ascoltando i pensieri di una ragazza al bar

Qui torna Igor, uno dei due protagonisti delle "freak mail", il progetto narrativo che avevo cominciato a realizzare con il mio amico genialoide Gigi che interpreta Curzio, l'altro protagonista delle storie. Gigi sta per pubblicare un romanzo, prossimamente vi darò anche il titolo, e dunque abbiamo pensato che forse era meglio riprendere il nostro vecchio progetto. Se ci diamo una mossa (soprattutto io, visto che lui scrive molto più di me), entro giugno dovremmo avere una raccolta di racconti da presentare agli editori, e se il suo libro dovesse andare bene potremmo avere quella spinta decisiva per la pubblicazione. ma non corriamo troppo. Intanto ecco a voi il ritorno di Igor.
sopra: "maschera in blu" un dipinto di David Hunter ispirato dall'ibogaina, un allucinogeno che sembra avere effetti miracolosi per la disintossicazione da altre sostanze stupefacenti.
Ascoltando i pensieri di una ragazza al bar
Caro Curzio, mi scuserai se non mi soffermo tanto sulle tue tristezze, ma lo sai che non sono stato programmato per certe cose, tipo dire “mi dispiace”, o “che ci vuoi fare, è la vita”. A pensarci bene non sono stato programmato per un casino di altre cose, ma qui il discorso si farebbe troppo lungo.
Voglio, invece, raccontarti di certe situazioni allucinanti che mi sono capitate negli ultimi giorni, che se non ne parlo a qualcuno divento pazzo. Certo, ci sarebbe Roccia nei paraggi, ma quando dico “qualcuno” intendo qualcuno con almeno dieci neuroni nella scatola cranica. Tu dovresti capirmi, con quel lavoro della banana che fai, hai un sacco di tempo per leggere libri e acculturarti, con tutto quello che ne consegue in termini di paranoie e seghe mentali. Dai retta a me, ogni tanto impasticcati, nemmeno pensare troppo è granché salutare per il cervello.
Hai presente quando la mente si apre e cominci a vedere tutto sotto una luce nuova, diversa, e cose che una volta ti sembravano normali assumono significati più profondi e… ma forse è meglio che ti racconti come sono andate le cose, che magari capisci meglio cosa intendo dire.
Di sicuro ti ricorderai di certi miei progetti, tipo mettere la testa apposto e darmi al sacro fuoco dell’arte. Due propositi del tutto contrapposti, detti così, in rapida sequenza, ma non è che bisogna per forza essere coerenti, giusto?
Come ben sai, sono idee che mi frullano nella testa ormai da un po’ di tempo, ma in genere c’è sempre un periodo di fermentazione tra il proposito e la realizzazione dello stesso. Almeno, nel mio caso.
L’altro ieri ho deciso che era arrivato il momento di farci qualcosa con tutte quelle idee schizzate che mi vengono in testa quando sono schiffarato. E tu sai che mi capita spesso di esserlo.
Per farlo avevo bisogno di un posto adatto, un posto che mi mettesse in contatto con il mio centro creativo e cose così. Non potevo restarmene semplicemente a casa, lì tutto grida a gran voce “fottitene!” Quell’appartamento è il tempio del nulla, l’anarchia totale eretta su quattro mura, la porta chiusa in faccia al mondo. Ogni attività anche solo marginalmente lavorativa, stride con lo spirito del luogo. Nemmeno l’idea di andare a fare il topo di biblioteca, mi attirava tanto. Aspiravo a qualcosa di più bohemien, o come cavolo si dice. Non so se rendo l’idea.
Così sono finito in un posto che mi sono sempre guardato bene dal frequentare, un buco maleodorante con la scritta bar all’ingresso. Non volevo correre il rischio di incontrare facce conosciute. A parte Roccia, ovviamente, che comunque è implicato nel progetto.
Mi accuccio in un tavolino stretto in un angolo fra due pareti giallastre e tutto quello che so è che sto parlando di un vampiro. Sul momento mi sembra un’idea perfetta, le femmine vanno pazze per i morsi sul collo. Un morso, non è altro che un bacio più forte, del resto.
Mi si affollano nella mente tutti questi ricordi della scuola, il mio diario che girava tra certe conigliette quindicenni grafomani che 9 volte su 10 scrivevano stronzate del tipo “Ivy super the best” o “Igor tvtb” ma che avevano sempre quell’amica cervellona che ti tirava fuori una qualche citazione di quelle veramente toste, di gente con il nome che molto spesso finiva in “osky”. Stralci di poesie maledette e cose così. E pazienza se tutte le volte mi innamoravo della traccia sul terreno, dell’orma lasciata sulla neve fresca e poi mi accorgevo che tanta poesia proveniva da una qualche mocciosetta occhialuta e senza tette, con una coltivazione di brufoli a guarnirgli la faccia. Pazienza, perché tanto a quel tempo di scopare se ne parlava comunque poco e niente. Almeno rimediavo una stronzata intelligente da copiare sul muro del bagno, quando mi ci chiudevo per fumare e mi ritrovavo con una penna in tasca e la sensazione che tutto il senso della vita fosse racchiuso nella possibilità di imbrattare l’intonaco. Cioè, non in quello che scrivevo, ma proprio nell’atto dello scrivere. Se poi era anche una cosa intelligente tanto meglio. Altrimenti anche “viva la fica” non era male come soluzione.
Era come travasare del liquido da un bottiglia a un’altra, e in quel liquido c’era parte di me. Era lasciare una traccia.
L’atto stesso dello scrivere, dunque, non il contenuto, non la spiegazione dell’atto stesso contavano, anche perché il senso di tutto quello che faccio ancora adesso continua a sfuggirmi. È sempre stato così per me, fin dai tempi in cui scagliavo oggetti giù dal seggiolone per scoprire gli effetti delle mie azioni sul mondo.
Penso che viviamo solo per questo, per lasciare una traccia. Ci portiamo sempre dietro questa angoscia di morte e ci illudiamo che le nostre azioni serviranno a sopravvivere al dopo, quando saremo solo carne marcia che si stacca dall’osso, fetido banchetto per i vermi. Il sogno dell’eternità, ecco cos’è che ci frega. Con un odore più forte e un olfatto più sopraffino non avremmo bisogno di tutto questo. Dovremmo essere come segugi, che sentono l’odore rimasto anche dopo giorni, e sono in grado di seguirne le tracce. È per questo che i cani non hanno mai imparato a scrivere.
Le frasi sul diario, dunque, è lì che è nata questa storia: “All’origine del bacio c’è l’istinto a mordere”.
Dal giorno in cui una pischella brufolosa ha scritto queste parole sui miei fogli, la concatenazione degli eventi si è messa in moto e mi ha portato fino a qui, in questo bar da sfigati, con una penna in mano e un taccuino poggiato sul tavolo.
Eccomi, dunque, ad aspettare la mia musa e a ordinare Jack Daniel’s a raffica. Sto spalancando le porte della percezione, come ha detto anche Jim Morrison e un mucchio di altri geniacci sballati che hanno fatto i quattrini in questo modo.
