivano se ne vanno.
“Chi cazzo era quello?”
Mia madre spalanca gli occhi.
“Come chi era?” (è proprio allibita), “non hai mai sentito parlare di Mastro Lindo?”
Hanno tutti soprannomi strambi, i parenti di mia madre... Schifosi corvi della malora, spuntano solo quando c’è di mezzo una disgrazia, o un’eredità da spartirsi.
Già me li immagino al mio funerale: “Che disgrazia! Così Giovane”; “Io lo sapevo che sarebbe finito male”; “se l’è cercata…”; “non c’è mai stato tanto con la testa…”; “a quanto pare non è vero che è andato a Padova per insegnare, ce l’ha mandato sua madre per allontanarlo da certe brutte compagnie…”; “sicuro come la morte, guardalo in faccia: quello si drogava”; “non ha mai avuto voglia di fare niente, era un fannullone.”
Preferisco una corona di crisantemi ai piedi del letto che un parente dentro la stanza, mi mette più allegria.
“Com’è stato l’incidente? E tu come stai? Che ti sei fatto?”
Piuttosto mi cappotterei altre dieci volte, magari in diretta tv, a reti unificate, almeno non mi toccherebbe raccontarlo a tutti.
“Otto punti in bocca, altri dieci dietro l’orecchio, la tibia della gamba destra spezzata in due punti, praticamente tutte le costole incrinate… il resto lo potete vedere.”
Iaco mi guarda la faccia tutta piena di lividi viola. Chiude gli occhi, lo aiuta a comporre un’espressione turbata, a metà tra la sofferenza e la paura, le labbra che si increspano… è un campione a fare le facce, ha una dote naturale.
“Cazzo compare, quando l’ho saputo… non ci volevo credere che c’eri tu in quella macchina… ma come cazzo è successo…”
Mio dio ti prego…
Poi arriva anche la stronza di Anna.
“Ma perché ve ne siete andati così? Io e Patrizia stavamo tornando, eravamo andate a comprare le sigarette…”
Le faccio un sorriso fasullo, il migliore di cui disponga, così se ne può andare leggera, e prima possibile.
“Ti ho comprato il sudoku,” dice, prima di sparire dietro la porta.
Poi finalmente arriva il giorno che vengo dimesso.
Mi godo gli sguardi delle ragazze lungo il corridoio dell’ospedale. Mi piacciono i loro occhi pieni di compassione mentre, aggrappato alle stampelle, zampetto piano verso l’uscita. Sono tutte mamme, tutte infermierine, camice e biancheria candidi, potrei chiedere a una qualsiasi di loro di occuparsi di me e… come potrebbe dirmi di no, dopo vermi guardato in quel modo?

A casa è una pacchia, passo tutto il giorno a giocare campionati di calcio alla play station: gli faccio un culo così a sti gobbi di merda.
L’unica cosa mia madre non vuole che chiuda a chiave la porta della mia stanza, non si sa mai dovessi avere bisogno di qualcosa… per farmi le seghe mi tocca chiudermi nel cesso, come facevo ai tempi delle superiori. A parte questo però non è niente male questa degenza. I parenti hanno smesso di venirmi a trovare. L’ospedale lì attira di più. Vogliono il sangue quelli, sono vampiri.

La pacchia dura solo una settimana però, poi ricomincia lo scazzo.
Mia madre infila la testa nella stanza mentre sono intento a vincere lo scudetto con l’Inter (solo alla play station succedono ‘ste cose).
“Iaco e Anna vengono a mangiare da noi, avrai voglia di un po’ di compagnia, no?”
Grugnisco senza alzare gli occhi dal monitor.
“Sto facendo la zuppa di cozze…”
“Bene.”
“Volevo prendere anche i ricci, ma non li avevano… il mare è stato brutto in questi giorni.”
“Porca Eva sto cazzo di coso…”
Agito in aria il joystick.
Lei ci resta male, ha voglia di fare conversazione, ma per fortuna non è una che si accanisce su certi propositi.
“Fra una ventina di minuti sarà pronto” dice, e sparisce.
Quando non ho voglia di parlare, mi invento un problema tecnico. Funziona sempre.
Anna e Iaco faticano a trovare argomenti di conversazione nuovi, per cui riciclano quelli utilizzati in ospedale.
“Com’è compare? Come va? Come stai?...”
Sono una palla, e io non c’ho nemmeno più la scusa dei punti in bocca.
Finito di mangiare beviamo il caffè. Quei due figli di buttana si accendono le loro belle sigarette e se le fumano davanti a me, belli pacifici e appagati, con la panza piena delle cozze di mia madre. Non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello che anch’io posso averci il desiderio di una paglia. Eppure lo sanno che da quando ho ripreso a fumare lo faccio di nascosto. Che bastardi.
Li invito ad andare nella mia stanza a sentire un po’ di musica.
“Ho l’ultimo ciddì di Capossela.”
“Magari dopo…” fa Anna, ruotando lo sguardo intorno in cerca di conferme.
“C’è una cosa che devi sapere,” dice mia madre, “e ho pensato che era meglio che fossero loro a dirtela.”.
Cerco di ricordare se ho fatto qualche cazzata negli ultimi tempi, qualcosa per cui potrei meritarmi un predicozzo, ma non mi viene in mente niente. Comunque sia negare, negare sempre, anche di fronte all’evidenza.
Non è vero, non sono stato io, siete stati informati male, è tutta una congiura…
“Compare,” fa Iaco, mettendoci dentro una pausa holliwoodiana (le pause e le facce sono la sua specialità), “devo darti una brutta notizia…”
Altra pausa.
“Elvis… sta morendo.”
Abbasso lo sguardo sulla tovaglia, sento i loro occhi su di me, la loro volontà di scoprire i miei sentimenti, fanno attenzione ad ogni mio più piccolo movimento, come si tirano e si rilassano i muscoli della mia faccia. È come avere tante sanguisughe attaccate al cuoio capelluto, vogliono fagocitare i miei pensieri, nutrirsene, e devono smetterla, non possono farlo, non è giusto, vorrei gridare “basta! Non ne avete il diritto! Smettetela!...” e invece resto zitto, mi metto un pugno davanti alla bocca e comincio a soffiarci dentro.
“...La merda di cancro allo stomaco” continua lui, “peggiora di giorno in giorno… peserà al massimo 40 chili. Se ti sei chiesto perché non sono più venuto a trovarti all’ospedale, bè, adesso l’hai capito.”
“Non ce la facevamo…” continua Anna, “tu sai quanto bene vogliamo a te e quanto ne vogliamo a Elvis, e vedere tutti e due in quello stato, scusaci ma, era proprio troppo.”
“Certo, lo capisco.”
“Tra i due dovevamo fare una scelta,” continua Iaco, “e non volercene se abbiamo scelto quello che credevamo ne avesse più bisogno.”
“Avete fatto bene.”
“Non che tu non ne avessi bisogno ma, cazzo, Ettore…” Iaco sospira (è un campione di sospiri, e di facce e di pause), “quando vedrai Elvis capirai di cosa stiamo parlando.”
Gli metto una mano sulla spalla per rassicurarlo, ma la tolgo subito, non sono fatto per i contatti fisici.

Il giorno dopo mi infilo in macchina con mia madre e mi faccio portare da Elvis. So che è quello che tutti si aspettano da me, per questo lo faccio. Non voglio che si sospetti che sono un insensibile, certe qualità preferisco tenerle nascoste.
Mia madre mi accompagna fin dentro la stanza di Elvis, seguendo con attenzione i miei passi strascicati sulle stampelle. Si ferma qualche istante a parlare con i genitori del mio caro amico e poi si dilegua, lasciandomi solo con tutti loro.
La faccia di Elvis fa impressione, è tutta giallognola, sembra gli abbiano scarnificato la testa per poi ricoprire il teschio con della carta da cucina.
Sua madre mi fa accomodare su una sedia ai bordi del letto.
Per i primi 20 o 30 minuti mi tocca sorbirmi la cronistoria minuziosa della malattia di Elvis. Lo sapevo, ero preparato a questo. Spero solo non si scivoli troppo sul melodrammatico.
Il padre ce l’ha più col destino; la madre con i dottori: sono degli incompetenti, dei superficiali, potevano salvarlo se… ha visto troppe volte “E.R.”.
Guardo Elvis: dubito che quella sia la faccia di uno che avrebbe potuto cavarsela se solo avesse incontrato medici un po’ più in gamba.
“Dobbiamo operarlo prima possibile, dicevano, e poi cambiavano idea, gli davano quelle porcherie che lo facevano solo vomitare… gli hanno fatto cadere tutti i capelli…”
Scoppia a piangere.
Io non so che cazzo dire, non so proprio che cazzo dire… tengo gli occhi bassi e aspetto in silenzio. Non può piangere in eterno.
Mi domando se quei due sappiano quali erano i rapporti tra me e Elvis negli ultimi tempi, se sono al corrente del fatto che io e lui eravamo pizzicati per via di una certa ragazza che forse non ne valeva neanche la pena, ma che comunque le cose stavano così e che… si, insomma, non ci parlavamo più da un pezzo.
“Una volta questa casa era un via vai di gente, ragazzi che entravano e che uscivano in continuazione, adesso…”
Annuisco piuttosto contrito, anche se questo discorso ha tutta l’aria di essere una predica indiretta per il sottoscritto.
“Non sa quante volte ho pensato a Elvis…” dico, più paraculo che posso. Scuoto il capoccione.
“Ma tu stai a Padova” dice il padre, come se parlasse con sua moglie invece che con me, “e poi hai anche avuto l’incidente…”
“Non se la merita una cosa del genere Elvis, non se la merita…” Ricomincia a piangere.
“Ma Anna e Iaco sono venuti qualche volta a trovare Elvis, no?”
“Quei due, sono venuti una volta, hanno portato dei cioccolatini, e poi… Spariti. Chi li ha visti più? I cioccolatini a uno che ha il cancro allo stomaco…”
Adesso singhiozza.
È insopportabile la gente che piange. Vorrei catapultarmi fuori dalla finestra. Cadere dal terzo piano non può essere peggio che stare lì a sentirla frignare.
Quando entra Loris, il fratello di Elvis, la madre smette di piangere, e a me sembra un intervento divino, il deus ex machina di certi romanzi d’appendice.
“Ho parlato con don Giuseppe” dice, “ oggi non ce la fa a venire. Ha detto che fa un salto domani mattina verso le dieci.”
Sua madre annuisce, il suo sguardo si perde nel vuoto. Si sparge nella stanza un silenzio pesante dove tutti guardano per terra, oppure guardano Elvis, o il crocifisso o il bicchiere d’acqua sul comodino e nessuno guarda gli altri.
Poi il padre mette un braccio attorno alla moglie.
“Vieni,” dice, “lasciamo un po’ soli i ragazzi.”
Escono.
Loris scuote la testa.
“Non si vuole rassegnare all’evidenza. Lui… ha gia tutti e due i piedi nella fossa.”
Si avvicina al letto, prende un braccio di Elvis, lo solleva e lo lascia ricadere sul materasso.
“Bisogna guardare in faccia la realtà.”
“Già” dico, tanto per non starmene ancora zitto.
“Vuoi sapere come la penso?”
“Dimmelo.”
“Se fosse stato per me gli avrei già messo un cuscino in faccia. Hai idea di quanto tempo ha passato su quel letto? A che serve tenerlo qui in queste condizioni? È come una pianta grassa ormai, solo che un cactus non devi lavarlo tutte le mattine. C’era bisogno di arrivare a questo? I medici erano stati chiari, sapevamo che prima o poi sarebbe entrato in coma e che quella sarebbe stata l’anticamera della fine. E allora perché non farlo prima? Perché non risparmiare a lui e a tutti noi questa sofferenza? Hai idea di quanta merda ho dovuto togliergli dal culo? Sentivo sempre quel feto tremendo addosso, non la smettevo più di lavarmi le mani.”
Guarda Elvis, fa no con la testa. Si gira, arriva fino alla porta, poi ci ripensa e torna indietro.
“È tutta colpa di questa mentalità cattolica. Il Vaticano è la rovina dell’Italia. In Olanda è tutta un’altra cosa, sono molto più civili da quelle parti. Sai che fanno in Olanda in questi casi?”
“Si fanno una canna?”
“A parte quello. Ti iniettano una puntura di arsenico o di non so quale altra sostanza velenosa e nel giro di pochi secondi sei all’altro mondo. Hanno più rispetto per la vita. In Italia invece i morti sono più importanti dei vivi. Cioè, non fraintendermi, compare, ti ho già detto come la penso: c’era bisogno di fargli passare tutto questo?”
“Si, l’hai già detto.”
“…vomitare e vomitare… non ha fatto altro negli ultimi 6 mesi. Gli usciva dalla bocca roba verde e marrone che non si capiva che cazzo era… e scaccava dalla mattina alla sera… mia madre insisteva per farlo mangiare: gli preparava i tortellini… io glielo dicevo: che cavolo gli prepari la pasta che tra mezzora la vomita tutta nel secchio?
Quando le cose andavano bene si riempiva le mutande di merda. Lo sapevano che non c’era niente da fare. I dottori e mia madre e tutti gli altri. Lo sapevano, e hanno fatto finta di niente, hanno continuato a sperare nel miracolo.”
Bò, che cazzo vuole che gli dica?
“Si, è proprio come dici tu, questo Vaticano di merda… e questo papa nuovo e anche peggio di quello di prima, più conservatore, più ortodosso… è peggio, è molto peggio.”
Annuisce senza fare nessuna espressione, sembra una carpa d’allevamento. Sta pensando che sono ignorante come una pecora e che non ne capisco niente di cattolicesimo e politica e morale e che sto solo parlando a vanvera, solo per evitare di restarmene in silenzio e farci la solita figura da fesso.
È brutto dirlo ma ha proprio ragione.
“Vabbè, ora devo andare” dice.
“Oh, aspè! Non è che ti ritrovi un po’ di erba? Sai com’è, per ora non posso uscire e sono rimasto a secco.”
“No, non ci voglio avere niente a che fare con questa merda.”
Mi fissa con un sopracciglio più alto dell’altro che nel suo caso denota uno sguardo truce.
“Dovresti lasciarla perdere pure tu quella roba: è veleno. Non vedi come si è ridotto mio fratello?...”
“Non credo c’entri l’erba, in Olanda la danno ai malati terminali come antidepressivo…” dico, convinto che basti questo a dissuaderlo dall’idea che sono un tossico di merda, oltre che il probabile assassino di suo fratello.
“In Italia mio cugino s’è beccato 5 anni perché coltivava la canapa indiana nell’orticello di mia zia. Un suo caro amico l’aveva convinto che fosse illegale solo spacciarla, non coltivarla. Ma non ci andrà in galera, ha un posto riservato nel reparto psichiatrico del Sant’Antonio Abate. Sé fumato il cervello.”
“Ah, mi spiace. E ce l’hai il numero di questo suo amico?”
Se ne va senza rispondermi sbattendo la porta.
Resto solo con lui.
“Elvis ci sei ancora? Non te ne sei andato vero?”
Gli poggio una mano sul collo per sentire il battito. Non sento niente, ma è ancora caldo.
“No, perché se sei già morto come faccio a dirti tutto quello che ti devo dire? E sarebbe ingiusto se tu te ne andassi senza darmi la possibilità di spiegarti. Ho un sacco di cose dentro che vanno su e giù… è come… hai presente quando c’è una scrivania con un sacco di fogli sopra e qualcuno apre una finestra? Ecco, io mi sento così, ho un sacco di fogli che se ne vanno in giro per la stanza e so già che sarà un casino mettere di nuovo tutto in ordine.
Tuo fratello è solo uno stronzo, immagino che questo già lo sai. Non credo a niente di tutte le stronzate che ha detto, soprattutto il fatto che sei già all’altro mondo. Io lo so che tu sei ancora qui e ci senti parlare di te e ti rendi conto di quanto siamo piccoli e meschini. Ci stai guardando, sei qui da qualche parte che svolazzi, e ci vedi tutti riuniti in questa stazione desolante ad aspettare che parta il tuo treno. Dimmi una cosa, com’è il mondo visto da quel finestrino?”
Tiro fuori il pacchetto di sigarette e ne accendo una.
“Posso? O hai paura che il fumo passivo ti faccia male?”
Rido da solo come un perfetto idiota. Del resto chi l’ha detto che non lo sono?
“ltro mondo. e sei già al'o, immagino che questo lo sai già, e per questo io non credo a tutte le stronzate che ha detto, intTi ricordi Melina, la picciotta che conoscemmo durante le manifestazioni studentesche quando si gridavano slogan contro la Jervolino? Era pazza di te. Erano tutte pazze di te. Andava dicendo in giro che le piacevi perché avevi il nome di Presley, eri bello come Dylan di Beverly Hills ed eri maledetto come Jim Morrison. Melina era una picciotta troppo avanti, portava le mutande colorate dieci anni prima che diventassero di moda. Tu la cacavi e non la cacavi, dipendeva da come ti svegliavi la mattina. Te lo potevi permettere, del resto, avevi un sacco di fiche che ti venivano dietro. Io non riuscivo a spiegarmela questa cosa, non riuscivo a capire com’era che si innamoravano sempre tutte di te: tu non somigli per niente a Luke Perry.