Al momento però ci sono solo io e il vampiro appollaiato a testa in giù sul lampadario nella sua versione compatta di pipistrello dagli occhi rossi che brillano nel buio. Ed è tutto quello che so, a parte la canzone, che l’altra volta l’ho anche fatta sentire a una che di lì a poco ci dovevo girare delle scene di ficco e che ha sgranato gli occhi tanto così, come se fossi un dannato genio, al punto che un po’ mi ha fatto pena, perché dopo mi è venuta come l’impressione che lei non fosse la tipa adatta a valutare la mia opera. Cioè, troppo capra intellettualmente parlando (e non solo), che qualsiasi cosa le sarebbe sembrata una creazione stupenda. Ho cominciato a pensare che forse non era granché come canzone e che avrei dovuto farla sentire a qualcun altro. Solo per averci un parere in più. C’è di buono che dopo la tipa si è fatta sbattere con un certo gusto, con tanto di gemiti e mugolii che lo vedevi che non stava recitando. Io c’ho l’occhio per queste cose. E, sai com’è, sono le piccole soddisfazioni che ti ripagano dei sacrifici che fai.
“Capo, un altro jack.”
Non mi ricordo quando è stata l’ultima volta che mi sono spasciato fino a questo punto. Ci ho messo dentro anche un paio di cannoni, prima di uscire di casa, roba di lusso, ganja allo stato puro. Ci sono momenti che entro in questa bolla di sapone e fluttuo nell’aria, sopra le teste di tutti. Forse divento anche piccolo piccolo, perché non sono lontano da loro, eppure li vedo distanti, un metro e mezzo sotto di me che diventano decine di metri. Parlano piano, veramente pianissimo. Tutti loro credono che io sia ancora seduto a quel tavolo con una penna in mano.
Entra questa ragazza e si siede, come me, da sola, in un angolo appartato del locale. Anche lei è una scrittrice, anche se ancora non lo sa. Si vede benissimo che ha una storia dentro, e prima o poi la tirerà fuori. Posso sapere tutto di lei, entrare nella sua mente e ascoltare quello che pensa.
“Lo sapevo che dovevo dirgli di no. A una ragazza come me non dai un appuntamento così, in un posto qualunque in mezzo alla strada. La vai a prendere a casa, una come me, con la macchina. Una bella macchina, anche. La vai a prendere a casa e se piove ti fai trovare davanti alla porta con l’ombrello aperto. Mi suoni al citofono e io ti dico che sto scendendo, ma tanto già lo sai che ti farò aspettare ancora qualche minutino. Così ci puoi fantasticare sopra nella tua testolina perversa di maschio porco. Ti immagini che sono ancora chiusa in bagno a sciacquarmi la fighetta, in modo che sia tutta bella fresca e profumata nel caso decidessi di dartela. Solo a pensarci l’idea ti fa un certo effetto. Ti infili una mano nella tasca per tastarti il pisellone. Invece io sono davanti allo specchio, già pronta da un po’ e devo solo decidere che va tutto bene così, l’insieme delle cose che… tipo il rossetto, questo rosso fuoco che mi fa una gran bocca da troia… non è che non bisogna mai sembrare troie, dopotutto è quello che i maschi vogliono da noi, quello che sperano che tu sia. L’importante è veicolare il messaggio nel modo giusto. Veicolare… complimenti Meli, da quando hai queste frequentazioni acculturate il tuo vocabolario è molto più raffinato. L’importante è veicolare il messaggio nel modo giusto, dicevo. Qualcosa del tipo: c’è una seria possibilità che io possa essere una troia stasera, con te. Potrei anche decidere di lasciarti l’impronta delle mie labbra attorno al cazzo, avvolgendotelo dolcemente, per farlo scomparire tutto nella mia bocca… però bisogna anche che non sia tutto scontato. È per questo che alla fine ho deciso di mettere su questo cappellino e di legare i capelli dietro la nuca. Perché è necessario che questi uomini capiscano la complessità che c’è dentro ognuna di noi, quante donne ci sono tutte dentro la stessa donna… e dunque posso essere anche dolce, se voglio, frivola e sbarazzina, all’occorrenza, puttana o principessa… ma c’è differenza poi? Guarda quella là, per esempio, quella di Monaco: da quanti si sarà fatta scopare una così? Se lo facessi io, nel giro di un mese non ci sarebbe più nessuno disposto a mettersi con me. Sarei per tutti soltanto “quella troia di Melissa”. Tutti i maschi più sfigati di Trapani mi inviterebbero soltanto per portarmi al Ronciglio e svuotarsi le palle sul sedile posteriore della loro sfigatissima Punto bianca. Non sono cose che può fare una come me, una ragazza qualunque, senza titoli nobiliari e frequentazioni altolocate. Ho una reputazione, io. Anche se adesso mi sento proprio una gran vacca a farmela con questo qui che pare mio padre. Lascia la moglie a casa per sbattersi le fresca 25enne rimediata in biblioteca. Mannaggia a me e quando gli ho permesso di parlarmi di filosofia. È lì che mi ha fregato. Soprattutto quando ha usato la parola “edonismo”. Ho pensato: uno che usa termini così non può essere un bastardo figlio di sua mamma. Nessuno di tutti quei bonazzi che mi sono fatta nella mia ultima vacanza a Formantera ha mai usato quella parola lì. O forse io non parlo abbastanza bene lo spagnolo. Per una volta che volevo fare la ragazza matura… “Qual è il muscolo più sensuale in un uomo? Il cervello.” Devo smetterla di leggere questi stupidi periodici per casalinghe annoiate. Senza tutte queste cavolate non mi ritroverei adesso in questo schifosissimo bar come un’amante da quattro soldi.
Aspetto ancora 5 minuti e me ne vado. Così impara, lo stronzo. Anzi fra 5 minuti cancello il suo numero dalla rubrica e fra 10 minuti me ne vado. 10 minuti a partire da adesso. A proposito, devo telefonare a Laura. La troietta a quest’ora sarà gia a casa a vedersi “Desperate huose wife” insieme a mamma e paparino. Fa la brava bambina, lei. La sera non esce mai. Tanto ha tutto il pomeriggio a disposizione per fare la porca con il suo ragazzo. È stata lei a dirmi che la vagina è come i piedi, bisogna farli respirare. Secondo lei dovremmo andare sempre in giro senza mutande... dice che così fa sempre un buon odore. O almeno un odore che piace ai maschi.
Guarda quello là. Che cavolo fa con quella penna e quel taccuino davanti? Saranno 10 minuti che fissa quella parete. Forse è il caso di avvertirlo che la televisione l’hanno spostata. La vedi quella scatola nera lì in alto a destra? Quello lì è tutto di fuori. Come minimo ha calato. Roba forte, però, allucinogeni o schifezze del genere. Chissà che film sta vedendo dentro la sua testa. E ordina un altro whisckey, pure. A momenti finisce a vomitare sotto il tavolo. Che sfigato! Da uno del genere non mi fare toccare nemmeno con una canna da pesca… Magari si è ridotto così perché la sua tipa l’ha mollato. Bè, direi che la ragazza ha fatto bene: sei un perdente nato, amico. E se invece fosse un giornalista? Starà scrivendo un articolo sulla fauna giovanile della zona. Bel posticino, complimenti per la scelta. Naaa, come reporter non vali un cicca. Potrebbe essere un pittore e fra poco si alzerà e verrà qui. Se mi vede si alza e viene qui, così gli tiro addosso il portatovaglioli in ceramica. A meno che non sia una artista davvero, in quel caso… potrebbe chiedermi di posare nuda per lui, come Leonardo Di Caprio a Kate Winslet nel film Titanic. Solo che questo qui non c’ha nemmeno le sopracciglia di Di Caprio. No, non è un artista. Se lo fosse si sarebbe già accorto di me. Sono troppo bella. Sono davvero bellissima. Me lo dicono tutti… tutti tranne quelli da cui vorrei sentirmelo dire, per essere schifosamente sincera. Che tristezza!… “l’amore è dare qualcosa che non si ha a qualcuno che non lo vuole”… Devo smetterla con queste frasi fatte. Non capisco perché continuino a venirmi in testa. Non hai più 15 anni, Meli, sei una donna, ormai. Occhei, adesso basta. Mi sono stufata di aspettare ancora. Ora esco da quella porta e giuro su Dio che lo stronzo non mi vede più.
Lo sapevo che andava a finire così. Non è giusto. Tutti dovrebbero avere diritto a un minimo sindacale di amore. Non solo quelle che vanno in giro senza mutande.
Forse dovrei rifarmi il seno..”
Come nel peggiore dei mondi possibili, dalla stessa porta in cui esce Melissa, nello stesso istante compare Roccia. Si volta a guardarla finché lei sparisce dalla sua vista. Poi si accorge di me in fondo al locale e viene a sedersi al tavolo.
“L’hai vista quella?” esordisce, “gran belle bocce.”
“Si chiama Melissa.”
“Perché la conosci? Era qui con te?”
“Lascia stare, è un discorso lungo.”
Lancia un’occhiata al mio taccuino.
“Che sono sti gerogglifici?”
“È il mio film.”
Rimane in silenzio, anche se questa non è proprio l’espressione esatta per spiegare quello che fa. Perché lui è uno che non resta mai in silenzio, nemmeno quando sta zitto. Ha tutto un corredo di facce e cose che fa con la bocca e con gli occhi, che capisci che sta dicendo qualcosa, anche se non userà le parole.
“Ricordi i nostri discorsi sull’arte?”
Alza gli occhi verso di me, poi li ruota tutto intorno sbuffando scazzato.
“Compare non ricominciare con la solita storia del giorno in cui non potremo più permetterci di vivere soltanto abbagnando il biscotto.”
Per un attimo resto sorpreso dalla sua reazione. Eppure non sono proprio sorpreso, perché Roccia è uno che parla sempre a cazzo, solo per dar fiato alla bocca. Si esalta per qualsiasi cosa e costruisce castelli in aria che tu pensi che è bello che finalmente abbiamo trovato qualcosa che ci entusiasma tutti e due, ma poi il giorno dopo non gliene frega più niente. Perché non è il progetto che lo entusiasma, è il parlare. Dopo il ficco parlare è la cosa che gli piace di più.
“Minchia, sei una cosa allucinante.”
“No, tu sei una cosa allucinante.”
“No, tu lo sei.”
Andiamo avanti per un po’ ripetendoci solo questa frase, puntandoci contro gli indici ingialliti dal fumo, con le unghia nere come se fossimo andati a rovistare nella melma per recuperare un po’ di trimulina.
Poi si istaura questo silenzio greve che c’è sempre tutte le volte che finiamo di discutere, quando restiamo a corto di cose da dirci ma non vogliamo abbandonare l’idea che l’altro è un coglione.
“Occhei, sentiamo sta porcata,” dice lui, girato verso il banco, intento ad attirare l’attenzione di qualcuno al bar.
“È una storia di vampiri,” dico, consapevole che non si deve mai parlare di qualcosa a cui tieni a qualcuno a cui non gliene frega un cazzo di quello che stai per dire. Il fatto è che non ho nessun altro a cui parlarne, se mi gioco anche la possibilità di dirlo allo stronzone mi tocca pagare uno psicanalista a 100 euro l’ora per sentirmi dire che come sceneggiatore non valgo una mazza e che ho un “complesso di Edipo” non risolto. Insomma, odio doverlo ammettere, ma il cazzone è tutto il mio mondo in questo momento.
“Una storia di vampiri che succhiano il sangue…”
“Ecco, questa sì che è una novità.”
Il tipo del bar nel frattempo ha deciso di darci conto e si presenta al tavolo con un falare legato alla vita. Si impianta davanti a noi con le mani sui fianchi che sembra un’anfora greco-romana.
L’esordio non è dei più accoglienti: “Allora?”
“Che si beve in un posto come questo?” domanda Roccia alzando il mento verso di me.
“In un posto di merda come questo, intendi?”
Il trippone si irrigidisce, toglie le mani dai fianchi con se dovesse estrarre una colt il più in fretta possibile. Forse si credeva di dirigere un hotel a cinque stelle.
“Non so tu, ma per quanto mi riguarda, finito sto jack, ci metto sopra un paio di rum e pera, giusto per carburare.”
“Direi che rum e pera è adatto a mandare giù anche uno schifo di posto come questo,” mi appoggia, Roccia.
L’altro barista orecchia la situazione un po’ trubbula e viene in raddoppio a Ciccio Pasticcio.
Come posso spiegarti che tipo e quest’altro?... c’hai presente quei film americani che c’è uno belloccio, che balla bene e che mena tutti? Ecco, una cosa del genere, compresa la banana in testa anni ’50. Ma in quanto a menare, io starei molto attento se fossi in lui.
“Tutto apposto qua?” Fa il ballerino.
“Di canna,” gli risponde Roccia. “Portaci due rum e pera, va…”
“Due a testa, ovviamente,” specifico.
Restano lì un secondo in più del dovuto, quel tanto che basta a voler sembrare minacciosi. Roba del tipo “stai molto attento, gringo” ma si vede lontano un chilometro che non c’hanno abbastanza le palle. Figurati se due come noi possiamo sentirci minacciati da gente così.
Quando pare a loro girano i tacchi e se ne tornano dietro al bancone. Più in là, un tipo con la faccia da becchino ha assistito a tutta la scena. Ci squadra dalla testa ai piedi ma basta che alzo gli occhi verso di lui che subito trova qualcosa di meglio a cui interessarsi.
“Questo posto si sta guastando,” dice, rivolto al tipo che beve birra scadente insieme a lui.