Facevamo le feste e tu bevevi come una spugna e ruttavi e piritiavi davanti a tutti e facevi un feto di alcol che non ti si poteva stare vicino, eppure le femmine era tutte lì che si bagnavano le mutande solo a guardarti. Quando io e Melina siamo diventati amici sapevo benissimo che lei non aveva scelto me, che gli servivo solo per poterti stare più vicino. La odiavo e allo stesso tempo la amavo ma non gliene facevo un colpa. Tu eri troppo di un’altra categoria rispetto a me. Però mi dava fastidio vedere che la consideravi una “cosa” tua. Per te era una riserva da tenere in panchina perchè prima o poi sarebbe tornata utile. A dire la verità quella tra me e Melina non era neanche questa grande amicizia, parlavamo sempre e solo di te e lei aveva sempre un buon motivo per mettersi a piangere. Facevo una fatica bestiale a convincerla che tu non eri poi così bastardo come sembravi e che… ma adesso te lo posso dire, non lo facevo per amicizia. Era solo che quello era l’unico modo per starle vicino: ascoltarla e dirle le cose che voleva sentirsi dire. Poi ci abbracciavamo e restavamo un sacco di tempo così, in silenzio, a scaldarci. Lei mi chiamava fratellino, io per dovere di corrispondenza la chiamavo sorellina… almeno fino a quando non è successo quello che è successo. Sto parlando della storia del bacio e tutto quello che è venuto dopo, con lei che a casa tua, durante la tua festa di compleanno, mi ha chiesto di fare l’amore. Nel tuo letto.
Io pensavo che sarebbe stata una cosa bellissima, me l’ero sempre immaginato come, che ne so, buttarsi da un trampolino altissimo e, lungo la caduta, non pensare affatto a quanto può essere profonda l’acqua, ma pensare solo al volo, allo stile, alla perfezione dei movimenti, e poi quel che sarà sarà.
Invece non è stato niente di tutto questo. Per tutto il tempo che è durato non ho fatto altro che chiedermi dove fosse lei, e con chi stesse davvero facendo l’amore.
Porca zozza, quello era un momento mio e io non ti avrei mai permesso di rovinarmelo ma… è tutta una stronzata questa cosa che il destino è nelle nostre mani, che ce lo facciamo noi. Per me non è mai stato così. Perché il destino è fatto anche di altre persone e tu non puoi controllare le altre persone. L’ho capito quando lei ha cominciato ad ansimare forte e a gemere e a ripetere ad alta voce il mio nome, fingendo un orgasmo che non stava avendo. Dovevi sentirla, era un orgasmo veramente strafasullo. Voleva solo che tu ci sentissi o che qualcun altro ci sentisse e te lo venisse a riferire. Io volevo solo piangere, invece, ma non lo feci, non con lei nuda sotto di me. Cercai solo di accelerare un po’ la cosa, non avevo più voglia che durasse tanto. E quando fu il momento di venirmene non lo tirai fuori. Non so se fu una scelta vera e propria o se semplicemente le cose andarono così. È vero però che dopo, per un bel po’ di tempo ci ho pensato a questa cosa, al rischio che lei restasse incinta, e forse ci ho pure sperato, perché credevo che con un bambino di mezzo lei sarebbe stata mia per sempre.
Per anni mi sono chiesto come avevi fatto a saperlo. Nessuno può averci sentiti, con tutta quella musica sparata a massimo che era persino difficile percepire i propri pensieri. Ma poi ho capito.
Dimmi una cosa: te lo ha detto proprio lei in persona o si è limitata a farlo sapere a qualcuna che certamente non si sarebbe persa l’occasione di farti questa confidenza?
Anna, per esempio.
Vabbè, non importa. Quello che conta è che tu mi hai perdonato… dovrei dire così, no?
Hai sempre avuto un cuore grande come una capanna, vecchio mio. Anche se, forse non è così difficile perdonare un ladro che non è riuscito a rubarti nulla, dico bene? I ladri sfigati fanno sempre compassione.
Adesso dirai che parlo di cose vecchie, che quello non sei più tu e che l’altro non sono più io (non è proprio così, compare, perché almeno io sono sempre quello, sempre lo stesso). Comunque hai ragione, forse è meglio passare a cose più recenti: Veronica, per esempio.
Sapevi che piaceva a me, lo sapevano tutti. Lo sapevi tu, lo sapeva lei e lo sapevano tutti gli altri. Non dovevi far altro che startene un po’ per i cazzi tuoi, eri così bravo a sparire quando io avevo bisogno del tuo aiuto. E invece io passavo da lei per invitarla a prendere un aperitivo e sotto casa sua ci trovavo te: “Elvis mi ha invitata da lui per vedere i suoi quadri...”
Le telefonavo la sera e trovavo il telefono occupato per ore, e con chi stava parlando lei? Con Van Gogh, ovviamente. E tutte le attenzioni che di punto in bianco avevi per lei… roba che prima che scoprissi che la volevo, manco ti passava per la mente di telefonarle. Non ne eri innamorato, in quel caso ti avrei capito, forse... Soltanto non potevi accettare il fatto che una ragazza potesse starti intorno senza essere innamorata di te. Eri ossessionato dall’idea di veder ridotto il tuo harem. Lei non era altro che l’ennesima figurina da aggiungere al tuo album. Purtroppo, però, io di quella figurina ne ero innamorato.
E invece lei si è innamorata di te, così, per caso: “compare davvero mi dispiace che le cose siano andate così. Io non ho fatto niente perché accadesse, e comunque se tu vuoi io mollo subito, se tu mi dici che sei innamorato di lei io ci sto niente a farmi da parte.”
“Bè, in effetti sono un zinzino innamorato di lei, si.”
Forse sono esagerato. Che male c’è se continuavi a passare ore a telefono con lei e a invitarla a casa tua a vedere i tuoi dipinti del cazzo? Del resto mi avevi promesso di lasciarla perdere, no?
Fanculo, compare, so benissimo cosa vi dicevate in quelle fottute telefonate. Perché, vedi, Veronica le registrava, così poteva riascoltarle la sera prima di andare a dormire. Era convinta che se si fosse addormentata ascoltando la tua voce ti avrebbe sognato.
Lei mi faceva ascoltare le vostre telefonate e poi mi chiedeva: “Secondo te che avrà voluto dire con queste parole?” mi chiedeva un parere “disinteressato”. A volte saltava certe parti dicendo, “no, questo non te lo posso fare sentire, è troppo personale”.
Non so se fosse sadismo il suo o se per lei il fatto di essersi innamorata di te implicava di conseguenza che io non fossi più innamorato di lei. Le ragazze hanno un concetto troppo elevato dell’amicizia tra maschi.
Ad ogni modo, dire cose “troppo personali” non è esattamente quello che io intendevo per “farsi da parte”, ma probabilmente sono io che ho una visione distorta delle cose.
Purtroppo per te lei non era tipo da accettare una “compartecipazione degli utili”. Era troppo una picciotta con le palle per accollarsi una situazione del tipo sto-con-te-ma-non-sto-con-te-perché-intanto-mi-vado-facendo-tutte-quelle-che-incontro.
Così è arrivato il momento della vendetta. Mai fidarsi delle donne, compare, dovresti saperlo.
“Elvis è uno stronzo!” diceva.
“Davvero?”
“Si. E vuoi anche sapere perchè è uno stronzo?”
“Sentiamo.”
“Ascolta questa telefonata. È proprio tutto quello che ci siamo detti due giorni fa, tutto per filo e per segno, versione integrale.”
“Bene. Non fa ingrassare, allora.”
Facevo lo sbruffone ma avrei voluto che ti sentissi tu come mi sentivo io…
Dicevi cose che per me erano tremende: “Tu non lo vuoi a Ettore. Avanti ammettilo che non lo vuoi.”
“Questo non ti riguarda.”
“Devi ammetterlo. Non te ne frega un cazzo di lui.”
“Lo dici tu.”
“Dillo che non te ne frega un cazzo di lui.”
“Gli voglio bene.”
“Quello è innamorato di te. Non puoi continuare ad illuderlo. Devi dirglielo, altrimenti non lo capirà mai.”
“Diglielo tu, allora.”
“A me non mi crederebbe. Ormai s’è fottuto il cervello.”
Sai com’è, “Quello” pensava che tu fossi suo amico…
“Tu sei innamorata di me, Veronica.”
“Io non sono per niente innamorata di te.”
“Si che lo sei, si vede lontano un miglio che sei innamorata di me.”
“Pensa pure quello che vuoi.”
In un certo senso ti ammiravo, perché io non potrei mai dire niente del genere. Io non sono mai sicuro di quello che gli altri provano per me, ho sempre la sensazione che tutte le mie relazioni siano provvisorie, se non proprio occasionali. Ho sempre paura che i sentimenti degli altri per me siano contratti a termine e non faccio che chiedermi quando scadranno.
“Lo sai che mi ha detto quello? È venuto qui ieri pomeriggio e mi ha fatto tutta una scenata di gelosia, perché dice che devo lasciarti stare. Continuava a dire “ma che vuoi dimostrare? Che cavolo vuoi dimostrare?” Pensa che per me tu sei una specie di gioco di società, che voglio dimostrare che sono meglio di lui, che posso fregargli la ragazza quando e come voglio…”
“Ha detto così?”
“Si è fottuto il cervello… fregargli la ragazza per dimostrare che sono meglio di lui…”
Te la ridevi…
Per un sacco di tempo ho pensato che la mia vita sarebbe stata migliore senza di te, se non ti avessi mai incontrato, o se, meglio ancora, tu non fossi mai esistito. E adesso sembra arrivato il momento di scoprire se avevo ragione.
Ma già mi viene il dubbio di essermi sbagliato.
Perché tu te ne vai, è vero, ma lo fai alla grande, come hai sempre fatto. Te ne vai sul più bello, come un pugile che conquista il mondiale e lo difende contro tutti i migliori pugili del mondo e poi, dopo che tutta una generazione di sfidanti è stata messa al tappeto, prima che possa nascere un nuovo campione in grado di buttarlo giù, dice: adesso basta.
Per me invece non cambierà niente. Forse appartengo a quel genere di persone che sono destinate a non essere mai felici.
Vuoi sapere una cosa? Tu adesso… io ti guardo e… fai proprio senso… hai una pelle orribile. Il tuo truccatore dovrà fare i miracoli per presentarti in modo decente per l’atto finale. Ci saranno tutte le tue ammiratrici, bagnate come sempre, anche se stavolta per un altro motivo, e tu avrai quella faccia lì, quella faccia orrenda… Ma non disperare, sono sicuro che per loro resterai un tipo arrapante anche dentro la cassa da morto. Più arrapante di me, almeno.
Ora però devo andare, si è fatto tardi. Fra poco comincia “Una mamma per amica” e non posso perderlo, perché sembra proprio che Lorelai sposerà Liuk e che Rory… bè, lei ha lasciato il college… ma lasciamo perdere.
Se vedi Lui digli che non c’ho proprio capito un cavolo di tutta questa pantomima, di questa giostra disperata che ha messo su. Mi sfugge proprio il senso di questo… correre verso il nulla. Però magari se distribuisse un po’ meglio certe cose… i soldi, la gnocca, la felicità, gli scudetti… giusto per sapere di cosa si tratta…
E poi… c’è bisogno di un po’ più di leggerezza quaggiù. Diglielo, se lo vedi...”
Mi alzo, impugno bene le mie stampelle e barcollo fino alla porta. Mi volto a guardarlo: sono sempre tristi le ultime volte.
“Ciao, Elvis. Buon viaggio.”

domenica, luglio 23, 2006

racconto: una serata alla grande


È uno di quei periodi che ho un così pressante bisogno di scopare che passo giorni interi a spremermi la fava. Chiuso nella mia stanza, a cavalcioni sul letto, con gli occhi al soffitto e la bocca aperta e giù, fino a quando consumo tutto il rotolo di carta assorbente e non mi rimane più una goccia da versare. È così che mi è venuta l’idea di scrivere, mi sono convinto che l’unico modo per trovare una tipa disposta a scopare con me è elevare la mia condizione sociale. Mi sono detto: “Ettore, tu non sai fare niente, ma se ti impegni puoi diventare un buon cazzaro”. E allora eccomi qua, ci sto provando.
Può sembrare un’idea bizzarra, lo so, ma è così che gira il mondo. Le femmine sono geneticamente troie, non te la danno neanche morte se sei una specie di signor nessuno, senza titoli, o soldi o prestigio sociale: è una legge di natura universale. Prendiamo gli animali, per esempio, gli animali femmina mica c’hanno il concetto dei soldi, o della fama, o del prestigio sociale… le cagne per esempio, o le femmine di ghepardo, le ghepardesse, potrebbero farsi ingroppare dalla prima bestia col cazzo in tiro che incontrano, e invece… basta dare un’occhiata a un documentario e si capisce come stanno le cose. Io li guardo da quando ero piccolo i documentari, è per questo che capisco il mondo. Le ghepardesse non si fanno ingroppare dal primo gattone maculato che si trovano davanti a spasso per la savana, no, loro vogliono il maschio dominante, “er più”, il ghepardone più figo che ci sia in tutta la fottuta prateria. E questo vale sia per la ghepardessa, che per le lombricone o le fotomodelle di Coco Chanel. È una legge che vale per tutta la cavolo di scala evolutiva.
Basta farsi un giro per i locali il fine settimana e dare un’occhiata intorno, te ne accorgi subito. Le femmine la danno a quelli ricchi, a quelli importanti, a quelli famosi, a quelli belli e io non sono nessuna di tutte queste cose, per cui passo gran parte del mio tempo a vedere gli altri scopare, per lo più su filmini porno che scarico da internet. Il poco tempo che mi rimane lo dedico a tutte le altre cose, tipo lavorare, pulire la casa, fare la spesa, e chiedermi come posso trasformarmi da sfigato doc al mille per cento a “tipo certo non bello ma comunque interessante” (ovvero in che modo posso metterla per convincere una ragazza decente a scopare con me). Una ragazza decente, dico, perché per le cozze non ci sarebbero problemi… è che io ho ancora una mia dignità e… insomma, anche l’occhio vuole la sua parte.
Messa in questi termini la vita per me è un lungo elenco di cose da fare: per sopravvivere, per mangiare, per stare in un appartamento che sia qualcosa di più di una discarica, per essere accettato dagli altri, per alzare le mie miserrime probabilità di scopare e… sapete una cosa? Questo mondo fa proprio schifo.
Quando sono a Trapani le cose per certi versi migliorano, anche se solo di poco. Questa cosa di andare a lavorare fuori, a Padova, pensavo mi avrebbe aiutato a diventare un po’ più appetibile agli occhi dell’universo femminile: tipo esotico, maschio mediterraneo, posto statale, maestro elementare… che cazzo vogliono di più ‘ste donne. Ero così pieno di entusiasmo all’inizio, avevo tanta di quella voglia di andarmene… ora invece non vedo l’ora di tornare a Trapani, di stare in vacanza, non andare a scuola, non fare la spesa, non pulire casa, non cucinare… nella mia Sicilia ho un bel po’ di tempo a disposizione, perché tutte queste cose le fa mia madre al posto mio.
Così quando sono a Padova e si avvicina il momento in cui potrò tornare a casa passo un sacco di tempo a fare progetti su come utilizzare al meglio i giorni di vacanza. Faccio scalette del tipo: 2 ore al giorno per scrivere, 2 ore al giorno per leggere, 2 ore al giorno per suonare la chitarra, e via dicendo. Le mie scalette di solito prevedono anche il tempo minimo da dedicare alla socializzazione, a stare in mezzo alla gente, cosa di cui farei volentieri a meno, ma se non esco di casa dove la trovo una ragazza disposta darmela?
Poi però arrivo a Trapani e non faccio niente di tutto quello che avevo programmato: dovrei scrivere e invece navigo su internet, dovrei leggere e mi sparo le seghe sui filmatini che nel frattempo ho scaricato da internet, dovrei uscire a socializzare e invece resto in casa a ciondolare del tutto schiffarato tra la mia stanza e la cucina alla ricerca di cibarie, gli arancini della mamma, avanzi di cannelloni al ragù di carne o mustazzoli ericini da bagnare nel vino rosso, e poi di nuovo dalla cucina alla mia stanza, dove con la pancia piena mi metto a dormire. Sono fancazzista per natura, diciamo pure un tipo semplice, uno che si accontenta, a cui basta poco per essere felice.
È la fica l’unico tassello che manca alla mia felicità perfetta, la nota dolente, se non fosse per questo piccolo particolare non ci sarebbe nulla in grado di spingermi fuori dalle quattro mura di una stanza. Se solo avessi una ragazza sarei un gioioso, splendido, perfetto nullafacente.
E invece mi ritrovo intorno alle otto di sera a programmare qualcosa per dare un senso alla giornata. La mattina e il pomeriggio se ne sono andati in niente di produttivo e quando è sceso il buio, dopo essermi fin lì detto inutilmente cose del tipo “dovrei scrivere, dovrei leggere, dovrei fare questo e dovrei fare quest’altro” e trovato puntualmente cose più piacevoli e più inutili da fare, mi sono detto “dovrei uscire”, “dovrei divertirmi”… ed è bastato solo pensarlo che subito mi è venuta voglia di stendermi a letto e di infilarmi una mano nelle mutande. Ma ogni tanto vincono anche i doveri…
Telefono ad Anna e le chiedo dei suoi programmi per la serata.
“Sono all’8 e ½ con Patty e certe sue amiche, mangiamo lì e poi… non lo so, tu non ce la fai a venire ormai, giusto?”
Che stronza, se davvero mi avesse voluto a quella cazzo di cena mi avrebbe invitato…
“No, ho ancora un mucchio di cose da fare e … semmai per il dopocena…”
“Occhei, dovrebbe venire anche Daniela più tardi, potresti sentirla e metterti d’accordo con lei.”