“Dicevo: c’è questo vampiro che è uno che all’inizio non gliene frega niente, no? Cioè, lui beve il sangue di queste ragazze – perché è un vampiro rigorosamente etero – e dopo che ne ha bevuto il sangue, fa a pezzi le vittime. Ci sei?”
Nel frattempo, il ballerino è già tornato indietro con in mano un vassoio. Mette giù i bicchieri di plastica con dentro il rum e la pera.
“Calici di cristallo” gli faccio, ma quello fa finta di niente.
“No, aspetta, aspetta, perché fa a pezzi i corpi?”
“Semplice, per depistare le indagini. Non vuole che si sappia che c’è un vampiro in giro. Così pensano tutti che si tratti di un serial killer. Uno svitato, magari, ma niente di paranormale.”
“Mi pare giusto.”
“Allora spunta fuori questo investigatore della polizia, che poi in realtà è un’investigatrice. Una con le palle, che intuisce subito che c’è qualcosa di strano in questa storia. Infatti dall’autopsia si capisce che i corpi dilaniati erano stati precedentemente dissanguati, dico bene? Quindi comincia a sospettare che ci sia di mezzo un vampiro. Cioè, non un vampiro vero, ma un maniaco convinto di essere un vampiro. Un malato di porfiria, per esempio. Tu sai cos’è la porfiria, vero?”
“No.”
“Manco io. Però so che è una malattia che quelli che ce l’hanno non possono esporsi alla luce del sole.”
“Ah.”
“Ora questo vampiro mica è scemo, capisce subito che questa tipa qui può diventare un problema. Quindi decide che prima la fa fuori e meglio è per tutti. O quantomeno, per lui. Oltretutto una bella sucata a questa ispettrice gliela darebbe volentieri, visto che lei è una fica pazzesca, roba proprio di lusso. Allora una notte entra nella stanza di questa gnoccona, con lei che è lì che dorme, e tutto quello che deve fare è affondargli i denti nel collo… ma, quando è sul punto di morderla, capisce che non lo può fare.”
“Non lo può fare? Perché non lo può fare?”
“Perché lei è tutto quello che aveva sempre cercato.”
“Non mi starai parlando d’amore, giusto?”
“L’idea è che il vampiro… che cos’è in realtà? È uno con una sete terribile che beve di continuo senza dissetarsi mai…”
“No, porco disco. Eri partito bene. Che bisogno c’è di tirare fuori una di quelle storie zuccherose tipo “Ghost”?”
“Non sto parlando d’amore, cioè, non solo quello. È riduttivo metterla in questi termini. Perché, se tu bevi questo rum, adesso, se tu c’hai sete e bevi questo rum, non è che ti passa la sete. Devi bere acqua per farti passare la sete. E questo è proprio quello che succede al nostro vampiro. Direi anzi che questa è proprio l’essenza del vampirismo. Lui ogni notte morde qualcuna ed è come se noi che ci scopiamo tutte quelle ragazze porcone a un certo punto trovassimo quella lì che diciamo: questa non è solo una che mi trombo e basta; questa è quella che io metto la testa apposto, con cui ci invecchio. Hai capito? In pratica io c’ho questa idea che il vampiro… in realtà lui cerca qualcosa. Magari non lo sa, ma cerca qualcosa. Una piccola pace, un senso alla propria esistenza. Perché, se ci pensi bene è la morte che dà senso alle cose. Il solo motivo per cui ci precipitiamo fuori dal letto ogni mattina è perché sappiamo che dobbiamo morire, che abbiamo un tempo limitato. Magari io e te no, ma la gente va a lavorare per questo, se vuoi il mio parere. Per via della morte e di quello che si immaginano ci sia dopo la morte. Ma il vampiro, lui è già morto, eppure non lo è veramente, e non morirà mai, paletti di frassino permettendo. E lei, la poliziotta, è questo, è il senso che andava cercando, la sua piccola pace. E non può morderla perché sarebbe come se io e te ci tagliassimo il pisello. Lei è “la donna”, quella che racchiude in sé tutte le altre donne che ha già morso, tutte quelle che morderà.
È come se tu vai in America, incontri una donna e quella è l’America, tutti gli americani dentro di lei…”
“Che gran troia.”
“L’America, capisci? Tutti gli americani, tutta la storia dell’America, la cultura americana, la musica, i fast food, la Coca Cola, la finale del Superbowl, la notte degli oscar, Michael Jordan, i Red Hot, il Mississippi, il jazz, New Orlean, tutto quello che è America tutto dentro una sola persona.”
“Dev’essere bella grassa sta tipa.”
“E dunque non la uccide.”
“No.”
“Non la morde nemmeno… neanche un assaggino. Prende un fiore, glielo poggia sul cuscino e se ne va.”
“Un fiore? E dove lo prende ‘sto fiore?”
“Lei ha ricevuto dei fiori: un ammiratore o non so che cosa, ci devo ancora pensare. Ce li ha lì in camera, poggiati sul comodino.”
“Ah.”
“Poggia un fiore sul suo cuscino e se ne va. Ma poi torna la notte successiva.”
“Meno male, pensavo finisse così.”
“No, non finisce così. È che il resto lo devo ancora scrivere. Mi sono interrotto quando ho cominciato ad ascoltare i pensieri di quella ragazza che era seduta là prima che venissi tu. Quella che hai visto uscire.”
“Tu mi preoccupi.”
“Lo so che può sembrare strano, ma è andata proprio così. A un certo punto ho cominciato a fluttuare per la stanza ed era come se le distanze non esistessero più, il concetto di spazio non aveva più alcun senso e ogni cosa era allo stesso tempo vicina e lontana. Io ero piccolo piccolo, un puntino di luce o di non so che cosa, e poi è entrata questa ragazza e io fin dal primo momento che l’ho vista ho pensato che potevo sentire i suoi pensieri… ed è quello che poi è successo.”
“Tutto questo con quanti Jack Daniel’s?”
“Tre, quattro, non mi ricordo. Ma questo non c’entra. Cioè, le canne, l’alcool, servono ad aiutarti ad andare oltre il velo delle apparenze, come diceva quel tipo delle porte della percezione che me ne ha parlato una volta mia sorella.”
“Hai detto canne?”
“Si, due spini. Marijuana.”
“Da chi hai fatto la storia?”
“Quel tipo del centro, quello che lo chiamano il Merlo.”
“No, compare, quante volte te lo devo dire che se devi fare una storia devi venire da me che io c’ho gli agganci giusti. Il Merlo tu non lo conosci. Quello è un terrorista. Ti ha messo qualche porcheria nell’erba. Acidi, tipo trip o cose del genere.”
“No, che trip, io sto occhei. Sto veramente occhei.”
“Igor, tu non stai occhei. Sembri indemoniato, ti mancano solo gli occhi rivoltati verso l’interno.”
“Ma ti pare che un pusher si mette a regalarti gli acidi così, come se fossero acqua fresca?”
“Tu non hai idea di che razza di psicopatico è il Merlo. Quello non c’ha più niente di umano, è una specie di scimmia, ormai. Ha cominciato a farsi di acidi a 13 anni, c’ha il cervello completamente bollito. Facciamo così: domani gli vado a fare una visitina con certi compari miei del rione, gli spieghiamo come ci si comporta con gli amici del qui presente Roccia e ci riprendiamo i soldi indietro. Quanto gli hai dato?”
“Compare, io non voglio che pesti la gente per conto mio.”
“Occhei, allora non lo pestiamo. Gli sfascio solo un po’ la casa: due-trecento euro di danni e ce ne andiamo.”
Resto zitto, mi limito solo a scuotere la testa. Tanto con Roccia non è possibile discutere, siamo su due livelli di pensiero completamente sfasati. Lui è operativo-concreto, si è fermato allo stadio dell’homo erectus. Non capirà mai quello che c’è dentro di me.
Io sono di un’altra categoria, non ci piove, anche se a scuola non ero proprio una cima… il fatto è che sono cresciuto a stretto contatto con quella mente di mia sorella e sono stato come contaminato. Sono transgenico, come i pomodori di adesso che ci mettono la metà del tempo a maturare e sono grossi come ananas. È per via del fatto che mia sorella studiava quando io dormivo, perché era l’unico momento della giornata in cui io non stessi combinando qualche casino. Stava lì nella sua stanza che era di fianco alla mia e ripeteva tutto ad alta voce, con quelle pareti sottili che sono sicuro che tutta quella roba filosofica mi è entrata nel cervello e si è impiantata lì, come in una specie di ipnosi. Centina di anni di filosofia, migliaia di pagine di letteratura mi sono entrati nel cervello senza che io abbia mai aperto un libro.
A volte penso che è proprio brutto che io e lei non ci parliamo più. E mi dispiace, perché lei non era nemmeno male come sorella, anche se si chiudeva nella stanza col suo picciotto e facevano certi rumori che io ero costretto ad accendere lo stereo per non sentirli. Però non è che gliene faccio una colpa, anche se ai tempi mi rodeva che lei scopasse molto più di me.
E poi c’è stata quella volta del pranzo di Natale che ho proprio esagerato…
È stata tutta colpa dei parenti, secondo me, perché io li odio, e lei pure, e dunque c’era già questa situazione di scazzo iniziale e si sa che quando c’hai lo scazzo va a finire che te la prendi sempre con quelli che gli vuoi più bene.
Insomma, siamo ancora tutti lì seduti che abbiamo appena finito di mangiare e si deve liberare la tavola per giocare a tombola, che io preferirei immergere una mano nell’olio bollente, piuttosto. Siccome lo so che a casa mia c’è lo spirito del Natale al contrario, che ti piombano in casa tutti questi parenti e noi, invece di sbatterli fuori a calci, finiamo con lo scannarci l’un l’altro, tra consanguinei in senso stretto, cerco di starmene il più pacifico possibile. Mi sto fumando la mia paglia, e per evitare di prestare attenzione ai discorsi della tavolata cerco di tirarmi via un po’ di lurdìa da dietro l’orecchio. Esce fuori mia sorella dalla cucina e mi grida addosso che potrei anche alzare il culo dalla sedia e dare una mano a sparecchiare. Ora tu sai bene quanto è importante per me la sigaretta dopo mangiato. È un momento sacro, dovrebbe far parte dei diritti inalienabili dell’essere umano. Ma nonostante questo decido di evitare di fare polemiche.
“Scassaci la minchia” dico, sottovoce, mentre mi alzo e comincio a portare piatti in cucina. C’è anche da dire che è la prima volta in tutta la mia vita che faccio una cosa del genere. Ci vuole un po’ di incoraggiamento con i novizi, ti pare?
Invece mia sorella torna all’attacco che certe cose non c’è bisogno che me le dice lei, che è ora che capisco da solo che non sono il principe Harry e robe così. Io le chiedo cortesemente di non triturarmi i testicoli ma lei non ne vuole sapere di chiudere il becco. Così gli dico va bene, allora me ne torno a sedere. Ed è quello che faccio. Lei mi corre dietro tipo che sono un bambino discolo.
“Alzati subito da quella sedia e mettiti a lavorare come tutti gli altri,” che poi sono solo lei e mia madre, questi altri, perché nella mia stirpe c’è una percentuale altissima di mangiapane a tradimento. Tiene un dito puntato contro la porta della cucina.
“Vediamo se riesci a farmi alzare da questa sedia,” le rispondo.
Allora lei diventa tutta rossa e mi viene vicino a gridarmi in faccia che sono un fallito e che non combinerò mai un cazzo nella vita. Cosa che fra l’altro è vera, ma non sta bene dirlo davanti a tutto il parentato.
“E tu puoi studiare tutta la filosofia che vuoi ma resterai sempre una succhiacazzi” gli grido, io.
Poi segue questo momento che si vede che lei si sta mettendo a piangere e che è sul punto di mollarmi una boffa. Mio padre si alza dal suo posto in fondo alla tavola e sta per dire che non mi permette non so che cosa perché mollo tutti lì e me ne vado.
È da quella volta che con mia sorella non ci parliamo più.
L’altro giorno avevo cominciato a scriverle un sms; tutte le parole che ero riuscito a mettere insieme si limitavano a uno scarno “comunque ti voglio bene”. Ho guardato il display del cellulare per un minuto intero, forse due, indeciso se inviarlo o meno. Alla fine ho memorizzato il messaggio senza spedirlo, dicendomi che ci avrei pensato ancora un po’, prima di prendere una decisione. L’ho cancellato proprio ieri.
A volte penso che stiamo andando nella direzione sbagliata. Tutta la scienza, il sapere umano… ci riempiono la testa con la pubblicità di tutta una serie di prodotti inutili: il navigatore satellitare, i cellulari che parlano, la macchinetta per grattugiare il formaggio, tutte stronzate che non è niente vero che ci migliorano la vita. Ce la incasinano ancora di più, semmai. Me lo posso grattugiare anche a mano il formaggio e se sono in un posto che non so dove andare, posso sempre abbassare il finestrino e chiedere al primo che passa. Non sono queste le cose di cui abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di cose che ci migliorino come persone, come esseri umani. Dovrebbero inventare un microchip che lo impianti nel cervello e ti avverte quando stai per fare un’enorme cazzata; o, al contrario, se invece stai facendo una cosa tremendamente giusta, ti dia la forza di farla. Qualcosa tipo un bip tremendo nelle orecchie che non smette nemmeno se ti dai una martellata in testa e che continua fino a quando non hai fatto quello che dovresti fare.
Se avessi inviato quel sms magari a quest’ora mia sorella sarebbe qui, tutta contenta per i miei propositi di cominciare a vivere in modo normale e domani passerebbe da casa mia a sistemarmi la cucina e a tirare su un po’ di immondizia dal pavimento.