Verso le undici e mezza io e Daniela siamo all’8 e ½, uno di questi nuovi bar-pub-ristorante che si sono aperti recentemente a Trapani. È la prima volta che vengo qui. Houge bar, indica l’insegna, non so nemmeno che cazzo vuol dire. C’è un bancone con un numero esagerato di baristi, e poi, entrando, sulla destra, un secondo ambiente, defilato verso l’interno, con dei tavolini dove la gente mangia. Individuiamo subito Anna e Patty e le tre befane sedute con loro. Stanno ancora mangiando il dessert. In mezzo a loro una bionda con la bocca da pompinara e l’espressione da pompinara che non ride mai e si atteggia a fare la strafica si volta a guardarmi con la sua aria di presunta superiorità.
“Te lo ricordi a lui? andava al magistrale” fa Patty.
Questa stronza mi guarda come si fa con uno scarrafone e scuote la testa. Mi guarda dall’alto in basso, nonostante il suo metro e un cazzo di rotolini di pancetta sulla panza e le cosce e le tette cadute.
Mi sta troppo sul cazzo questa qui, è meglio se vado a prendermi una birra. E poi non mi sento a mio agio con loro, non lo so, sarà per via di Patrizia, dei suoi occhi chiari e delle sue labbra, non posso fare a meno di immaginarmele su una qualche parte del mio corpo. È sempre così, sono a disagio in compagnia di una ragazza che mi piace, anche se mi piace solo un poco.
Mi bevo la mia beck’s fuori dal locale, fumando l’ennesima sigaretta. Gruppetti sparsi di ragazzi e ragazze parlano di chissà che cosa. Io mi ritrovo con Daniela, davanti al suo corpo deformato, con il busto troppo grosso e tozzo e le gambe secche lunghe, per niente aggraziato dal vestitino nero e dalle calze nere e stivaletti tipo Visitors, né dal trucco leggero sulle labbra e attorno agli occhi e non so che dirle. Non faccio che guardarmi intorno. In uno dei gruppetti dieci metri più in là vedo Stefania, la mia ex. Cioè, non proprio la mia ex, ci sono stato in tutto un mese e dieci giorni, compresa la settimana in cui lei è partita e se n’è andata in Tunisia a fare le vacanze di Natale con suo padre che faceva il poliziotto all’ambasciata italiana, e quando è tornata mi ha mollato e io ci ho pianto per un tempo esagerato. A pensarci adesso mi vergogno troppo di questa cosa, e ancora adesso non mi sento di andare da lei e dirle ciao come stai, e parlarle, anche si in fondo non mi dispiacerebbe, perché è proprio bella, così bella che penso che ha fatto bene a mollare un fallito sfigato come me.
Finiamo di fumare, torniamo dentro e non vediamo più Anna e Patty e le altre. Saranno andate in bagno… le aspettiamo appoggiati al bancone, sperduti nella nostra assenza di parole e ci sentiamo stranieri in quell’angolo di mondo che si va popolando pian piano di tipi molto più fichi di noi, più alti di noi, più sorridenti di noi e più ben vestiti di noi. Così ben vestiti che a un certo punto mi sembra palese che la mia giacchetta beige è proprio brutta e comincio a sentirmi un fesso e a pensare che tutti lì dentro mi hanno guardato almeno una volta e hanno riso di me, del mio modo orribile di vestire, e mi sento un pesce fuor d’acqua, sempre più imbarazzato e impacciato e di cattivo umore.
Entra Stefania, qualche metro più indietro rispetto a un tipo alto, con una giacca nera, che potrebbe benissimo essere quello che attualmente se la scopa. Anzi sono sicuro che è così, si capisce da come gli cammina dietro, dalla poca distanza che tiene. E sono felice di vederla, eppure non sono felice, perché, cazzo, non posso fare a meno di pensare che questo è proprio il momento sbagliato per trovarmela di fronte. Insomma, non qui, non adesso che mi sento una caccoletta tirata fuori dal naso e spiaccicata sul muro, non con questa orribile giacchetta beige addosso e poi qua dentro c’è tutto questo caldo, la gente intorno che respira e le luci e l’aria ferma che mi fa bruciare la faccia e me la fa diventare tutta piena di sfumature viola da ristagno della circolazione sanguigna. Ma Stefania viene proprio verso di me, con quella sua faccia angelica e anche un po’ diabolica, e mi prende la strizza di trovarmi lì, faccia a faccia con lei, la sua pelle così trasparente, doverla guardare negli occhi, sentire il suo profumo, e allora scappo, le volto le spalle facendo finta di niente e mi infilo in bagno, che poi è il posto più adatto per una merda come me.
Mi guardo allo specchio, ho un’incredibile faccia di cazzo, rossa e gonfia e con gli occhi pesti per via di tutto il tempo che ho passato a sonnecchiare e a smorzarmi il pistolotto.
Quando torno fuori mi sento un po’ più calmo e un po’ meno orribile di fuori, ma sempre brutto e ripiegato su me stesso e maligno-contorto dentro.
Stefania ricompare all’improvviso e io penso che stavolta la saluto, e dentro di me mi preparo tutto un corredo di sorrisi e gesto con la mano e parole tipo come stai e che piacere, perché adesso credo di poterle parlare, ne sono abbastanza convinto, mi farò raccontare com’è andata la sua vita in tutti questi anni in cui non ci siamo più visti e cosa fa adesso, cosa non fa e… ma lei mi passa davanti del tutto indifferente, guarda davanti a sé con uno sguardo così dritto che se per sbaglio si trovasse uno sgabello davanti ci finirebbe addosso e si spaccherebbe tutti i denti sul pavimento, scafazzandosi il naso piccolo a patatina che una volta ci uscivo pazzo. Sono sicuro che se le succedesse davvero una cosa del genere, si rialzerebbe facendo finta di niente, al massimo spolverandosi i pantaloni con le mani, e continuerebbe a camminare come se non avesse per niente la faccia devastata, con i denti tutti frantumati e il sangue gocciolante sul colletto della camicia bianca.
Rinuncio subito a qualsiasi tentativo di attirare la sua attenzione, figuriamoci, sarebbe capace di attraversarmi come un fantasma. Quando è passata mi volto a guardarle il culo dentro i jeans stretti blu: sembra disegnato da Giotto. Ha messo su qualche chiletto dai tempi del magistrale, ma pochi e tutti nei punti giusti. Per certi versi è una fortuna che non mi cachi più nemmeno di striscio, perché è proprio una picciotta spettacolare, riflette la luce in un modo che la fa sembrare diversa da tutte le altre persone e credo che potrei innamorarmi di nuovo di lei, all’istante, qui e adesso, o in qualunque altro posto e momento… e sarebbe una sofferenza inutile.
Che indifferenza… ma è tutto quello che mi merito… sono un perdente… senza voglia di fare nulla… senza nessuna qualità e senza nessuna capacità di fare niente… solo ammucchiare parole in modo disordinato, caotico, inseguendo sempre un senso che ogni volta mi sfugge.
Il locale nel frattempo si è riempito. Tempo 15 minuti, esco, rientro, e mi ci vuole un’eternità per prendere un jack e cola, e poi un’altra eternità per tornare fuori all’aperto, respirare aria che non sia già stata respirata da una decina di altre bocche e scendere dai trenta gradi di dentro, ai quindici gradi della primavera siciliana.
Ritrovo Daniela.
“Anna e Patty se ne sono andate” dice.
“Come andate? Così, senza dire niente?”
“Si, le ho viste salire in macchina e andare via… non hanno salutato, che ne so, forse tornano…”
Stronzissime pulle!
Andate a fanculo voi e la vostra stronzissima amica bocchinara bionda in sovrappeso… non è nemmeno una bionda naturale… mollarci qua in questo modo… fottetevi, buttane! Il vostro lordissimo pacchio al vento…
“Va bene, tanto ci divertiamo di più io e te da soli…” fa Daniela.
Ma fottiti pure tu! Vi odio, femmine del cazzo.
Voglio solo andare a casa, lì sto bene, la mamma mi ha fatto gli arancini, e forse nel forno ne è rimasto ancora qualcuno al prosciutto e formaggio e fredde mi piacciono quasi più che calde… hanno il sapore del volere bene e… ma non posso andarmene così, farei la figura del moccioso depresso…
Resto lì, non faccio che andare avanti e indietro dal bancone alla strada e poi di nuovo al bancone per ordinare altri jack e cola e poi fumare sigarette e fingere di stare bene lì, zitto come un baccalà, nel bailamme di strafiche profumate e figli di papà che si agitano intorno.
A un certo punto Daniela avvista persone che conosce, tipo amici della cognata del suo ragazzo incontrati chissà quando in un qualche raduno familiare tipicamente pacecoto.
Ci avviciniamo a loro più per disperazione che per effettivo desiderio di stare in compagnia. Cominciano tutti a parlarsi tra di loro, avvicinandosi le bocche agli orecchi per via della musica troppo forte e io non sento niente di quello che si dicono. Stringo un mucchio di mani e poi mi ritrovo di nuovo solo e zitto, con le mani in tasca a guardare stupefatto l’altissima concentrazione di facce di cazzo e di culi di donne e di labbra pittate con le lingue che spuntano fuori veloci a inumidire il rossetto. Daniela si intrippa a parlare con uno di questi qui, un militare, collega del suo ragazzo da quello che capisco dalle poche parole che afferro sotto la musica assordante dei Subsonica. Parole tipo “Enzo” e “missione” e “Nassirya”.
A un certo punto mi volto e dietro di me c’è lei, mora, magra, belle tette e pancia piatta scoperta. È bella nonostante tutto, nonostante gli occhi spenti, con le palpebre pesanti e lo sguardo smorto che posa sulle cose e le persone senza lasciarsi attrarre da niente, come se non vedesse niente. Si passa una mano sulla fronte sudata, mentre la sua amica bionda, carina ma molto meno fica di lei, le fa la guardia, pronta ad afferrarla al volo nel caso caschi all’improvviso da un lato o dall’altro. Un ragazzo che sembra un fotomodello, col suo metro e 90 e la schiena dritta le si avvicina per dirle qualcosa nell’orecchio. Qualcosa di non troppo gentile immagino, perché poi se ne va e lei ha la faccia di chi non sa se deve piangere o vomitare. L’amico di Daniela, col suo fare da sergente dei marines, le si avvicina, evidentemente la conosce. In un attimo sono tutti attorno a lei, gli amici di Daniela, e Daniela e io e l’amica di lei carina ma non troppo fica. Lei è così torta che si vede benissimo che non capisce niente di quello che le dicono, perché non cambia mai espressione, si limita a guardare quelli che le parlano con i suoi occhi neri vacui.
Poco dopo, non so come, mi ritrovo in macchina con tutta questa gente che non conosco, compresa lei, questa splendida ragazza ubriaca che si chiama Arianna.
“Andiamo al Muna” dice qualcuno, mentre ci infiliamo nelle vie del centro storico.
Io ho un bisogno di pisciare che a momenti me la faccio addosso, ma tanto il Muna è vicino, e decido di stringere i denti e pensare a qualcosa che mi distragga dalla vescica piena che comincia a farmi male.
Davanti al Muna un gruppetto di ragazzi ballano in strada, ognuno con qualcosa da bere in mano. La musica si sente forte anche da fuori. Si fermano tutti lì, davanti all’ingresso a parlare con qualcuno che non riesco neanche a vedere. Io ho voglia di dare un’occhiata dentro, non ci sono mai stato, e poi ho sempre quel bisogno di pisciare che mi preme sulla cintura dei pantaloni. Un bestione in maglietta nera però se ne sta davanti a me e mi impedisce di entrare. Dico “scusa” e gli faccio segno di spostarsi. Quello però non ha nessuna intenzione di farmi entrare. Mi spinge indietro con una manata.
“Ce l’hai il timbro?” fa.
Gli rispondo “no, che timbro?”
“Se non hai il timbro devi pagare 7 euro per entrare.”
“Ah, scusa, non lo sapevo, pensavo fosse un pub.”
“Pensavo avevi il timbro” mi risponde il coglione con l’aria di chi mi prende per il culo e aspetta solo una scusa per farmi volare a gambe all’aria.
“Fanculo stronzo” gli rispondo.
“Che cos’hai detto?” fa lui, “ripeti quello che hai detto se c’hai le palle.”
“Ho detto fanculo stronzo, e aggiungo anche che sei un gran pezzo di merda.”
Allora mi si parano davanti tutti e due, lui e il suo compare, un po’ meno bestione di lui e con la scritta security man sulla maglietta rossa.
“Avete bisogno di venire in due per sentirvi forti?” dico.
Il bestione numero uno fa un segno all’altro di restare fuori dalla faccenda che tanto se la sbriga da solo.
“Hai parlato assai” mi fa e parte all’arrembaggio.
Ovviamente non si aspetta che sono un campione di boxe, che frequento la palestra di Cristian Safina e passo un’ora al giorno a riempire di cazzotti il sacco che ho attaccato al soffitto di camera mia. Viene sotto a mani basse, convinto che me ne starò lì a farmi frullare e appallottolare come carta pesta. Non capisce che così è fin troppo facile per me centrargli la mascella e infatti quando questo succede gli si dipinge sul volto una faccia del tutto sorpresa. Il secondo cazzotto è un gancio al mento che gli toglie ogni dubbio: proprio così, questo stronzetto alto un metro e un cazzo me le sta suonando di brutto. Poi gli mollo un uno-due a entrambi gli zigomi. Il cazzone barcolla per alcune frazioni di secondo e poi frana giù al tappeto.
Proprio in quel momento qualcuno della compagnia di pacecoti amici di Daniela dice che, al diavolo, 7 euro per ballare sono un vero furto e propone di andare al Beach Bar a Marausa.
“Lì si balla gratis” fa, con l’aria di chi la sa proprio lunga.
Ci incamminiamo di nuovo verso le macchine e io non riesco più a pensare a nient’altro che al mio bisogno di pisciare e che fra qualche giorno, tornato a Padova, ci vado davvero a iscrivermi a questa palestra di boxe, e mi compro un sacco da attaccare al soffitto di camera mia e ci passerò un’ora al giorno a dare cazzotti e tra un anno torno qua e rompo il culo a questo stronzo di un buttafuori di merda.
Poi siamo di nuovo tutti in macchina. Io sempre nella Clio magenta del sergente dei marines, tutto gasato con la splendida Arianna ancora un po’ torbida al suo fianco. Seduti dietro con me ci sono Lisa, l’amica di Arianna, e un altro tipo di cui non saprei che dire, se non che il pizzetto gli conferisce una tremenda faccia da scemo.
Manco il tempo di salire in macchina che il nostro sergente dei marines comincia subito a spacconare, fa fischiare le ruote in partenza e in via G. B. Fardella si mette a gareggiare con l’altra auto, una Punto bianca. Si sorpassano a vicenda facendosi boccacce e facce strane che secondo loro dovrebbero essere buffe e mostrandosi l’un l’altro il dito medio. Tra la nostra e l’altra auto è uno sghignazzare continuo, a parte me, che non ci trovo un cazzo di divertente in questa situazione e Arianna che non è ancora riemersa dal pozzo di delusioni amorose e Red Bull con vodka liscia in cui è sprofondata. In via Marsala i due piloti passano agli spiritosi apprezzamenti verso le reciproche sorelle. Adesso siamo di nuovo in testa noi e il nostro Sergente comincia ad andare a zig zag per coprire entrambe le carreggiate e scoraggiare ogni tentativo di sorpasso da parte dell’altro coglione. Superiamo il passaggio a livello e ben presto siamo fuori dal centro abitato, fuori dalla zona industriale, lungo la via del sale.
Il pilota della Punto, vista l’impossibilità di sorpassarci, decide che è divertentissimo provare a metterci paura avvicinandosi velocissimamente al nostro paraurti, fingendo di volerci tamponare.
“Figlio di buttana, ora ti fotto io” grida il Sergente, e comincia tutta una serie di manovre di accelerazioni e frenate improvvise e poi di nuovo accelerazioni. Ma è proprio in una di queste manovre che la Punto si infila alla nostra sinistra per sorpassarci. Il Sergente però, con tutto l’alcool che si è bevuto stasera, figuriamoci se ha voglia di farsi fottere. Scala in terza per fare andare su di giri il motore e spinge a tavoletta. Per un bel po’ restiamo testa a testa lungo tutto il rettilineo e le curve che incontriamo e io penso che se viene una macchina di fronte loro sono fatti e molto probabilmente anche noi. E poi a un certo punto arriva la curva, una curva vera, una di quelle che non puoi sperare di prenderla in quinta a 120 all’ora, lo capisce anche un bambino, e poi stronzo di un sergente, hai una fottuta Clio del cazzo, mica una Ferrari, e nemmeno una BMW, e dunque “porco mondo frena!” gli urlo.
“Sono in corsia interna, ce la faccio.”
Guardiamo la punto a fianco a noi e loro ci guardano e tutti, dico tutti, hanno occhi pieni di preoccupazione e luminosi punti interrogativi sulla testa e tutti vorremmo sapere cos’hanno quei due nel cervello e quale destino ci aspetta dietro la curva, mentre lei, la curva, si avvicina così in fretta che…
“Frena” dice l’amica di Arianna.
“Ce la faccio, ti dico che ce la faccio.”
“Compare, frena” gli grida il tipo con il pizzetto.