Però, riflettendoci bene, forse non l’ho cancellato del tutto quel messaggio, perché anche se non è più in memoria, comunque è qualcosa che ho pensato, e un pensiero, quando lo senti veramente forte dentro di te, è qualcosa che già esiste. Tutte le più grandi conquiste dell’uomo, tutte le meraviglie mai realizzate dall’essere umano, sono state prima soltanto pensieri. La Cappella Sistina, la Gioconda, la Divina Commedia, la Tour Eiffel, le sonde su Marte, la Nona Sinfonia di Beethowen, sono state all’inizio solo pensieri che poi si sono trasformati in azioni che hanno sbalordito il mondo. Per questo mi piace pensare che comunque quel messaggio è nell’aria, e prima o poi arriverà a destinazione, come il polline dei fiori a primavera.
In fin dei conti so benissimo che tra noi due è sempre stata lei quella giusta, e io quello sbagliato. Anche se i giusti tendono a diventare pesanti, talvolta.
“E poi ci sarebbe la canzone.”
Lo dico come se stessi poggiando una ciliegina gustosa su una torta meravigliosamente guarnita.
“Tu hai scritto una canzone?”
“Proprio così. La colonna sonora del film.”
“Sentiamo.” Roccia ha una faccia da “come fa uno come te ad aver scritto una canzone? Può trattarsi solo di un’immane cazzata.”
“Sei sicuro che la vuoi sentire?”
“Non sto nella pelle.”
“Va bene. Allora…” mi raschio la gola risciacquando il tutto con un sorso di whiskey.
“Comincia con un arpeggio di chitarra che fa più o meno così: nanananaa daun daun, poi sol e la minore, nannanana daun daun daun…”
“Vabbè, sentiamo le parole.”
“Ah, occhei. Si, cioè, in effetti l’arpeggio lo devo ancora perfezionare. Comunque la canzone fa così:
è di notte che ritrovo te
quella vita che nel corpo hai
se ti mordo è per sentire
che gusto hai
E poi c’è la seconda strofa che fa:
tu che dormi così piano che
così bella non ti ho vista mai
quel tuo odore così forte che
morirei
Qui passa in mi minore:
e non so cosa fai
le speranze che hai
ma qualcosa di te l’avrò
e non so che darei
per non perderti mai
ma per sempre con te sarò
Ecco, questo è un passaggio importante, perché lui si rende conto di com’è difficile amare qualcuno e restargli vicino, trattenere la persona a cui vuoi bene. Tanto più per lui che è un vampiro e per il quale amare significa sfamarsi e dunque uccidere l’oggetto del suo amore. Allo stesso tempo, però, sa che se ami davvero qualcuno non lo perdi mai del tutto, perché te lo porti dentro, e gli resti vicino comunque, aldilà delle distanze reali nel mondo fisico.
“Lo dicevo io che si finiva a parlare d’amore.”
“Poi c’è il ritornello:
e non ti sveglierò
resto tutto il tempo in silenzio
ma alla fine lo sai
la luce fa svanire ogni sogno
e non c’è pace in me
un sogno è quel che è
Poi la canzone riprende come all’inizio. C’è un assolo di chitarra e si torna in re maggiore.
È di notte che mi sembra che
La distanza che di giorno hai
Si riduce fino al punto
Che scoppierei
La tua mano sul cuscino che
Più indifesa di così non puoi
Quel sapore così dolce che
Lo berrei
E non so tu chi sei
Le paure che hai
Ma una cosa di te la so
E non so che farei
Per sorprenderti poi
Ma una notte con te l’avrò”
Poi quando sono sul punto di rientrare con il ritornello, vedo sto gruppo di coglionazzi che stanno lì ad ascoltare la mia canzone e ridono e mi battono le mani. Uno di loro fa tutte le mosse come se stesse ballando la break dance.
Non mi spreco nemmeno ad andare da loro a chiedergli cosa c’è tanto da scompisciarsi nella mia canzone. Senza nessuna fretta mi alzo in piedi, e butto giù tutto quello che rimane da bere: rum, pera, rum, pera e l’ultimo sorso di jack nel lucidissimo bicchiere di vetro, che poi è anche l’unico oggetto contundente nei paraggi. A meno che non voglia provare a trapassarli tutti e cinque lanciandogli contro la biro. Me lo passo tra una mano e l’altra, come un lanciatore di baseball prima di effettuare il suo tiro. Lo metto in controluce per osservarne i riflessi, i fasci di luce delle lampadine da 90 watt che lo investono dividendosi in una miriade di raggi minori. “Credo in te” gli dico, e lo scaglio contro il mucchio. Lo vedo infilarsi in mezzo a tante teste senza colpirne nemmeno una e andare a frantumarsi sulla parete di fronte. Mi aspettavo qualcosa di meglio, ma fa niente, del resto era solo un avvertimento. Non ho paura di loro, mi sento un leone. Posso buttarli giù tutti quanti. Ho più palle io di tutti loro messi assieme. Quelli, intanto, che erano rimasti un attimino così, diciamo sorpresi, a riflettere su quanto vicino alle loro teste fosse passato quel bicchiere, si scuotono dal loro torpore e in un secondo me li vedo arrivare tutti addosso.
Salgo sul tavolo e mollo un calcio in faccia al primo fortunato estratto. Lo vedo cadere all’indietro con uno squarcio sullo zigomo destro che con tutti i punti che gli daranno, se passa dal distributore convenzionato, come minimo ritira un lettore mp3. Poi mi lancio a volo d’angelo addosso al mucchio. Stendo un secondo stronzo atterrandogli con i gomiti su una clavicola che fa crack, come un ramo spezzato dal vento. Il terzo coglione intanto è già lì, e dio solo sa quanto vorrei riempirlo di cazzotti, dargli tutti quelli che si merita - perché questo è proprio lo stronzo che mi prendeva per il culo ballando alla Michael Jackson - e invece non lo prendo mai. All’improvviso mi sento le braccia molli, pesanti, come se vessi attraversato a nuoto il Canale di Sicilia. Mi becco due pugni in faccia che non mi fanno nemmeno tanto male, perché questo qui non è per niente un picchiatore. Gli va bene che sono zavorrato di Tennessee whiskey e porcherie varie, e mi muovo come le azioni al ralenty delle partite di Champions League. Vorrei tanto poter chiamare il time out, ritirarmi nell’angolo insieme con Roccia ed elaborare una strategia d’azione, fosse anche quella di scappare a gambe levate che, visto come si stanno mettendo le cose, non sarebbe nemmeno una pessima idea. Invece devo rassegnarmi all’idea che il massimo che posso ottenere dalla situazione è salvarmi i connotati. Non provo nemmeno più a colpire, tengo soltanto le braccia alte a pararmi il viso. Un attimo dopo sento un colpo tremendo allo sterno e vengo scaraventato all’indietro, come se qualcuno di loro avesse preso la rincorsa e mi fosse piombato addosso con una spallata sul petto. Finisco addosso a un tavolino alle mie spalle e mi ribalto all’indietro, atterrando di nuca sul pavimento. Rimango un lungo secondo con gli occhi chiusi, disteso sulle mattonelle gelide. Quando li riapro, solo un istante più tardi, mi sento confuso. Ma ho ancora abbastanza a mente la situazione da capire che fra mezzo secondo ce li avrò ancora tutti addosso e quando avranno finito di pestarmi sarò perfetto per la parte di Quasimodo nel Gobbo di Notre Dame. So bene che non ce la potrei fare mai ad alzarmi. Non da solo. Quindi resto semplicemente lì, ad aspettare che arrivino i primi calci in faccia o che qualcuno mi atterri con le ginocchia sulla bocca dello stomaco. Invece non succede niente di tutto questo. Nella mia confusione mentale mi accorgo che le grida si stanno placando. Uno stronzo sbrigativo mi afferra per il bavero della camicia e mi aiuta con modi piuttosto spicci a riguadagnare la posizione eretta.