E qualcuno frena, in effetti, ma non è il Sergente, non siamo noi. Sentiamo il fischio stridulo degli pneumatici della Punto che si consumano sull’asfalto come un pezzo di Parmigiano sulla grattugia e nello stesso istante ci accorgiamo che la curva è lì, ci siamo già in mezzo, con la nostra velocità chiaramente eccessiva. Il Sergente capisce che quella cazzo di curva è molto più brutta di come se la ricordasse e non c’è più il tempo per scalare le marce e non è nemmeno il caso di pensare a frenare perché si bloccherebbero le ruote e l’auto finirebbe dritta dritta sulla corsia opposta e si schianterebbe sul guardarail, sempre sperando che non giunga una macchina di fronte…
In quella frazione di secondo che gli rimane per pensare, il Sergente decide che l’unico modo di affrontare la curva è prenderla più stretta possibile, ed è quello che fa. Imbocchiamo la curva con le ruote di destra che sfiorano il cordolo della strada, ma è chiaro fin da subito che non basterà. Il Sergente sterza ancora un po’ a destra, spera che qualche centimetro ancora basti a salvarci la pelle, ma… cazzo, basta proprio poco per mandare tutto a puttane.
La ruota anteriore destra tocca il cordolo e ci ribaltiamo. Uno, due, tre e non so quante volte ancora.
Quando riapro gli occhi, dopo un lasso di tempo che potrebbe essere un secondo o un’eternità, faccio fatica a capire dove sono. So solo che è tutto troppo buio e troppo stretto. Non riesco a muovermi, posso a malapena respirare, ma la cosa più spaventosa è che non sento più il mio corpo, non so dire cosa c’è ancora e cosa mi manca. Le gambe in basso, per esempio, le avverto solo come qualcosa di pesante, quindi forse ci sono ancora, ma non saprei dire in che stato siano.
Mi passo la lingua fra i denti, e anche quelli sembra ci siano ancora ma ho un sapore tremendo in bocca. La mia lingua sguazza in un liquido caldo e denso. Provo a sputare. Un miscuglio di bava e sangue e non so cos’altro mi cola giù lentamente per il mento e la guancia. Mi brucia tutta la faccia e vorrei tanto potermi guardare allo specchio o avere almeno qualcuno davanti che possa giurarmi che non me ne andrò in giro per il resto dei miei giorni con una frittata al posto del naso e che anche tutto il resto è apposto, cioè niente guance aperte in due come sofficini o un occhio che penzola fuori dalla sua orbita. Mi viene in mente che potrei provare a muovere un braccio per toccarmi la faccia e cercare di capire cosa c’è ancora e cosa invece è sparso qua e là, se brandelli di carne e ossa del mio volto sono adagiati sul tappetino della macchina e cosa invece è volato fuori dal finestrino e adesso è sull’asfalto, in attesa di essere rosicchiato da un branco di cani randagi. Ma non riesco a muovermi, anche il più piccolo movimento mi sembra impensabile, come se non l’avessi mai fatto in tutta la mia vita.
Solo ora mi ricordo che devo pisciare, che è da quando siamo andati via dal Muna che ho la vescica piena e vorrei tanto lasciarmi andare, ma non mi sento ancora pronto per abbandonare ogni dignità. Per quello che ne so potrei anche ritrovarmi con i pantaloni sbrindellati e finire col pisciare addosso a qualcuno.
Già, qualcuno, che fine hanno fatto gli altri? Per un attimo mi viene in mente di provare a chiamare, e stare a vedere chi mi risponde, ma poi dubito di riuscire a farlo. Mi mancano le forze e ho troppo poca aria nei polmoni. L’idea di non riuscire nemmeno parlare è troppo destabilizzante. Meglio prima cercare di capire come sto io, e poi si vedrà come stanno gli altri.
Provo a muovere un piede, “ma se anche non dovessi riuscirci,” mi dico, “ci potrebbero essere mille altri motivi per cui non sono in grado di muovermi, e questo non significherebbe necessariamente che ho la colonna vertebrale spezzata. Giusto?”
Mi prendo qualche minuto in cui raccolgo tutte le forze e il coraggio di cui dispongo. Poi mi concentro sul mio piede destro e, che meraviglia, le dita si muovono all’interno della scarpa. Poi provo con la caviglia e… dio, non sono mai stato così felice di muovere la caviglia o di compiere un qualsiasi altro movimento. “Cioè, cazzo, dove si è mai visto uno paralizzato alle braccia e non alle gambe?” penso, e mi viene da ridere, ma subito mi prendono dolori lancinanti per tutto il torace. Lascio perdere. Per un attimo mi sembra di ricordare di aver visto una volta in televisione uno paralizzato alle braccia e non alle gambe, o forse me l’hanno raccontato, ma poi, no, certamente mi sto sbagliando. La mia schiena è apposto, e io sono felice, potrei averci anche il cranio aperto in due, per quello che ne so, e la mia materia grigia potrebbe essere lì che cola giù (forse è questo quel gusto orrendo che sento in bocca) ma io mi sento felice.
Che fine hanno fatto allora gli altri?
Muovo lo sguardo intorno per vedere se avvisto porzioni di corpo umano nei paraggi, ma è troppo buio e il mio angolo di visuale è troppo stretto. Qualcosa mi dice che potrei essere stato catapultato in avanti fin sotto il cruscotto nella parte anteriore destra dell’abitacolo. Ma se così fosse dovrebbe esserci Arianna vicino a me. O forse lei è stata catapultata all’indietro e adesso si trova sottosopra al mio posto. Mi si forma in testa l’immagine di tutti noi sballottolati dentro l’abitacolo come calzini in una lavatrice.
Comunque sia non riesco a vedere Arianna, non vedo niente che possa assomigliare lontanamente a un suo braccio, o a una sua gamba o a una qualsiasi altra parte del suo corpo. Vorrei che non si fosse fatta niente, più di ogni altra cosa vorrei che lei non si fosse fatta niente. Cioè, prima di tutto vorrei non averci la faccia spappolata o il cranio aperto in due con il cervello che cola giù come il tuorlo di un uovo dal guscio rotto, e poi vorrei che lei non si fosse fatta niente. Provo a chiamarla, cerco di far entrare più aria possibile nei polmoni, ma non mi escono le parole di bocca. È come se mi fossi scordato come si fa a parlare. O forse lo so ancora come si parla, ma è probabile che ho uno squarcio all’altezza della carotide e l’aria che non passa più attraverso la mia gola non può far vibrare le corde vocali e dunque mi è impossibile emettere suoni.
A un certo punto mi sembra di sentire un respiro provenire da dietro le mie spalle. Anzi, non è proprio un respiro, è un rantolo, neanche, è più un boccheggio, come se qualcuno stesse facendo una sauna troppo calda. Ma non sono sicuro di averlo sentito davvero. Provo a restare in ascolto per vedere se lo sento di nuovo, ma niente. C’è troppo silenzio, un silenzio così innaturale che non sembra di questo mondo. All’improvviso capisco di non poter essere sicuro di nulla: tutta questa improbabile lucidità con la morte che potrebbe essere lì, pronta a ghermirmi da un momento all’altro… mi assale il panico. Potrei essere già morto, o essere sul punto di morire, magari ho il freno a mano conficcato nella pancia, o potrei aver perso già troppo sangue per sperare di salvarmi, e magari poco fa non stavo affatto muovendo la caviglia, era solo un’impressione, tutto ciò potrebbe essere solo una mia impressione…
Sono queste le ultime cose che penso prima di perdere i sensi.
Quando riapro gli occhi sento un sacco di voci intorno a me. Due paramedici parlano fra loro mentre mi sistemano un collarino sotto il mento. I vigili del fuoco hanno tagliato via la cappotta dell’auto e adesso c’è più luce intorno, ma l’auto è così sbrindellata che non riesco lo stesso a capire in quale posizione mi trovo rispetto al mio posto a sedere al momento dell’incidente. L’aria fresca della sera mi pizzica la fronte e le guance ed è una sensazione bella, la sensazione di essere ancora vivo.
“È in sensi,” grida uno dei paramedici a qualcun’altro. “Mi senti?” mi domanda, “è tutto apposto, ora ti sistemiamo il collare e poi ti tiriamo fuori di qui.”
“Avete anche il guinzaglio?” domando, con quel po’ di voce che mi ritrovo, ma quello non capisce.
“Si, si, stai tranquillo, ora ti tiriamo fuori di qui.”
“Ho il naso fracassato?”
“Come?”
“Il naso, com’è?”
“Ce l’hai ancora.”
Tutta questa gente intorno, persone che non riesco a vedere in faccia, ma so che ci sono, e sono lì, e provano a salvarmi la vita, non so come dire, danno speranza…
Mi riapproprio pian piano di tutte quelle sensazioni che per tutto il tempo che sono stato lì, a chiedermi se fossi ancora vivo, avevo perso, e solo adesso mi accorgo di averci i pantaloni bagnati.
“Mi sono pisciato addosso” dico, mettendomi a ridere.
“Si, ti sei pisciato addosso.”
“Mi sono pisciato addosso…” rido così tanto che cominciano a farmi così male le costole che è come se qualcuno me le stesse prendendo a martellate una a una. Ma non me ne frega niente, mi sono pisciato addosso, posso sentire il puzzo di urina che sale su dal basso e la sensazione di mutande bagnate e di jeans bagnati e sono troppo felice per questo.
“Se avessi la schiena rotta non le sentirei le gambe, giusto? Cioè, il fatto che sento che sono bagnato, è una cosa positiva, giusto?”
Ma nessuno mi risponde.
Svengo ancora un’infinità di volte prima che riescano a tirarmi fuori dalla macchina. L’ultima cosa che ricordo è che riapro gli occhi e sono disteso su una barella. Il cielo è proprio sopra di me con delle stelle così grandi che sembra un enorme albero di limoni e mi basta allungare una mano per raccoglierli tutti. Ci viene fuori un’immensa granita.
“Salvate Arianna” dico, mentre mi caricano sull’ambulanza, “vi prego…”

sabato, luglio 22, 2006

racconto: voglio andare a casa

ecco una splendida veduta della costa di Tramontana a Trapani.
sotto un altro mio inutile racconto.


I treni mi mettono tristezza. Il loro andare e tornare senza fermarsi mai abbastanza da nessuna parte, senza arrivi definitivi, e poi tutta quella gente in piedi sulla banchina, ad aspettare un destino in sospeso. Sembrano una diapositiva della mia vita. Persone in attesa di arrivi, le immagino prepararsi i sorrisi e le cose da dire, e misurare nella loro testa l’intensità degli abbracci e aspettarsi qualcosa dagli altri, un certo grado di calore, un ricambio di sguardi, attenzioni…
Una panchina nei pressi del binario 3 è il mio punto di osservazione sul mondo, sui sospiri lunghi della gente, su un cagnolino con gli occhi coperti dal pelo, una lunga lingua penzolante e una sorta di immobile fiducia nelle zampe. L’asettica voce dell’altoparlante annuncia che il treno regionale numero qualcosa proveniente da Marsala è in arrivo sul binario 1. Poco dopo il convoglio si ferma, sbuffa un soffione di drago medievale e l’altoparlante annuncia l’arrivo in stazione. La triste stazione di Trapani, con i binari che si fermano e non vanno più avanti.
Persone diverse, con espressioni diverse e diversi gradi di solitudine vengono vomitate fuori dai vagoni, come da un drago che spalanchi le fauci, e con i loro bagagli più o meno leggeri si incamminano piano verso l’uscita. Il cane è ancora lì, immobile, la lingua di fuori e le orecchie più grandi della testa. Resto a guardarlo, curioso di scoprire chi stia aspettando. Per un po’ vedo solo teste di persone che si abbracciano e si baciano, e mani che battono su spalle o che stringono altre mani o che si agitano amichevoli nell’aria, mentre voci dai timbri diversi spargono intorno una fragranza di vucciria minore. Poi spunta lei, si fa spazio tra la piccola folla, come una rondine che buchi una nuvola. Una ragazza secca, pallida, malvestita e con un’aria vagamente familiare. Prende in braccio il cagnolino, lo stringe al suo petto d’uccello, gli offre il suo calore di mamma mentre lui le lecca le guance, solleticandole il naso col suo pelo ruvido di yorkshire tarocco. La vedo sedersi su un’altra panchina, proprio di fronte al mio punto di osservazione sul mondo. Il cane le salta giù dal seno, zampetta sul sedile, agita la coda, gira su se stesso, abbaia in preda a una frenetica gioia. All’improvviso mi ricordo di lei, so chi è e perché mi ricorda qualcosa.
Sborro, seduto al mio fianco, si sforza di soffocare un riso beffardo ma senza troppo successo, e guarda in tutte le direzioni tranne che verso di lei.
“Chi non muore si rivede” dice. “Compare, se quella si accorge di me sono cazzi.”
Gli chiedo se la conosce.
“Come posso dire?... Molto a fondo.” Risponde.
Ride in quel suo modo odioso, sgangherato, che fa venire voglia di mettergli le mani addosso. Si aspetta che io gli chieda qualcosa, tipo chi è lei e come la conosce. Ma non lo faccio, non me ne frega un cazzo. Mi metto anch’io a guardare ovunque, per non far capire a Sborro che guardo proprio lei.
La ragazza fruga nel suo zainetto e prende un panino al prosciutto avvolto nella carta stagnola. Il cane le salta addosso, mentre lei con le sue dita ossute strappa un pezzo di pane per offrirlo al suo piccolo amico peloso, poi prende a mangiare a sua volta. Quando il cane finisce il suo pane torna a saltarle in grembo e a leccarle la faccia e le labbra fino a quando non ne riceve dell’altro. Una scena un po’ disgustosa.
Sborro intanto, sentendosi non cacato, torna all’attacco.
“Ce l’hai presente Bastiano, quello che il padre ci ha l’officina? È amico mio. Ero con lui quando me la sono fatta.”
Resto zitto. Solo quel coglione di Sborro può vantarsi dell’amicizia di uno come Bastiano e non accorgersi che non me ne frega un cazzo di quello che ha da raccontarmi su di lei e sulle sue scopate in generale. Non in quel momento, almeno.
“Minchia! Ogni volta che ci penso mi piscio dalle risate.” Scuote il capoccione percorso da un riso sardonico.
Da dietro l’angolo, intanto, spuntano i tipi che stavamo aspettando, impomatati come dei gion travolta dell’ultima generazione.
“Eccoli” dico, rivolto a Sborro.
Si avvicinano, ci salutiamo con un cenno del capo. Ho scordato i loro nomi ma tanto quelli non mi servono a niente. Come la maggior parte degli adolescenti che conosco, hanno dei modi di fare molto atteggiati, come se da quelli dipendesse tutta la loro reputazione. Forse anch’io alla loro età sono stato come loro, ma non per questo li trovo più simpatici.
Per darsi più arie, come se già se ne desse poche, Tizio-il-Biondo, lancia un’occhiataccia alla ragazza col cane:
“Tossici di merda” dice, “bisognerebbe ammazzarli tutti.”
Caio-il-Rosso annuisce convinto: “altro che comunità di recupero, ci vorrebbe un campo di concentramento per quelli lì.”
È incredibile quanto poco tempo ci hanno messo a starmi sul cazzo.
“Già” dico, “un campo di concentramento per i tossici e uno per le teste di minchia.” Ridono tutti, convinti che la cosa non li riguardi.
Non ho niente contro i tossici, io, almeno fino a quando si astengono dal fregarmi l’autoradio o dal puntarmi un siringa al collo per farsi dare il portafogli. Sono come tutti gli altri, la cosiddetta gente comune, quelli considerati normali: tirano a campare e vanno in cerca della loro dose giornaliera di morte; che poi si tratti di eroina, hashish, alcool, calcio, play station o televisione la differenza non mi sembra così sostanziale.
In ogni caso li preferisco ai fascistoni e ai ben pensanti e a quelli che vorrebbero fucilare altre persone, salvo che quest’ultime non rientrino in una delle due categorie di cui sopra.
“Io quella me la sono fatta” dice Sborro tutto contento. “Ce la siamo fatta in due: una ficcata da favola.”
“Le tossiche basta che ci dai i soldi ti fanno tutto quello che vuoi. Sono peggio delle buttane quelle” fa il Biondo, come se se ne fosse scopate una marea.
“Io ci ho l’ex ragazza di mio cugino che è una mezza tossica. La vedo sempre all’uscita della scuola. Un giorno di questi me la faccio.” Interviene il Rosso.
Dio solo può sapere cosa significhi l’espressione “mezza tossica”, ma io non sono abbastanza in confidenza per poterglielo chiedere.
“Ci hai perso tempo, compare” dice Sborro, “te la dovevi fare prima, quando era ancora la ragazza di tuo cugino. Come dice il proverbio: cazzo arrittato non conosce parentato.”
Ridiamo sguaiati, come sappiamo fare noi maschi quando parliamo di sesso. Ma non c’è niente da ridere, ci sono solo tipi mediocri che cercano di apparire diversi da quelli che sono in realtà. Ho le palle piene di gente così, ne incontro dovunque vada. Mi mettono tristezza. ‘Tutto quello che voglio,’ penso, ‘è arraffare alla svelta i soldi e spendere subito la mia parte in fumo o in qualche succulenta, sbrodolante fica a tempo determinato.’
“Occhei, picciotti,” faccio, “che ne dite se ora parliamo un po’ di cose serie?”
“Cazzo, certo.” Fa il Biondo, “parliamone, cazzo.”
Il frocetto è convinto che dire cazzo lo aiuti a sembrare più duro, o più grande. Non è così, pischello, altrimenti vivremmo tutti in un porco mondo di gente cazzuta.
“Ho in mano qualcosa” dico, tenendomi volutamente sul vago, “ma prima ditemi con precisione che cosa state cercando.”
“Il mio scuter,” fa Tizio, “è un mbk, grigio, con il bauletto davanti.”
“Mbk… ne ho sottomano qualcuno, in effetti, ma ho bisogno di saperne di più.”
Tizio si guarda intorno un po’ confuso.
Gli traduco il concetto: “devi dirmi qualche altro particolare, per essere sicuri che si tratta proprio del tuo.”
“Ah, si… giusto.” Fa lui.
“Ha un adesivo di Che Guevara sul carterino.” Interviene Caio, rosso e furbo come una faina.
“Si, e ha un graffio di asfalto sulla fiancata destra e lo specchietto lesionato.” Continua il primo che ormai ha imboccato la strada giusta.
“Va bene così,” dico io, “ne so abbastanza.”
“Allora sai dove trovarlo?” Domanda Tizio, con un tremolio ansioso nella voce.
Faccio una pausa per fargli capire che è una cosa grossa.
“Mettiamola così: so dov’è lo scuter, ma non posso dirvi chi ce l’ha…”
Sul volto dei pischelli cala una velo di disperazione.
“Ma per lo scuter ce la ragioniamo.”
“Cazzo, compare, sei troppo un grande.” Fa il biondo. “Cazzo, non hai idea di quante persone ho sconcicato per ritrovare ‘sto scuterino del cazzo. Cioè, va… diglielo pure tu, Marco.”
“Cioè, un mare di persone che non ti dico.” Gli fa eco il Rosso, dimentico di essere una faina.
Cominciano a farmi un elenco di tipo loschi dei quali millantano l’amicizia.
“Cioè, ieri sera ero con Nino Tartamella e quello mi fa: - compare scusa ma per il tuo scuter non ci posso fare un cazzo. – E poi Totuccio Licausi, Alfio Scimemi, cioè, ti dico che ho sconciato mezza Trapani del cazzo.”
Capisco subito che non mi stanno facendo i complimenti, cercano solo di impressionarmi. È da quando hanno svoltato l’angolo con le loro camminate rallentate e sbilenche che cercano di impressionarmi. Ma come fai a credere che gente come Nino Tartamella o Totuccio Licausi cacano un pischello fighetto figlio di papà come ‘sto biondino brufoloso con la faccia da frocetto? Una minchiata del genere non te la bevi nemmeno se vuoi. È una cosa così assurda che se non mi venisse voglia di prenderli a calci in culo, questi stronzetti potrebbero farmi quasi tenerezza.
Io li conosco davvero, quei tre, Nino, Totuccio e Alfio, intendo. Li conosco abbastanza da sedermi con loro al banco di un bar per bermi una birra o da andarli a cercare a casa per una storia da 200 carte, ma certo mi guardo bene dal considerarli amici. E tuttavia li conosco abbastanza da capire se qualcuno sta facendo il loro nome per bleffare. Sono tipi molto “fermi”, massicci e hanno le palle, almeno per quello che vuol dire avercele a San Giuliano, o al Cappuccinelli o a Santo Padre, ma per me sono soltanto dei balordi violenti figli di buttana come pochi altri a Trapani. Me li tengo buoni, diciamo, ma se posso ci sto alla larga.
“Cioè tu, cazzo, sei stato veramente grande.” Insistono quelli.
Taglio corto, mi sono rotto di avere leccato il culo.
“E’ solo questione di averci i contatti giusti.”
Poi gli spiego la questione dei soldi.
“Che soldi? Lo scuter è mio” fa lo sbarbatello biondo.
“In teoria è tuo” dico, “in pratica te lo sei fatto fottere e ora non lo è più.”
Lo sbarbatello fa una classica faccia da inculato.
“Sono 250 euro.”
Adesso non pensa più che sono troppo un grande, anzi mi guarda perplesso, come se gli stessi chiedendo di tirare giù merde di cane attaccate al soffitto.
“Sono 150 euro per il figlio di cagna che deve rivenderci lo scuter, 50 per me e 50 per Rico che ha fatto da mediatore.”
“No, compare.” Fa Sborro, paraculo al massimo, “io non voglio soldi. L’ho fatto solo per una questione di amicizia.”
Come da copione, provo a convincerlo ad accettare i 50 euro. Gli dico che l’amicizia è un concetto astratto nel mondo di merda in cui viviamo e altre stronzate del genere. Sborro resta un attimo in silenzio e poi fa una cosa che fa sempre quando cerchiamo di fregare qualcuno: mi poggia una mano sulla spalla e l’altra se la porta sul cuore e dice “credimi, compare, è una questione di amicizia”.
Io lo guardo con l’espressione di chi è stato toccato nel vivo da qualche parte nell’anima, gli stringo la mano e gli dico: “compare, cazzo, tu sei una persona troppo rispettabile. Sei veramente un signore che sa come stare a questo porco mondo.” Poi, rivolto al biondo: “rimangono sempre 200 euro.”
Il pischello ci pensa un attimo e poi si lascia convincere.
“Quanto tempo ho per portarti i soldi?”
“Mettiamola così: prima facciamo, meglio è. In genere in questi casi lo scuter viene smontato nel giro di 24-48 ore, perché se ti arriva la pula a casa e ti trova un motorino rubato in garage non la prende tanto bene. Sai come sono i pulotti, non hanno il senso dell’umorismo. Per te è passato più tempo. Hai avuto culo, ma non chiedere troppo alla troia bendata.”
“Facciamo due ore?”
“Te ne do una, ho anch’io i miei cazzi da sbrigare.”
I pischelli se ne vanno in cerca della grana. Io mi volto a guardare verso la panchina di fronte, ormai priva dell’immagine di lei e del cagnolino che l’aveva aspettata.
“Facciamoci ‘na birra” fa Sborro.

Compriamo due Peroni al chiosco davanti la stazione e ci sediamo su un panchina sotto le palme della piazza. Il cielo comincia ad imbrunire e il vento fresco d’autunno ci accarezza la pelle, portando con sé un odore di mare che si mischia al fritto delle panelle e al limone che cade sui panini con la meusa.
“Parlami della picciotta, quella col cane.”
Mi aspetto che Sborro mi chieda qualcosa a proposito di questa mia curiosità e mi preparo nella testa tutta una serie di risposte possibili, ma a lui non frega una mazza del perché voglio sapere certe cose, è tutto eccitato dall’idea di avere qualcosa da raccontare, qualcosa di cui potersi vantare, mistificando la realtà da quel gran “parla parla” che è.
“Ci hai presente la banca quella davanti il bar Colonna? La incontro lì.”
Sorseggio la Peroni da 66 cl roteando gli occhi intorno, panoramica da cineasta che investe palme sferzate di tramontana e auto caotiche sulla via *** e luci giallognole di lampioni e ombre appena accennate di un anticipo d’Africa, mentre polipetti d’ansia mi rovistano lo stomaco. Dissimulo l’interesse in una Pall Mall.
“Ti parlo di qualcosa come due, tre anni fa” continua lui. “Si, insomma, sono davanti alla banca che mi fumo una sigaretta che poi devo entrare a scambiare un assegno e questa mi vede, si avvicina e mi saluta con una bacio. C’è da dire che io la conosco da quando ci aveva 15 anni, perché era messa con un amico mio, un certo Vito, che se te la devo dire tutta, mi sa che l’ha sverginata lui a quella lì. Insomma, mi viene a salutare con una bacio. Era con uno che ancora non conoscevo, un certo Nino Spatafora. Dico “ciao Margò” (perché si chiama così, no?) e nel mentre penso ‘non mi hai cacato mai e ora mi saluti con un bacio’; insomma, ‘sta storia mi pare un poco strana. Dico, come va? E questa mi comincia a contare tutta una situazione complicata, tipo che gli hanno fregato i soldi e che deve partire tra un’ora perché sua sorella è malata ed è all’ospedale a Palermo ed è tutta sola e se la passa un poco di merda. E poi mi domanda se gli presto dei soldi, tipo 10, 20 euro. Cazzo, non ci vuole tanto a capire che è una tossica di merda, giusto? E chi cazzo ci crede alle minchiate che spara una tossica di merda, dico bene? Insomma, gli dico che non ci ho tanti soldi, ma buttana di mia sorella sono davanti a una banca con un cazzo di assegno in mano, e il tipo che sta con lei mi fa: - compare, ci devi aiutare’- e, insomma, vuole che scambio l’assegno e gli do un po’ di soldi a loro. Cioè, non è che mi scanto di sto tipo, intendiamoci, però è un tossico di merda pure lui, si vede dalla faccia che è un tossico di merda, e penso: a questo lo sminchio quando voglio, ma se poi mi attacca qualche malattia tipo l’aiz? Ci sta niente ad attaccarti l’aidiesse uno così. Dico bene, compare? Insomma, com’è e come non è, va a finire che gli dico di sì, che gli do ‘sti soldi, e intanto penso: ora entro in banca, perdo un poco di tempo, e magari quelli si rompono le palle ad aspettare e se ne vanno. Così entro in banca e tutti quelli che entrano dopo di me li faccio passare avanti per perdere più tempo possibile, no? Ma a un certo punto non c’è più nessuno da fare passare avanti. Allora scambio l’assegno e guardo fuori attraverso la porta di vetro per vedere se quei due tossici sono ancora lì che aspettano a me. Manco a dirlo, non si sono spostati di un millimetro. Allora, dico: ‘devo perdere ancora tempo’ e mi metto a leggere certi depliant come se veramente mi interessasse qualcosa di quello che c’è scritto. A un certo punto però il tipo capisce la maniata ed entra e mi domanda quanto tempo devo perdere ancora e se gli posso dare i soldi, intanto, che loro devono partire. Ci rispondo: - te li do i soldi, te li do, ma intanto esci di qua – ma ti pare che quello capisce? Insiste col discorso che devono partire, che perdono il treno e cose così. Fino a quando un cassiere fa – che succede lì? C’è qualche problema? – E io dico: – quale problema? Io a questo manco lo conosco. – Ma intanto arriva la guardia giurata e ci fa uscire fuori. Cioè, capisci pure tu che non ci avevo tanta voglia di dargli ‘sti soldi. Così esco dalla banca e mi metto a correre come un pazzo, infilandomi in tutte le traverse e traversine della Loggia. Quel figlio di cagna per un poco mi corre dietro e io vado più forte che posso che quasi mi scoppia il cuore. Quando non ce la faccio più a correre mi fermo e penso ‘se ce l’ho ancora dietro lo ammazzo a questo figlio di cacata’. Mi volto e quello non c’è più, ma mi devo appoggiare a un muro perché mi viene da vomitare pure il fegato. E mentre sono lì, appoggiato a questo muro che cerco di respirare, passa Bastiano con la vespa. Mi vede, si ferma e mi domanda cosa c’è e cosa non c’è. Gli conto tutta la storia e lui fa: – tranquillo, compare, ci penso io. – Acchiano sulla vespa con lui e cominciamo a girarci tutto il centro storico per trovare a ‘sti due figli di cagna. Va a finire che li incocciamo davanti alla ‘Biglia d’oro’, la sala bigliardo; ce l’hai presente, no? Insomma, li incocciamo lì e tu lo conosci Bastiano, giusto? Lo sai che bestia che è quando si incazza, giusto? E infatti io penso: ‘ora Bastiano lo scanna. Scende dalla vespa e lo scanna a stu figghio di sucaminchie’. Invece lui, tutto tranquillo si ferma, saluta quella pulla di Margò e accominciano a parlare. Io me ne sto zitto e intanto penso: ‘ma che minchia succere? Ma Bastiano l’ha capito quello che gli ho contato?’ Insomma si mettono a parlare e Margò ricomincia a contare ‘sta storia della sorella malata e io penso ora quando gli domanda i soldi sicuro che Bastiano la manda a cacare per direttissima e ci pisciamo sotto dalle risate. E invece non solo non la manda a cacare, ma gli dice che oltre a dargli un po’ di soldi ce li accompagna lui a Palermo, con la macchina sua.
Io non dico niente ma, manco a dirlo, sono sbalordito. Perché in vita mia non ho visto mai Bastiano offrire un cazzo a nessuno. Manco una coca cola del cazzo gli ho visto offrire, e lo conosco da una vita, io. Per cui questa cosa mi pare troppo strana.
Insomma, cinque minuti dopo siamo tutti alla tavernetta di Barraco a bere e a contarci cose nostre come se fossimo amici da una vita. Io mi aspetto sempre che Bastiano da un momento all’altro fa qualche cosa, che ne so, gli spacca la testa a Nino Spatafora, per esempio. Invece si intrippa a parlare di macchine con tutti i termini tecnici tipo carburatore, puleggia, testata, iniezione e manicotto, e non c’è nessuno di noi che ci capisce niente, però caliamo la testa come se fossimo tutti molto d’accordo con lui. In quel periodo Bastiano si era messo in testa di elaborare una Cinquecento per farci la crono-scalata della “Monte Erice”, ma questo non c’entra niente col discorso.
Comunque, babbiando e scherzando, va a finire che si fa scuro. Bastiano se ne esce che siamo tutti ospiti a casa sua e vuole che mangiamo e dormiamo da lui, così l’indomani partiamo tutti insieme per Palermo. Siccome siamo tutti pigliati bene perché abbiamo bevuto e siamo allegri e tutto il resto, mi accollo alla grande sta cosa e pure quei due se l’accollano, perché Bastiano quando ci si mette è troppo spassoso, fa di quelle battute che ti pisci di sopra. Solo che siccome siamo in quattro e abbiamo solo la vespa di Bastiano, decidiamo che prima saliamo con Bastiano io e Margò, lui ci lascia a casa sua e poi torna indietro a prendere a ‘sto Nino Spatafora. Quando arriviamo a casa sua, Bastiano, anziché tornare subito indietro a prendere Nino, si intrippa a farci vedere la casa: tipo qua c’è la cucina, qua c’è la cammara da letto, qua c’è il salotto, eccetera, eccetera. Mezz’ora dopo siamo ancora in cucina che beviamo vodka alla fragola e uischi e coca e rulliamo canne dalla riserva personale di Bastiano. E ti pare che quella troia di Margò sta lì a pensare all’amico suo? Non ci passa manco per l’anticamera del cervello la cosa. Dopo un poco che siamo lì a fumare e bere e tutto il resto nessuno di tutti e tre ci capisce più un cazzo di niente. Per lo meno io sono tutto di fuori e, per essere tutto di fuori io, vuol dire che pure gli altri sono fumati e torti peggio di me. Perché, non per vantarmi, ma per essere torto io ce ne vuole. Infatti guardo Margò e lei ci ha gli occhi che si vede che è tutta in coma e Bastiano gli fa: - ti vuoi buttare cinque minuti a letto che magari ti passa? – Quella dice si e quando si alzano per andare nella cammara da letto li guardo e mi pare che si muovono a rallentatore e che tutte le cose si muovono troppo piano. Bastiano mi guarda e mi fa un cenno con la testa, come a dire: vieni pure tu. Ma non ne sono sicuro perché magari voleva dire tutta un’altra cosa. ‘Ma intanto io ci vado,’ dico, ‘e come finisce finisce’, giusto? Quando entro nella cammara loro due sono già seduti sul letto. Bastiano le mette un braccio intorno alle spalle e la vasa sul collo e quando vede a me, mi fa un cenno con gli occhi come a dire “vieni, pure tu”. Non me lo faccio dire due volte e accomincio pure io a vasarla dove mi capita. All’inizio sta pulla pare che ci sta, ma non passa manco un minuto che accomincia a dire no, basta, sto male. Per un poco facciamo finta che non la sentiamo, anche perché tutti e due ci abbiamo una minchia dura che fa scantare, ma quella continua a dire che non vuole. Allora Bastiano gli fa vedere una carta da 50 euro e dice: – dai, ti facciamo un bel regalo. – A quella, buttana com’è, ci passano tutte le cose e per un poco ci lascia fare senza dire più niente.
Manco dieci secondi dopo, Bastiano se la sta già facendo minare e ha una mano infilata nelle mutande di lei. Io, visto che alla fica ci era arrivato prima lui, mi butto sulle minne. A quei tempi aveva pure qualche chilo in più e ce le aveva più belle di ora, perchè lo sai che le femmine, quando dimagriscono, la prima cosa che perdono sono le minne, no? Cioè non era piatta come ora, capito? Comunque sono lì che allicco i capezzoli e questa zoccola comincia a dire che sta male. Com’è normale io e Bastiano manco la cachiamo e andiamo avanti con quello che stiamo facendo, giusto? Cioè, s’è presa 50 euro, giusto? E poi siamo convinti che fa solo la scena, per non farci troppo la figura della pulla. Invece quella sta veramente male. A un certo punto, mentre le sto ancora sucando un capezzolo, la sento che rutta. Siccome mi pare troppo strana sta cosa, alzo la testa per vedere che succede, se è stata solo un’impressione mia o che cosa. Non lo so, forse in mente mia mi pare troppo strana ‘sta cosa che rutta, perché mi sono fatto l’idea che lei è una che non rutta. Pulla si, tossica pure, ma che rutta no, mi pare una cosa che non può essere. Invece può essere, eccome, perché alzo la testa e quella mi rovescia in faccia a spruzzo, tipo il film l’esorcista. Resto qualche secondo così, allampato a guardarla, senza capire un cazzo di quello che è successo. Tutto quello che so è che faccio feto di fragola guasta che quasi quasi mi rovescio pure io. Guardo Bastiano e lui è più stranizzato di me, immobile, con la ciolla di fuori e una mano nelle mutande di quella troia. Poi guardo Margò e la vedo che cade all’indietro sul letto, al rallentatore. Una cosa troppo strana, perché si muove pianissimo e da quando ha cominciato a cadere all’indietro ci ha messo un casino di tempo prima di toccare il materasso. Una cosa pure spacchiusa, in un certo senso. Superato sto primo momento di smarrimento, mi ripiglio e divento una bestia. Le cose ora si muovono di nuovo a velocità normale. Mi alzo in piedi e comincio a gridare cose tipo – vaffanculo buttana, che cazzo fai? Troia di una sucaminchie di merda – e via dicendo. Ricordo che cammino verso il cesso e per tutto il tragitto non faccio che girarmi e prenderla a male parole.