Roccia è lì, di fianco a me, un zinzino strapazzato, magari, ma non molto altro, segno che ne ha date più di quante ne ha prese. Del resto è quello che ci si aspetta da un tipo come lui.
“Ora ho capito chi siete voi due,” fa il trippone, “lavorate per Vattiata.”
“Modestamente,” fa Roccia.
Io non credo che siamo nella posizione adatta per spacconare, anche perché sto tipo ci ha riconosciuti e Vattiata non è tanto uno che raccoglie consensi ovunque vada. Tutt’altro. È un mistero che il vecchiaccio non sia ancora finito incaprettato.
Comunque Roccia non c’ha torto, perché in certe cose ci vuole coerenza e se parti alla grande allora devi anche finire alla grande.
“In persona,” replico, ostentando una sicurezza da strafatto.
Però sto pensando che non vorrei averci grane con gli ometti blu. E scassare la minchia ai puffi di notte, significa averci grane. L’ho imparato quando ero ancora un pischello quindicenne, una notte che ci siamo messi a sfidarci coi motorini a chi sapeva appagnare meglio. Facevamo un casino tra il rombo dei motori e qualche oca giuliva che starnazzava ai bordi della strada. Così, un vecchiaccio arrapacchiato che si era già affacciato un paio di volte dal balcone minacciandoci di scendere con il bastone da passeggio, ha pensato bene di chiamare gli sbirri. Arriva una volante e scendono sti due puffi che cominciano a spagasiare nel loro modo che fanno sempre, soprattutto se c’hanno di fronte pischelli minorenni. Uno di loro, con i pollici nel cinturone, minaccia di portarci dentro per disturbo della quiete dei vecchiacci lordi del quartiere, o all’incirca una cosa del genere.
Sto picciotto che era affianco a me, che non conoscevo più di tanto, gli salta in testa di fare il duro.
“Che cazzo fai tu?” dice, rivolto al primo sbirro.
Il fatto è che c’erano ste due o tre pischellette e ci tenevamo tutti a fare la figura dei cazzuti, visto che fino a quel momento avevamo spaccato alla grande a tenere gli scooter sopra una ruota.
“No, veramente. Spiegami che cazzo fai tu, perché non l’ho capito bene.”
Sto sbirro qui, questo dei pollici nel cinturone, che si sente tutto Poncherello, gli si avvicina e gli molla una boffa che gli fa girare la testa dall’altra parte.
Io ci resto di merda, che proprio non me l’aspettavo.
Il pulotto mi guarda e fa: “tu hai qualcosa da dire?”
Io gli rispondo no, no, ma quello continua:
“Come? Non ho sentito bene.”
“No, niente da dire. Anzi, scusateci se vi abbiamo fatto venire fino a qui a quest’ora… cioè, abbiamo capito che abbiamo sbagliato…” rispondo io, paraculo al massimo. Ma quella volta c’ho proprio avuto la merda in culo, soprattutto dopo, che ci hanno portato in questura e ci hanno tenuti lì fino a quando non sono venuti i nostri genitori a recuperarci
Ora è diverso. Non è che c’ho paura che uno sbirro mi molla uno schiaffo, figuriamoci, manco se viene Grande Puffo in persona, ma di sicuro non voglio averci cacata la minchia.
Ma per fortuna il Trippone è in serata pacifica.
“Per rispetto al mio amico Vattiata la chiudiamo qua. Pagate le consumazioni e lavatevi di torno. E qua dentro non ci mettete più piede.”
Resto sorpreso, è la prima volta che quel vecchio depravato mi toglie dai casini. Di solito i casini me li procura, lui.
Usciamo fuori, l’aria fresca mi pizzica il viso. Sembra tutto troppo bello, troppo più bello di come me l’aspettavo. Ci casca addosso questo cielo stellato che non finisce più.
Arriviamo alle macchine e dal locale cominciano a giungerci le note di un pezzo reggae.
“Hanno messo la musica,” gli faccio a Roccia. “Proprio ora che siamo andati via.”
Quello manco mi dà retta.
“Ce la fai a guidare o ti devo accompagnare a casa?”
“No, aspetta. Non possiamo andare via proprio adesso. Senti qua… Africa Unite.”
Faccio un attimo di silenzio, quanto basta perché Roccia si renda conto di cosa sto parlando.
“Dobbiamo tornare là dentro.”
“Vaffanculo tu e Africa Unite. Abbiamo fatto tanto di quel bordello che la metà bastava. Adesso saliamo in macchina, io sulla mia e tu sulla tua, e ci allacciamo.”
No, porco zio, non dovete farmi questi discorsi quando mi sento così, in sintonia con il grande silenzio dell’universo e tutto il resto.
“No, compare, non farmi questo, ti dico non farmi questo. Non lo vedi che è tutto come dovrebbe essere, tutto così armonico e calibrato e in perfetto equilibrio?…”
Mi metto a ballare in mezzo alla strada, nel mio consueto modo scomposto e tribale. È tutto come dovrebbe essere e io posso annullare la mia mente ed essere soltanto una perfetta scimmia del terzo millennio.
“Sembri un orango,” fa Roccia.
“Non c’entra un cazzo, compare,” comincio a girare su me stesso, come facevo da bambino nel giardino dei nonni, che continuavo a ruotare e ruotare fino al punto che perdevo l’equilibrio e davo il culo per terra. “Non c’entra niente questo discorso, perché questa sera si balla come dico io. Quella gente ci ha riconosciuti. Loro sono niente, un budino informe, mentre io sono una celebrità e posso volare sopra le loro teste e ascoltare i pensieri di Melissa che è andata via e…”
Mi fermo all’improvviso, la faccia rivolta verso l’auto di Roccia. Sembra quasi che la sto osservando, ma in realtà non vedo nulla. Ora è tutto il contrario, è come se io fossi il fottuto asse terrestre e il mondo mi ruotasse attorno.
Sento Roccia dire qualcosa, ma non c’è più contemporaneità tra il momento in cui percepisco il suono della sua voce e quello in cui capisco quello che dice.
“Compare, tutto occhei?”