-Troia di merda! Sei una troia di merda! Vaffanculo! Arrusa del cazzo! – A pensarci ora mi piscio dalle risate, ma quella volta mi sono incazzato proprio di brutto. Tutte le volte che io e Bastiano parliamo di questa storia, te lo giuro, ci squagliamo dalle risate. Minchia, ma non finisce qui. Me ne vado in bagno, mi spoglio tutto nudo e mi infilo sotto la doccia e mentre sono lì che mi sto lavando, sento Bastiano che grida come un pazzo: - che cazzo fai, buttana? Che ti pare che ti metti a dormire ora? Lo vedi che cazzo hai combinato? Lo vedi? Ora ti rimangi tutto. Te lo faccio mangiare tutto ora, gran troia che non sei altro. – Io esco dal bagno per vedere che succere. Ci ho ancora lo sciampo nei capelli e sapone dappertutto e esco dal cesso. Arrivo in cammara e vedo Margò messa a pecora, con le mutande abbassate alle ginocchia e il culo di fuori e Bastiano dietro a lei che se la ingroppa e nel mentre che se la ingroppa la piglia a male parole. Cioè, non faccio in tempo a rendermi conto della situazione che mi ritrovo una minchia dura che non te la puoi manco immaginare. Salgo sul letto pure io e siccome lei ci ha la testa affondata nel materasso, la prendo per i capelli e la tiro su. La vedo che ci ha mezza faccia tutta lorda di vomito, con i capelli appiccicati alla fronte e alla guancia, ma sono troppo arrittato per farmi schifo queste cose. La tengo su per i capelli e provo a infilagliela in bocca per farmela sucare. Ma quella tiene i denti stretti ed è troppo in coma per fare qualsiasi cosa. Allora comincio a minarmela e a strofinargliela sulle guance e sulla bocca e alla fine le vengo in faccia e poi mi pulisco la ciolla sui suoi capelli. Quelli ancora asciutti, si intende. Bastiano, manco a dirlo se ne viene dentro la fica. Cazzo, quello è troppo forte, perché non gliene frega un cazzo di niente: metterebbe incinta pure una pecora di ottant’anni, se fosse per lui. Poi senza manco darle i soldi, la buttiamo in strada così com’è, tutta lorda di vomito e spacchime, con le minne di fuori e le mutande mezze calate.
Un ficcata troppo alla grande, ti giuro.”
Capisco che Sborro ha finito il racconto perché non dice più niente di nuovo, anche se continua a sghignazzare e a giurarmi che è stata veramente una ficcata troppo alla grande. Io faccio finta di ridere, tanto per dargli un po’ di soddisfazione, ma dentro di me mi sembra una storia così squallida che mi pare brutto avercelo duro.
“Quella è una troia” dice ancora Sborro, “sarà andata a Marsala a fare qualche marchetta. Lo sai come diventano le tossiche se non hanno i soldi per farsi.”
Poi, per fortuna si fa l’ora di andare. Alziamo il culo dalla panchina e così spezziamo il ponte che Sborro ha lanciato verso il suo passato. Restano solo in nostri passi che ritornano al binario tre.
Mi torna in mente Mirka, la mia ex di quando avevo 16 anni, una ‘sticchio di legno’ schizzinosa che me la minava con due dita e si scandalizzava se le chiedevo di ingoiare un pompino o di farselo sbattere nel culo. Ancora adesso, a distanza di nove anni, mentre percorro strade sempre più lontane da quello che ero stato insieme a lei, e lei insieme a me, mi fa incazzare il pensiero di un anno passato ad odorare lei e la sua fica, senza aver avuto mai né l’una né l’altra. Ma ancora di più mi fa incazzare il fatto che dopo di lei non c’è stata più nessuna, solo tepori momentanei e quasi sempre a pagamento. Per questo mi viene da pensare a Mirka e da pensare a Margò, e sogno una ragazza che mi si conceda completamente, che assecondi in tutto le mie fantasie sessuali, senza paura di sporcarsi di sperma o di farsi trattare da troia. Una ragazza vera però, non una prostituta. Con le buttane non è la stessa cosa, quelle lo fanno per i soldi.
Le buttane sono solo una questione di sopravvivenza.

Quando arriviamo al binario 3 i pischelli sono già lì ad aspettarci.
“Avete fatto uno scippo?” Chiedo, tanto per sembrare spiritoso.
Il Biondo comincia a contarmi la storia della sua parentela con il proprietario del calzaturificio della via cazzo di cane.
“Non me ne fotte niente chi cazzo é tuo zio” lo interrompo, “i soldi ce li hai?”
Quello annuisce, un po’ sorpreso dal mio cambiamento improvviso.
“Posso vedere lo scuter, prima?” chiede.
Lo guardo come se avesse appena cacato nel bidè.
“Mica vado in concessionaria a prendertelo.”
“Un momento” si intromette Sborro, “i miei amici hanno ragione, devono avere qualche garanzia.”
Mi metto una faccia decisamente seria, tipo quella che facevo al ginnasio, convinto che le ragazze si sarebbero innamorate di me se avessi interpretato bene la parte del bel tenebroso.
“Tu sai come funzionano queste cose” gli rispondo.
“Certo che lo so” dice il mio socio, “ma almeno i 50 euro che spettano a te lasciali qua, te li prenderai quando tornerai con lo scuter.”
Dava per scontato il fatto che sarei tornato indietro con lo scuter…
“Io non vado da nessuna parte senza i miei soldi in tasca” dico.
“E’ una questione di fiducia reciproca, compare.”
C’è da dire che Sborro sa cosa vuol dire fare gioco di squadra e inoltre sa improvvisare come pochi altri quando le situazioni hanno intoppi inaspettati.
“Posso farlo soltanto se i miei soldi li tieni tu” dico, come se si trattasse di un’ultima offerta.
La mettiamo come se fosse in gioco la mia di fiducia, e invece si tratta della loro, della fiducia dei pischelli, e se proprio non riescono ad avercela in me, che almeno ce l’abbiano in Sborro. Per noi non fa alcuna differenza.
Il biondino dice okkei e tira fuori i biglietti da 50. Ne dà tre a me e uno a Sborro.
“Aspettatemi mezz’ora, anche tre quarti d’ora” dico, “se quei figli di cacata l’hanno smontato mi toccherà farglielo rimettere insieme.”
“Assicurati che non manchi nessun pezzo” fa il biondo.
“Non mancherà un solo pezzo.” Gli rispondo.

Me la svigno con i tre biglietti da 50 nella tasca posteriore dei jeans. Li sento sulla mia natica come una mano di donna che mi accarezza il culo. Ma voi, fighetti del cazzo, mi sa che non capite di cosa parlo. Pensate che basti dire parolacce per essere duri, ma le cose non stanno così, e io sono qui per insegnarvelo. Questa è una lezione di vita e io sono il vostro professore. Niente paura, vi costerà poco, solo 200 euro, con quelli che vi fregherà Sborro fra poco. Ma in cambio capirete quanto sia facile essere inculati in questo schifo di mondo, e magari la prossima volta terrete le chiappe più strette. E poi vuoi sapere un’altra cosa, biondino del cazzo? Dici troppo spesso “cioè”.

Cammino a ritmo costante, un passo dietro l’altro, guardando fisso davanti a me, immerso in una nuvola di pensieri. Se questo fosse un film sarei inquadrato dal basso verso l’alto e sopra la mia testa si vedrebbero le luci al neon scomparire alle mie spalle, come in una scena con Al Pacino di cui non ricordo il titolo.
Esco dalla stazione, sempre andatura costante, sempre Al Pacino siculo, un turbine di pensieri in testa e soldi appoggiati alle natiche.
Raggiungo la mia punto bianca, inserisco la chiave nella toppa e faccio scattare la serratura. In quello stesso istante sento una voce alle mie spalle che pronuncia il mio nome. Una voce che ho già sentito.
“Ciao, Pablo.”
Mi volto e la vedo davanti a me. Resto un lungo istante a fissarla, mentre il suo cane mi odora le scarpe.
“Ciao, ci conosciamo?” So chi è, ma faccio finta di non conoscerla, dando retta a una voce che da dentro mi invita ad usare prudenza.
“Sono Margò, non ti ricordi? Quando avevamo sette anni ci siamo sposati.”
“Margò! Ti trovo bene.” Non è esattamente quello che penso di lei, ma Dio solo sa la fatica che faccio per trovare qualcosa di decente da dirle. Sono sempre stati un grosso problema per me i convenevoli.
“Grazie. Però anche tu sei proprio occhei.”
Sorrido, non c’è altro da fare.
“Com’è questa storia del matrimonio? Non me la ricordo più tanto bene.”
“Ci siamo sposati nel giardino di casa tua, sotto l’albero di olive. Il prete l’abbiamo fatto fare a Brontolo.”
“Bè, mi sembra una scelta saggia. Quella di Brontolo, intendo.”
Lei fa una cosa strana con la bocca: come un sorriso in disuso.
“Non sai quanto mi fa piacere rivederti.”
Dice tutto con lo stesso tono, come se elencasse i prezzi della frutta allo scaro. Suona strano ricevere complimenti in questo modo, è come sentire leggere un brano di Shakespeare con l’intonazione che si usa per l’elenco del telefono. Non è roba da brividi, insomma.
“Cavolo! Anch’io sono felice di rivederti.”
Io non sono uno che dice “cavolo”. Non dico mai “cavolo”, io. Io bestemmio e dico parolacce e sono talmente maleducato e volgare che infilo un cazzo ogni tre parole e soprattutto non dico mai “cavolo”, ma quando ci sono di mezzo le femmine, le femmine in generale, mi capitano cose strane. E Margò non è nemmeno questa gran fica, anzi, se proprio devo essere sincero, non mi piace nemmeno. È che Sborro mi ha messo certe cose in testa per cui mi sono convinto che lei è una che te la fai facile.
“Ti avevo visto anche prima, quando eri con quei tuoi amici, ma non ho avuto il coraggio di venirti a salutare. Non lo so perché, forse… non so, non so dire perché.”
“Perché? Scusa…”
“Veramente, non so perché…”
“Scusa ma che c’entra il coraggio?”
“Forse per i tuoi amici. Per come mi guardavano…”
“Per come ti guardavano?...”
“Guardavano come se… insomma, non volevo metterti in imbarazzo. Ecco tutto. Non volevo che tu ti vergognassi di me e che mi mandassi via o una cosa del genere. Magari è solo un flash strano tutto mio.”
“Cioè… pensi davvero questo di me?”
“No, non è che penso questo di te… pensavo solo che…”
“E’ quello che hai detto, però. È una cosa bella forte, ti pare?”
“Si, scusa... voglio dire, hai ragione, è che…”
Non c’è nessun che, in realtà, sa solo dire scusa e dire che ho ragione e non c’è nessun che. Non è male sta cosa delle scuse, però, non sono abituato a ragazze così interessate al mio perdono. Certo, magari sarebbe più bello se davvero me ne fottesse qualcosa delle sue scuse e di quello che pensa di me. Invece me ne frego, voglio solo vedere se da tutto questo riesco a tirarci fuori qualcosa. Un pompino, per esempio.
Accetto le sue scuse e lei ricambia con quella sottospecie di sorriso che non sembra un sorriso e mentre lo fa, all’improvviso non la riconosco più. Non sembra più la stessa bambina che correva sul prato all’inglese e mi costringeva a giocare con le bambole; è come se avessero preso un’altra persona, completamente diversa, e le avessero trapiantato gli occhi, i capelli e l’ovale del viso della piccola Margò. Ed è come se tutto questo l’avessero fatto su una persona totalmente incapace di allegria.
“Allora, che ci fai qua?” chiedo, per evitare che si smetta di parlare e che lei resti ferma lì, a guardarmi in silenzio, con quegli occhi opachi rubati a una bambina di tanti anni fa. Certi silenzi non li posso soffrire.
“Aspettavo mia sorella, doveva venire da Marsala ma ormai non viene più.” La guardo cercando di assumere uno sguardo neutrale, da coglione che si beve ogni cosa, ma io so che sta mentendo e la cosa mi fa un incazzare, perché non si sforza nemmeno di inventare una scusa decente e cercare di essere più o meno credibile. Mi domando se è vero quello che ha detto Sborro, che è andata a Marsala per farsi chiavare. Il pensiero mi fa un poco eccitare, nonostante a tratti lei mi sembri così stupida e inutile e senza senso, che mi viene da chiedermi cosa sto facendo adesso lì, con lei, a sprecare tempo e parole, quando dovrei essere altrove, ad aspettare che Sborro si liberi dai pischelli. Ovviamente l’unica ragione è il sesso. Per il resto, qualunque sia il significato del nostro incontro inatteso, nel bel mezzo di un autunno in Sicilia, di noi due, ex bambini oramai disillusi, non restano che carcasse in cerca di rifugio. Difficile capire in quale rifugio confidi Margò, ma il mio è un anfratto caldo umido di cui lei possiede la chiave.
È anche questa una forma di consapevolezza, dopotutto, no?
“Fatti dire che sarebbe bello, adesso, se io e te trovassimo il tempo di parlare, e raccontarci di quando eravamo bambini, e capire che cosa è cambiato ora che non lo siamo più. E magari cercare di scoprire che cosa siamo diventati… non trovi?”
Ecco che cosa direi se lei fosse un’altra persona e se io fossi molto diverso da quello che sono, se fossi in grado di provare qualcosa per lei. Invece nessuna di queste cose accade, e tutte queste parole che mi vengono in mente, le pronuncio piano nella mia testa, per scoprire se forse a un qualche me stesso potrebbero mai appartenere. Ma più le riascolto e più mi sembrano estranee, come se qualcuno me le abbia messe in testa con una siringa, come un pasticciere farcisce i cornetti di crema.
Opto per parole più semplici e sensate.
“Che fai adesso? Posso offrirti un passaggio, se devi andare a casa…”
Lei accetta, dice che sono un angelo. Saliamo in macchina.
Seduto al suo fianco, col suo cane che da fuori guaisce e gratta la portiera, le guardo le gambe magre lasciate scoperte dalla gonna consunta, stranamente attratto dalle ramificazioni bluastre delle arterie che affiorano da sotto la pelle.
“Sei sicura che non vuoi farlo salire? Il cane, dico. Non lo porti con te?”
“No, scherzi? Non è nemmeno mio. Mi sta in culo perché gli ho dato un po’ da mangiare.”
Per un attimo non so cosa dire.
“Ti sporcherebbe tutta la tappezzeria” aggiunge.
“Non c’è dubbio” rispondo, mettendo in moto.
Partiamo, il cane ci corre dietro, con la bocca aperta e le gambe che si muovono talmente veloci che sembra non tocchino nemmeno per terra.
Un silenzio greve si infiltra tra noi, un vuoto di parole dentro il quale galleggiano, come astronauti nello spazio, le ultime immagini del cane di lei riflesse dallo specchietto retrovisore e strani altri pensieri confusi. In uno di questi trovo il mio amico Sborro, penso al modo in cui me ne sto andando, e a quello che penserà non vedendomi arrivare al luogo pattuito, all’incontro con la sua fuga dai pischelli. Certo, mi toccherà inventargli una scusa del cazzo, rigirargli la frittata tanto bene da fargli credere che qualcosa di molto serio mi ha tenuto lontano da luogo dell’appuntamento. E poi c’è il discorso dei soldi. Quando io e Sborro freghiamo i soldi a qualcuno si fa sempre fifty-fifty. Con questo non voglio dire che freghiamo sempre soldi alla gente, ma che quando capita ci regoliamo così. Però questa volta non ho voglia di dividere. Se ci penso mi sembra la cosa più logica da fare, anche alla luce del fatto che gli sto accollando un pacco mica da ridere, ma bisogna guardare le cose da tutte le angolazioni possibili, se si vogliono scoprire punti di vista nuovi e impensati. Uno di questi punti di vista riguarda Sborro e quello che mi aspetto da lui. Mi aspetto che sia adesso in un barrazzo malfamato a farsi offrire birra scadente dai pischelli, a fumare le loro sfigate sigarette extra light e a contargli qualche pompata storia dal suo repertorio di trombate allucinanti-ti-giuro-veramente-allucinanti. E poi lo vedo alzarsi piano e dire ai pischelli di aspettare lì, mentre lui va a pisciare, nel caso io ritorni con uno scuter che non ho mai cercato e tanto meno trovato. E invece di pisciare corre al luogo pattuito e lì si stranizza di non trovarmici già, e, dopo avermi aspettato qualche ragionevole minuto, non vedendomi arrivare, se ne va con in tasca gli altri 50 euro. Perché se è un minimo furbo, e per queste cose in effetti lo è, se la svigna tenendosi anche quelli. Si tratta solo di fare una passeggiata, in fin dei conti, mi sembra un po’ poco per tirare fuori discorsi di amicizia tradita.
E poi io e lui abbiamo un conto in sospeso. Una storia di pischelli dodicenni e di un campetto in piazza Garibaldi, tra auto in sosta, palme, aiuole e siepi. Me lo ricordo come se fosse ora. È un assolato pomeriggio di primavera, i gabbiani volano alti sopra la nostra testa e una nave, ancorata alla banchina aldilà della strada, si prepara a partire. C’è in corso una partita di calcio, o per meglio dire, una “spida all’ultimo sangue”, come dicevamo a quei tempi, nonostante si trattasse di un rituale che si ripeteva tutti i giorni. Le facce dei giocatori cambiavano di volta in volta perché giocava chi arrivava prima, e dunque quelli che mancavano all’appello non erano caduti sul campo di battaglia il giorno precedente, ma erano semplicemente arrivati tardi all’appuntamento. Per questo mi viene difficile oggi ricostruire la rosa dei presenti, ma certo non potrei mai dimenticare la faccia da segaiolo provetto e da primi brufoli di Sborro. Quel giorno mi sentivo alla grande, con le gambe che andavano alla grande e il pallone che ci stava a fare le cose che gli dicevo di fare. La maggior parte, almeno. Ma all’improvviso un figlio di buttana di almeno 5 anni più grande di me entra in campo, mi guarda e mi dice di andare a cacare che gioca lui al posto mio. C’erano un sacco di occhi su di me a quel punto, troppi per meditare una dignitosa ritirata. Non si trattava più solamente di vedere se era il caso di rinunciare a giocare il resto della partita. C’era in ballo un questione d’onore, un dovere che sentivo di avere verso tutti quegli occhi che mi pesavano addosso e soprattutto verso me stesso e quello sguardo che avrei continuato a incrociare tutte le mattine guardandomi allo specchio, quello sguardo che mi avrebbero rovistato dentro nelle notti insonni che sarebbero venute. Provai a impressionarlo scegliendo le parole adatte.
“Suca sta minchia!” Dissi.
Quello però non si fece trascinare in una battaglia dialettica. Tutto quello che rimediai fu un calcio in culo per il quale uscii dal campo tenendomi le mani sull’osso sacro e con un’andatura talmente scomposta da rendere vano ogni mio tentativo di mantenere intatto un minimo di dignità. La risata inconfondibile di quel coglione di Sborro infranse un silenzio di automobili in transito e si trascinò dietro un’ilarità generale.
Me ne andai a capo chino, rimpiangendo l’assenza di fratelli maggiori ai quali fare ricorso per vendicare il torto subito e, lungo la strada, capii che una risata può farti più male di un calcio nel culo, anche se a rifilartelo è un coglione di cinque anni più grande di te. Soprattutto se a ridere è un tuo amico.
Torno al presente e mi sento meglio, ora che ho trovato un motivo per odiare Sborro. Mi aiuta a non sentirmi in colpa per quello che sto facendo.
“Ti ricordi quando eravamo piccoli?” Fa lei.
Odio questo genere di domande, come se fossimo stati piccoli un giorno soltanto.
“Mi ricordo che lo siamo stati” rispondo.
“Tu eri così buono… accettavi di fare tutti i giochi che volevo fare io.”
“Non era bontà,” penso, “era solitudine.”
“Era forte quando portavo le bambole e giocavamo a mamma e papà. Io facevo la casalinga e restavo in casa a badare ai nostri figli aspettando il tuo ritorno dal lavoro: volevi fare il meccanico. Ma ancora più forte era quando giocavamo a mamma e figlio: ricordo che ti prendevo in braccio e ti coccolavo e ti sgridavo e qualche volta insistevo che dovevi metterti a piangere così ti potevo consolare.”
Dio santo, è tutta accesa di ricordi e si sforza di raccontare le cose con un entusiasmo che non possiede. Sembra un budino che prova ad essere effervescente.
“Ti pare che sono cose belle da ricordare” dico, in tono scherzoso.
Sorriso rallentato di lei.
“Dio, non ci credo che sei diventato così burbero.”
Le offro in cambio la pessima imitazione di una risata.
“Mi ricordo che quando mia madre veniva a fare le pulizie a casa tua io ero contenta, perché c’eri tu e c’era anche tua madre. Penso che tua madre è una persona eccezionale. Cioè, anche se è una marchesa a me mi trattava come se ero sua figlia…”
Le lancio un’occhiata in tralice, giusto per controllare se mi prende per il culo e se sta attenta alle espressioni che faccio mentre tira fuori ‘sti ricordi dall’oltretomba della mia memoria. Soprattutto non capisco cosa c’entri parlare di mia madre in questo momento e non mi capacito del fatto che ci sia qualcuno al mondo che possa considerarla una donna eccezionale.
“Baronessa.”
“Cosa?”
“Mia madre. È baronessa. Hai detto marchesa.”
“Ah, già, baronessa. Come sta?”
“Bene” dico, come se ne sapessi qualcosa. “Molto bene, grazie.”
Facciamo ancora un po’ di strada in silenzio; perlopiù guardando le luci della città e mentre io tamburello con le dita sul volante un pezzo di Bob Marley, lei si mangia distratta le unghia. Attraversiamo a rilento la G. B. Fardella, la grande arteria della città congestionata di auto e, superato l’incrocio con la via Marsala, quando siamo sul punto di entrare in piazza Martiri d’Ungheria, lei mi chiede di svoltare in via Archi.
“Dov’è che abiti?” Chiedo.
“Al Rione.”
“Abiti al Cappuccinelli?”
“Si. Hai problemi a entrarci?”
“Figurati. Sono agganciato benissimo, è come se fosse casa mia.”
Mento. Il Rione non è casa mia, non è casa di nessuno. È un posto di merda, malgrado l’articolo determinativo. Anzi, proprio per l’articolo determinativo. Il Cappuccinelli è solo case popolari, degrado e violenza.
La casa di Margò è un appartamento di un palazzo popolare dall’intonaco sbiadito e decorato di panni stesi. Quando scendo dall’auto vengo colpito da uno strano mix di odori e rumori che qui sembrano avvertirsi con un’intensità maggiore che altrove. Odore di pesce fritto e detersivo e alghe marine. Il mare qui è vicino. Ascoltando con attenzione si possono sentire le onde che si infrangono sulla banchina, le urla dei bambini per le strade polverose e gli schiamazzi delle tivù dalle finestre dei palazzi.
“Secondo te perché lo chiamano il Rione?” chiedo, mentre lei infila la chiave nella serratura del portone.
“Chi?”
“Come chi? Questo posto. Perché lo chiamano così, con l’articolo determinativo? Voglio dire anche San Giuliano non mi sembra che scherzi come rione, o il rione Palme, o Villa Rosina...”
“Ma che dici? Il Rione è il Cappuccinelli. Si chiama così da sempre.”
Mi guarda come se mi uscissero bolle di sapone dalle orecchie. Non ha capito niente di quello che le ho chiesto, o forse non ha la più pallida idea di cos’è un articolo, determinativo o indeterminativo che sia. Lascio perdere.
“Abito al terzo piano” mi informa lei senza voltarsi, mentre la seguo in ascensore. Da come lo dice sembra che fornisca notizie estremamente importanti.
L’ascensore si ferma. Usciamo sul pianerottolo e mentre lei infila la chiave nella toppa, rifletto su quello che sta succedendo, sul fatto che sto entrando in casa sua senza che né io né lei ne avessimo minimamente parlato. È come se frammenti delle nostre vite stiano viaggiando su un binario comune.
Non mi aspetto gran che dal suo appartamento, per cui non rimango deluso. Mi accomodo su un orribile divano che da solo costituisce l’angolo salotto di una stanza che prevede anche l’angolo cucina e l’angolo sala da pranzo. Lei, tutta presa dall’ansia di apparire un’ottima padrona di casa, insiste per offrirmi un succo alla pesca che sembra stratificarsi nel bicchiere di plastica. Lo porto alle labbra cercando di dissimulare il disgusto in un sorriso stentoreo. Le chiedo se ha della vodka liscia, come estremo tentativo di rendere quel liquido quantomeno potabile.
“No, non tengo alcolici in casa” dice, come fosse una cosa di cui andare fieri. Faccio buon viso a cattiva sorte, se non altro perché lei si siede al mio fianco, e questo rende l’approccio geograficamente più vicino.
“E’ troppo bello che tu sei qua, adesso” dice, “dopo tanto tempo che non l’avrei mai detto che poteva succedere.” Lei parla così, molto sgrammaticata, e da qualche parte nella mia mente nasce l’idea che una ragazza ignorante è più facile farsela.
“Che fai nella vita?” Chiede.
Essendoci di mezzo il sesso, decido di mentirle.
“Studio architettura.”
Margò spalanca gli occhi come se si trovasse di fronte ad un dannato geniaccio. È evidente che sono riuscito a impressionarla. Non ci vuole molto con ragazze come lei.
“Forte! Allora crescere a pane e Dylan Dog ti ha fatto proprio bene. Sai anch’io non ho mai perso questa passione per la lettura.”
La compatisco, è ingenua come la bambina che era ai tempi in cui sua madre spolverava i soprammobili di casa nostra, mentre mia madre dipingeva nature morte in veranda con addosso solo vestaglie di seta. Allora eravamo troppo piccoli per capire che ci divideva un abisso, mentre oggi abbiamo bisogno di motivazioni forti per fingere di non vederlo.
“E tu, invece?” Provo a rigirarle la domanda.
Lei resta qualche attimo zitta, fissando un punto invisibile nel pavimento, poi si porta le mani al volto e comincia a piangere. ‘Non era una domanda tanto complicata’ penso. Aspetto in silenzio che smetta. Sono a disagio, non ho mai avuto dimestichezza col dolore degli altri. Fortuna che non singhiozza, sarebbe insopportabile.
“Bè, non è che me lo devi dire per forza…”
Sento il bisogno di fare qualcosa, di compiere un qualche movimento del corpo, uno qualsiasi, tipo tamburellare con le dita addosso a qualcosa. Però mi trattengo dal farlo, sono spaventato dalle reazioni che posso provocare in lei.
“No, scusami” dice, “tu sei il mio migliore amico ed è giusto che tra di noi ci sia assoluta sincerità.” Trovo patetica la facilità con la quale sono stato eletto suo migliore amico, mi dà la stima del vuoto enorme che hanno i suoi giorni, e che io non ho nessuna intenzione di riempire. È come dover dare un senso alla vita di altri: non si può chiedere a nessuno di accollarsi una responsabilità così grande. E poi, santo cielo, tutta questa importanza che attribuisce alla sincerità… io non la trovo così necessaria. Però so che se non sputa ‘sto rospo non ci sarà modo di passare a niente di più sessuale. Per cui lascio che si sfoghi, che male può farmi qualche parola in più?
“Nella mia vita ho fatto un sacco di errori,” dice, “cose che sono difficili da capire per uno come te, che ha una famiglia e tutto il resto. Invece io… mio padre è morto che io ero ancora una bambina. Era uscito a comprare le castagne…”
Ecco che ricomincia a piangere. Fortuna che continua a fissare il pavimento, così non devo neanche fare la fatica di mantenere una faccia seria e interessata e contrita. E poi, questa cosa delle castagne mi pare un particolare così buffo… in un’altra circostanza mi ci sarei pisciato sotto dalle risate.
Accendo due sigarette e gliene passo una. È il massimo che possa fare per lei, dal momento che non mi viene in mente nessuna parola di conforto, o incoraggiamento, o compassione.
“Ha perso il controllo del motorino ed è andato a scontrarsi con la macchina che veniva di fronte. I dottori hanno detto che forse è stato per un coagulo di sangue…”
Sospiro una profonda boccata della mia Pall Mall, questi discorsi me lo fanno proprio ammosciare.
“Comunque non voglio dire che è per questo che ho fatto quello che ho fatto, che mi sono drogata e mi sono messa a spacciare e che mi sono fatta qualche anno all’“hotel senza stelle”. Però un poco c’entra. Come c’entra l’amore: avevo un picciotto e mio zio non voleva che lo frequentavo; non lo poteva vedere, diceva che non era quello giusto per me. Secondo lui, siccome ogni tanto ci dava dei soldi, aveva diritto a decidere quello che era o non era meglio per me. Proprio lui, poi, che si scopava mia madre. Cioè, la vedova di suo fratello, capisci? Cioè, è una cosa che fa vero schifo, ti pare? Comunque è stato con questo picciotto che ho fatto tutte le cose più importanti della mia vita: il primo bacio, la prima sigaretta, la prima canna, la prima volta che ho fatto l’amore, il primo buco… poi un giorno mi chiede se gli tengo un pacchetto, perché aveva sentito in giro che gli sbirri lo tenevano d’occhio e volevano fotterlo. Io siccome lo amo gli dico di si. Un bel giorno gli sbirri vengono a casa mia e mi trovano il pacchetto e dentro c’è la roba. Io finisco dentro e lui finisce in ospedale, perché qualche giorno dopo lo incoccia mi zio con altri tre o quattro bastardi come lui e quasi lo ammazzano. La cosa che mi fa più soffrire e che passano i giorni e lui non viene a trovarmi e io non so che gli è successo, se non mi ama più o che cosa. Un giorno viene a trovarmi mia madre e le dico che se non mi fanno sapere dov’è lui e cosa fa e perché non viene a trovarmi, mi ammazzo. Allora mia madre mi dice tutto e io in un certo senso sono contenta, perché almeno c’è un motivo se lui non è venuto a trovarmi e la sua assenza non vuol dire che non mi ama più.
Dopo che esco lo vado a trovare e proviamo di nuovo a stare insieme, ma non è più lo stesso. Manca… non lo so cosa manca, però non è più come prima. Così ci siamo lasciati, però io a lui lo amo sempre. Lui è l’unico con cui ho raggiunto l’orgasmo.”
Capisco che si aspetta qualcosa da me, qualcosa che forse non sono in grado di darle.
“Ehi” dico, “è passato un bel po’ di tempo ormai, non credi?”
Io non dico mai “ehi”, nessuno dovrebbe mai dire “ehi”. È un’espressione da finocchio telerincoglionito filoamericano. Ma questo è una caso particolare. Cioè, lei è un caso particolare. Voglio dire: ignorante forte, sofisticata zero. Con lei “ehi” può funzionare.
“Si, ho capito cosa vuoi dire, hai ragione. Sono passati ormai sette anni. Sette anni sono un casino di tempo.”
Allungo un braccio sullo schienale del divano, avvicinando il mio viso al suo.
“Già” dico, “sono un casino di tempo sette anni senza orgasmi.”
Per la prima volta da quando l’ho rivista lei fa un sorriso decente. Ne sono così sorpreso che per un attimo mi sembra persino bella.
Mentre avvicino la mia bocca alla sua, provo ad anticipare nella mia mente l’effetto che mi farà baciarla, il contatto con le sue labbra screpolate, le sue braccia secche a circondarmi il collo e le sue spalle fragili che si stringono e sembrano doversi spezzare da un momento all’altro. Ma poi, quando il contatto avviene e le nostre lingue cominciano a mulinare frenetiche, mi viene da pensare solo al cane, che sulla panchina della stazione le slinguazza la faccia. La cosa strana però è che non mi fa schifo, mi fa ridere, perché mi sento come in una specie di reality show, con la gente a casa che ci vede e i miei amici che concludono che lei è una grande zoccola e che il cane limona molto meglio di me.
Quando lei apre gli occhi si trova davanti la faccia ebete di uno che limona ridendo e ride a sua volta, in quel modo sgangherato, da tossica, che fa passare l’allegria.
“Sei felice?” domanda.
Non le rispondo niente. Provo a sfangarmela baciandola ancora.
Aspetto che richiuda gli occhi e mi sbottono la patta. La mia ciolla salta fuori come i pagliacci a molle di certi pacchi a sorpresa. Mi dà belle soddisfazioni. Le prendo la mano e me la porto sul cazzo caldo e pulsante. Quando lei lo sente tra le dita riapre gli occhi. Ha una specie di espressione languida, come se c’entrasse qualcosa l’amore. Dice che sono un ragazzo dolcissimo e non capisco da cosa possa trasparire la mia dolcezza, dal momento che gliel’ho appena messa in mano senza troppi complimenti.
Per un po’ mi limito a infilarle la lingua in bocca e a lasciare che si gingilli col mio coso tra le dita, in attesa che passi per iniziativa spontanea a qualcosa di più porno. Ma lei niente, non va oltre i teneri slinguazzamenti. “Fanculo!” Penso. “Non me la devo mica sposare questa troia.” Le metto una mano sulla testa e gliela spingo giù, dosando la forza affinché appaia una richiesta esplicita, senza eccedere nella brutalità. Del resto lei non ha proprio l’aria di essere una di quelle troie schizzinose, tipo la mia ex, che si reputano troppo finicchie per fare certe cose. Anzi, non lo è affatto.
Con qualcosa di molto simile a una porca dolcezza, si china all’incrocio delle mie gambe per far spazio al mio membro nella sua bocca, e io annaspo nella marea di piacere che mi investe e mi lascio andare, come un naufrago alla deriva. Ogni tanto lei torna su per baciarmi sulle labbra e ricordarmi che sono dolce, veramente dolcissimo. Ma me ne frego di quello che può pensare o aspettarsi da me adesso; le poggio una mano sulla testa e la ricaccio giù. Le dico troia e buttana e un mucchio di altre parolacce del genere, perché mi piace la sensazione di potere che ho su di lei. Guardo la sua nuca che ondeggia su e giù a ritmo costante come in una specie di danza, e in fondo al piacere, provo qualcosa di incerto; come una strana felicità.
Non si sa bene cos’è la felicità, ma qualunque cosa sia, credo che un pompino ne costituisca quantomeno un buon surrogato. Del resto, dopo anni di autoerotismo compulsivo e di nigeriane frettolose, una picciotta disposta a sucarmela e a farsi maltrattare un po’, è molto di più di quanto mi senta di chiedere alla mia vita attuale. Sarò anche materialista, ma il mondo mi sembra un posto migliore se penso che anche una cagna come Margò, mettendo la bocca nel posto giusto, può distillare gocce di felicità e donarle a qualcuno.
Ma la felicità ha due difetti. Il primo difetto è che finisce presto. Il secondo è che spesso non dipende da te. A volte le persone nel tentativo di farti felice ti rendono infelice. A volte le persone vogliono farti felice quando felice lo sei già, e rovinano tutto. Ognuno dovrebbe occuparsi solo della propria felicità.
Proprio quello che non fa Margò, che stacca le sue labbra dal mio cazzo e dice “voglio farti morire”. Si alza in piedi e improvvisa uno strip piuttosto sgangherato. La guardo con orrore. Tutto quello che voglio è che lei torni in ginocchio e tenga la bocca occupata.
“Sei il mio cuccioletto” dice, lanciandomi addosso il reggiseno, “sei il mio cucciolotto dolcissimo.”
Ho la sensazione che cominci a trattarmi come lo yorkshire della stazione e in più balla in modo pietoso. Ha la leggiadria di un comodino e sotto le tette minuscole, posso contarle le costole. Mi chiedo come la prenderebbe se la piantassi lì e me ne andassi, adesso, riabbottonandomi i pantaloni lungo il tragitto. Ma qualcosa mi trattiene dal farlo.
Si toglie la gonna, ancheggiando in quel suo modo eccessivo, come se tutta la sua femminilità dipendesse dal movimento. Ce la metta tutta per sembrare sexi, ma non riesco proprio a profondermi in slanci di arrapato entusiasmo, perchè rimpiango ancora la sua bocca, il caldo umido attorno al mio glande.
Mi frullano per la testa idee per niente eccitanti, tipo che lei non deve essere una tanto amante dell’acqua. L’ho capito toccando i suoi capelli: sembra che abbia un mocio sulla testa.
Per la prima volta in vita mia mi trovo di fronte a una ragazza sperando che non si tolga le mutande.
Ma lei sembra averci proprio quelle intenzioni. Piroetta sbilenca con i due pollici nell’elastico delle mutande, e mi guarda negli occhi in quel suo modo pseudo-sensuale, attraverso ciuffi unti di capelli.
“Me le vuoi togliere tu?” dice, riferendosi ai suoi slip.
Archivio subito la sua questione alla voce ‘domande superflue’ e prendendola per i fianchi la tiro verso di me. Le abbasso gli slip cercando di concentrarmi sull’idea che, dopo che sarà nuda, mi basterà chiudere gli occhi e immaginare di essere in un altro posto, con una qualsiasi altra persona ad abitare la mia realtà virtuale. Ma per quanto mi sforzi non riesco a non chiedermi da quanto tempo lei non si cambi gli slip, o quanto tempo è passato dall’ultima volta che si è seduta a gambe larghe su un bidè a sciacquarsi la passera, dal momento che i suoi capelli non devono aver avuto contatti con l’acqua da almeno 4 o 5 giorni. Per evitare di averne risposta, escogito di baciarle l’ombelico, concentrando tutta la mia attenzione su una minuscola porzione di pelle sulla sua pancia. Ormai la vera eccitazione è andata a buttane, mi rimane solo un’esigenza mascolina di smorzare il piffero. Del resto, se andassi via adesso, non mi sarebbe facile guidare con una bacchetta di 20 cm di traverso nei pantaloni. Ok, 16 centimetri. Va bene, 14, stavolta lo giuro.
Lei mi accarezza i capelli come fanno le ragazze innamorate, o quantomeno quelle felici, ma non è né l’una, né l’altra. Rimane nuda e mi aiuta a sfilarmi via le scarpe, i jeans e le mutande. Con la maglietta e la camicia addosso e niente sotto mi sento un vero porno star, deficit centimetrico a parte. Lei mi si impianta a cavalcioni sul pisello e comincia a muoversi su e giù, e a emettere mugolii e ansimi come fanno tutte le femmine, dalla suora verginella alla troia consumata, quando ci tengono a farti sapere che stanno godendo. Anche se questo non vuol dire che stiano godendo davvero.
Ad essere sincero, se chiudo gli occhi non è per niente male come scopata, ma se li riapro, e vedo lei, con la sua magrezza e il suo colorito anemico, mi sembra di chiavare con l’illustrazione animata di un trattato di medicina legale. Quando mi stanco di vedermela ballonzolare davanti, la prendo per le natiche esigue, la sollevo di peso e la riverso sul divano come un sacco di patate. Senza tanti complimenti le salto addosso e prendo a farmela a cosce aperte. A un certo punto mi intrippo con l’idea di umiliarla. Le infilo due dita in culo e comincio a dirle all’orecchio tutte le peggiori porcate che mi vengono in mente, umettandole la faccia di schizzi di saliva e sudore. All’improvviso, però, senza nessun apparente motivo, lei comincia a piangere, proprio nel momento in cui io mi trovo in dirittura d’arrivo, e sono combattuto se venirle dentro o tirarlo fuori, sedermi su di lei e schizzarle la sborra calda sulle tette e sul viso, come si conviene a uno che scopa mezzo vestito. Provo a far finta di niente, a spingerglielo dentro con un po’ più di impeto, alzando il volume delle parolacce che le dico, nel vano tentativo di coprire il sottofondo di singhiozzi che proviene da lei; in fin dei conti si tratta solo di pochi istanti e dopo potrei persino starla ad ascoltare qualche minuto. Ma quasi subito capisco di non essere come Sborro e che per quanto mi sforzi, non riuscirò mai a convincermi che le sue lacrime sono solo acqua che scende dagli occhi. Non con il mio uccello dentro di lei, almeno. Mi tolgo da sopra di lei e mi rimetto a sedere. Margò si porta le mani al viso e rimane così, a cosce aperte, a piangere in lunghi singhiozzi trattenuti, come se si sforzasse di farlo in silenzio. Raccatto in giro il mio pacchetto di Pall Mall e, con la bocca sdentata della sua fica in bella vista al mio fianco, mi accendo una sigaretta. Ancora una volta penso a quello che può aspettarsi in questo momento da me, ma decido che qualunque cosa sia, stavolta davvero non me ne fotte un cazzo. Forse se le donne la smettessero di piangere sempre nel momento sbagliato, non avrebbero motivo di lamentarsi tanto dell’insensibilità degli uomini. Insensibilità per insensibilità poi, anche lei, dal canto suo non è stata da meno, a giudicare dal dolore che sento ai testicoli. Quando ormai metà della mia paglia si è trasformata in cenere, lei chiude le gambe e si rimette a sedere. Tira su con il naso e si asciuga gli occhi con il dorso della mano. Nemmeno la guardo, concentro tutta la mia attenzione sulla coordinazione necessaria a far andare la mia mano dalla bocca al posacenere e poi, dopo breve sosta, di nuovo alla mia bocca.
“Me ne offri una?” fa lei, col filo di voce che si concede.
Le allungo il pacchetto di sigarette evitando accuratamente di incrociare il suo sguardo. L’unico motivo che ancora mi trattiene in questa casa, è la curiosità di sapere cosa diavolo le è preso. Ma non sarò mai io a chiederle spiegazioni.
“Grazie!” Dice, mentre con le dita ossute che le tremano prova ad accendersi una sigaretta. Non le rispondo niente. Sono troppo incazzato con lei, e poi “prego” è la parola più inutile del mondo.
“Scusami è che… forse mi immaginavo una cosa un poco diversa?” Fa lei.
“Diversa? Diversa come? Attaccati al lampadario a testa in giù poteva andarti bene?”
“No, volevo solo una cosa più dolce…”
“Dimmi una cosa, ma il complesso della dolcezza ti viene sempre quando uno è sul punto di avere un orgasmo? Non ti poteva venire dopo? O anche prima, almeno risparmiavo tempo.”
“Non puoi obbligarmi a farmi piacere il sesso con tutte quelle parolacce. Io non sono una troia.”
“L’hai capito adesso? Che è successo, ti è scattato il bonus?”
Spengo con veemenza la sigaretta sul posacenere, mentre lei guarda davanti a se, come intenta a raccogliere parole nell’aria.
“Scusami,”dice, “è solo che, esco adesso da una relazione con un uomo violento…”
Ecco che ci risiamo. Ma perché mai le donne devono avere tutto questo bisogno di parlare? Non potrebbero limitarsi a ubriacarsi e rompere qualcosa in giro? Per quale motivo poi dovrei stare ad ascoltarla? Per la scopata che non mi farà terminare la prossima volta?
“Occhei.” Dico. “Adesso vado, s’è fatto tardi.”
Raccolgo in giro la mia roba sotto lo sguardo accusatore di lei.
“Ci vediamo?” chiede.
“Bè, io ci vedo. Non so tu.” Le rispondo tirando su un calzino dal pavimento.
Lei mi guarda con un certo disprezzo.
“Mi pareva che tu eri diverso da tutti gli altri.”
“No, ti sbagliavi. Sono tale e quale a tutti gli altri. Ma solo perché non riesco ad essere peggiore.” Annuisce con un falso sorriso sulle labbra.
“Va bene. Allora finisce tutto qui, così? Tutti quei discorsi sull’amicizia… non erano niente per te?”
“Erano i tuoi discorsi sull’amicizia, sei tu che ne hai parlato.”
È strano discutere con lei mentre mi rivesto, è quanto di più vicino a una lite coniugale mi sia mai capitato. Ma per fortuna non c’è stato nessuno scambio di anelli e giuramenti a monte.
“Vuoi sapere cosa sei? Sei un figlio di buttana.” Mi urla contro alzandosi dal divano completamente nuda. “Ecco cosa sei. Sei solo un figlio di buttana.”
Non sto neanche ad ascoltarla, la guardo avanzare piano, un passo dietro l’altro, con le gambe secche che terminano in un boschetto di peli pubici biondastri. Capisco che non è il caso di continuare a risponderle, tanto meno di fare del sarcasmo, perché ha tutta l’aria di una che sta per perdere il controllo. Mi volto a darle le spalle mentre mi abbottono i jeans. Fuori dalla finestra ormai è buio. Quando ritorno a guardare verso l’interno della stanza incrocio i suoi occhi dilatati a un passo da me e ho un sussulto. Solo dopo mi accorgo che ha in mano un coltellino e me lo sta puntando contro.
“Volevi solo divertirti con me, vero? Volevi solo divertirti e poi andartene, come se niente fosse. Non è così?”
E’ esattamente come dice lei, in effetti, ma non mi sembra il caso di essere sincero.
“Margò, senti, lasciamo perdere tutto, occhei? Abbiamo sbagliato. Ci siamo illusi. Abbiamo creduto tutti e due che l’altro fosse diverso da quello che era. Ci siamo fatti delle aspettative sull’altra persona sulla base di questa idea che ci siamo voluti creare nella testa. Tu ti sei fatta determinate aspettative, e io mi sono fatto determinate aspettative. Ma dovevamo prima sapere chi avevamo davanti. È stato tutto soltanto… un errore…”
Scuote la testa indietreggiando di qualche passo.
“No, non è così. Tu sei un errore. E io sono più errore di te. Sono molto più errore di te, io; e questo te lo posso dimostrare.” Nonostante lei stia tornando piano verso il centro della stanza, allontanando con sè la minaccia del coltellino che ha tra le mani, mi ritrovo senza saperlo stretto in un angolo alle mie spalle, ricacciato lì da un movimento inconsapevole delle mie gambe. Ho una paura fottuta di quello che potrebbe fare.
“Io sono l’errore, e tu non dovevi venire qua.”
Incastonato in quella nicchia di pareti ad angolo retto, guardo il suo viso stravolgersi per la rabbia. All’improvviso lei comincia a tremare, prima solo i muscoli della faccia, poi le labbra e infine le braccia. Trema così violentemente che temo le stia accadendo qualcosa di serio. Penso prima ad un problema d’astinenza e poi a un crisi epilettica e, tra l’una e l’altra, non so bene quale mi faccia più paura. Dal mio angolo di visuale la vedo cominciare a mordersi le labbra con sempre più violenza, fino a renderle brandelli di carne lacerata e quando il sangue prende a colarle fuori dalla bocca, sembra quasi che regga una rosa tra i denti.
“Io adesso mi ammazzo” urla. “Mi ammazzo, hai capito?”
“Margò, ti prego, io voglio solo andare a casa” le dico, quasi supplicando e sforzandomi di parlarle nel modo più dolce e tranquillizzante possibile, mentre mi avvicino piano.
“Fermo!” grida, puntandomi il coltellino al viso. “Non te ne frega un cazzo di me, vero? Vuoi solo andare a casa. Non te ne frega un cazzo se mi ammazzo.”
Si avvicina piano e io riprendo a indietreggiare tenendo le mani alzate.
“Certo che mi interessa di te Margò. Come puoi pensare che non mi interessi di te. Cazzo, ti conosco da una vita.”
Lo spazio alle mie spalle termina bruscamente in un incrocio di pareti lattee, e lo stesso angolo che poco prima è stato punto di osservazione privilegiato per vedere una rosa sbocciare sulla bocca di Margò, adesso sembra completamente diverso, perché nessuna immagine di crudele poesia, interviene a temperare la drammaticità del presente.
“Sei un bugiardo,” grida. “Sei soltanto un falso bugiardo. E adesso te ne starai qua a vedermi morire.”
Con rapidi gesti nervosi si infligge una ripetizione di tagli all’avambraccio sinistro, poi passa il coltellino nell’altra mano e fa lo stesso sull’avambraccio e il polso destro. Il sangue prende a colarle fuori dalle ferite e lei lascia cadere dalla mano il coltellino che, rimbalzando sul pavimento, finisce a pochi centimetri dai miei piedi ancora scalzi.
“Ecco, hai visto? Hai visto che mi ammazzo davvero?” grida, tenendo le braccia larghe e i polsi rivolti verso l’alto in modo da mostrare i rivoli di sangue che si diramano sugli avambracci.
“Hai visto? Tu che non ci credevi.”
La guardo paralizzato dalla paura, mentre cerca di morire davanti ai miei occhi. Malgrado sia lì, a pochi passi da lei, mi sento completamente impotente, come se stessi assistendo a qualcosa che avviene aldilà di un vetro infrangibile, e più passano i secondi, più scorre il sangue di Margò, e più mi convinco di non poter fare nulla per lei. Vedendomi lì, immobile come un baccalà e con un’espressione per niente intelligente dipinta sul viso, Margò prende coscienza di quello che ha fatto e di stare per morire davanti a qualcuno che non sa cosa fare. All’improvviso crolla in ginocchio.
“Aiutami” grida, “non vedi che sto per morire.”
Le grida di lei mi scuotono ed è come se mi fossi svegliato da un brutto sogno, ma il sogno è rimasto lì. La afferro per i polsi e la tiro su in piedi, la porto verso il lavabo e le metto le braccia sotto l’acqua corrente, rigirandogliele bruscamente verso l’alto per guardare le ferite. Le controllo con attenzione una ad una, cercando di valutare l’entità degli squarci sotto il sangue che cola. Quando le ho visionate tutte, chiudo l’acqua e la spingo via.
“Con questi tagli leggeri non ce la farai mai a morire dissanguata. Ritenta, la prossima volta sarai più fortunata.” Le dico con tutta la freddezza che posseggo.
“Non è vero, sei un bugiardo. Io sto morendo.”
“Vaffanculo, non stai morendo.”
Allora lei si accorge che sto per andare via, per andare via per sempre e mi afferra una gamba.
“No, non andare via, ti prego. Sto morendo. Ti prego, non te ne andare.”
Le dico di lasciarmi la gamba, ma lei al contrario si aggrappa ancora di più ai miei pantaloni e lo fa con tutta la forza della disperazione che ha dentro.
“Lasciami. Devi lasciarmi, hai capito? Non me ne frega un cazzo se muori, lo vuoi capire? Non me ne frega un cazzo di te.” Grido, mentre cerco di liberarmi le gambe dalla morsa delle sue braccia.
“Ti prego, io non ce la faccio. Non ce la faccio, ho bisogno di te. Aiutami ti prego. Sono sola. Non ho nessuno.”
“Vaffanculo. Lasciami ti dico. Vuoi lasciarmi?”
Finalmente con uno strattone riesco a divincolarmi dalla sua presa. I miei jeans sono cosparsi dalle macchie del suo sangue. La guardo umiliarsi in ginocchio con un misto di pena e orrore, perché appena incrocio i suoi occhi, che adesso si riempiono nuovamente di lacrime, vedo tutto il male che le sto facendo, insieme a tutto il male che gli altri e la vita in generale le hanno sempre fatto, e capisco che questo perdermi in modo così prematuro, deve sembrarle l’ennesima prova di forza di un destino che le ripete che nulla può cambiare, che niente sarà mai diverso, che non può sottrarsi al copione che è stato scritto per lei.
“Voglio andare a casa” dico piano, come se parlassi a me stesso. Stesa sul pavimento Margò affonda la testa fra le sue braccia e si abbandona ad un pianto silenzioso, disturbato talvolta dagli strappi improvvisi dei singhiozzi.
Raccolgo le mie scarpe e me ne vado così, a piedi scalzi, camminando all’indietro, per accertarmi che lei continui a piangere per terra e non si faccia prendere da altri raptus violenti. Quando mi ritrovo da solo nel pianerottolo, con la porta dell’appartamento di Margò chiusa alle mie spalle, mi fermo un ultimo istante a pensare a lei, a come ti senti molto più solo quando va via qualcuno che speravi restasse.
“Voglio andare a casa,” dico piano nel silenzio delle scale, come se lei potesse ancora sentirmi. “Voglio solo andare a casa.”