In effetti non è proprio tutto occhei, ma non faccio in tempo a dirglielo perché un attimo dopo rovescio tutto quello che avevo ingerito contro il finestrino anteriore destro della sua fiammante Uno Turbo.
Lo sento inveire conto di me, ma ho ben altro a cui pensare in questo momento.
L’universo continua a girare e non ha nessuna intenzione di fermarsi. Anzi, sembra quasi che acceleri. Devo reggermi a qualcosa, perché da un momento all’altro la forza centrifuga mi scaraventerà fuori dal cerchio. Piego le ginocchia e allungo le mani verso il basso alla ricerca di un punto di appoggio. Il contatto con l’asfalto è rassicurante, dice terra. Mi seggo, ma ho la sensazione di essere ancora troppo elevato rispetto al terreno per poter mantenere l’equilibrio. Così mi sdraio completamente sull’asfalto umido e chiudo gli occhi.
Roccia non fa che gridare. C’è sempre quella discrepanza tra la percezione e la decodifica del messaggio.
“Che cazzo fai, compare. Qui passano macchine.”
Mi lascio andare. Quello che dice Roccia non ha più senso. Roccia stesso non ha più senso. Il mondo nella sua interezza, e quello che sta accadendo, insieme a quello che è successo prima, o ieri, o 10 anni fa, e tutto quello che accadrà in futuro non hanno più senso. Niente ne ha più. C’è solo il grande nulla dell’universo, proprio addosso a me, con la sua vastità impressionante, e allo stesso tempo affascinante, e quello che c’è ora dentro di me non è altro che l’immagine speculare di quello che c’è fuori, fino all’ultimo remotissimo angolo del cosmo.
Quando riapro gli occhi sono in quella scatoletta di tonno che è la macchina di Roccia. Ci stiamo muovendo. Lui con la sua classica faccia incidentata: le cicatrici di acne sulle guance, gli incisivi superiori scheggiati appoggiati al labbro inferiore e quella lingua che sembra troppo grossa per appartenere alla sua bocca. Sta fissando la strada. Ha messo su un pezzo di un qualche tascissimo cantante neo-melodico.
“Per piacere,” dico, allungando una mano sofferente verso l’autoradio. Lui capisce e la spegne.
Mi volto a guardare il finestrino alla mia destra.
Indico la striscia giallastra sul vetro.
“Hai visto com’è andato tutto giù?”
Roccia mi lancia un’occhiata sbrigativa.
“Secondo te perché?”
“Cosa perché?”
“Perché tutto va verso il basso?”
“Non è vero. Per esempio la mia minchia va verso l’alto.”
“Dico sul serio. Non ti sei mai chiesto perché?”
“Che bisogno c’è di chiederselo. È la forza di gravità, lo sanno pure i nuzzenti.”
“Si, ma cos’è veramente la forza di gravità? E perché esiste?”
“Ho cambiato idea: domani vado dal Merlo e lo scanno. Vediamo se deve mettere l’LSD pure nel cappuccino e poi i cazzi sono miei.”
“Lascia stare il Merlo. Quello che dico io è che non sappiamo niente di com’è veramente l’universo e del perché è stato creato così com’è. La luce, per esempio: che cos’è veramente? E cosa sono i colori? Sono una proprietà dell’oggetto che osserviamo o solo il nostro modo di percepire l’oggetto? Magari gli extraterrestri percepiscono i colori in un modo tutto diverso rispetto a noi umani. Vedono più sfumature, o forse vedono colori che per noi non esistono.”
“A momenti ti butto giù dalla macchina.”
“Ma come cazzo fai a non farti mai domande? Minchia, mi sembra di parlare con un australopiteco.”
“Vedi tu come ti sei ridotto a furia di farti domande.”
Vorrei dirgli ancora che secondo me la forza di gravità è Dio e ogni cosa va verso di Lui. Allora c’è un poco di Dio sotto la terra, in modo che tutte le cose ci restino attaccate, e un poco di Dio proprio al centro del sole, così che i pianeti possano girarci attorno e ancora una grossa fetta di Dio al centro della Via Lattea e poi al centro dell’universo e tutto quello che esiste si muove verso Dio.
Il giorno dopo è arrivato spietato e in madornale anticipo, come sempre. Sono fermo alla fermata dell’autobus. Mi sono svegliato verso mezzogiorno e mezza, che per me è piuttosto prestino. Ho messo su questi occhiali scuri a goccia, con le lenti che, investite dalla luce del sole, si scuriscono e assumono colorazioni tra l’azzurro e il violetto. Abbastanza spacchiusi, per essere roba da marocchini. La luce del sole è troppo violenta a quest’ora del mattino, e poi devo coprire quest’occhio nero che una di quelle mezzeseghe è riuscito a farmi la notte scorsa.
Odio camminare. L’avevo detto a Roccia che potevo benissimo tornarmene a casa con la mia fottuta carrozza… o forse no, non glielo avevo detto. Certo è che sono in pieno scazzo. Non ho avuto nemmeno il tempo di prendermi un cappuccino e di dare un’occhiata alla Gazzetta dello Sport. Posso solo starmene qui, storto come la Torre di Pisa, appoggiato alla pensilina e incapace di formulare un qualsiasi pensiero, anche elementare. Dopo tutta la filosofia della notte prima…
La mia mente si limita a registrare i dati provenienti dal mondo circostante: vecchia con la cesta della spesa, Clio verde ferma ai bordi della strada, culo tondo di pischella diciottenne in jeans diesel e cintura in pelle nera…
All’improvviso, però, nella mia mente cominciano a prendere forma pensieri di senso compiuto che, vista l’ora e i postumi della sbronza rimediata la notte precedente, è piuttosto improbabile che siano miei:
“Neanche una telefonata per scusarsi del pacco che mi ha rifilato ieri sera. Come si permette di trattarmi così? Appena lo rivedo gli mollo un calcio nelle palle. Così, senza neanche preavviso. Glielo dovevo staccare a morsi quando ne ho avuto la possibilità. Mollusco schifoso.
Tutta colpa di quello stronzo di mio padre. Se mi avesse voluto almeno un po’di bene non sarei così insicura con gli uomini. Come si fa a sentirsi fighe quando l’uomo più importante della tua vita, quello che è sangue del tuo sangue, e dovrebbe volerti più bene dei suoi stessi occhi, ti abbandona prima ancora che tu riesca a dirgli una sola volta papà?
Non ce la faccio più ad andare avanti così. Questa vita è sempre la stessa, non c’è mai niente di bello. E io ho già quasi 26 anni. Fra un po’ dovrò cominciare a preoccuparmi di diventare vecchia. Non voglio trasformarmi in una zitella acida come la zia Antonietta. Dio, che orrore la vita! Perché proprio io devo rimanere da sola? Che cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Io voglio avere dei figli. Due: un maschio e una femmina… e una casa con un enorme giardino pieno di fiori di ogni colore, con un uomo che apre la porta e mi bacia sulle labbra tutti i santi giorni, fino a novant’anni… e un cane e le ferie nel mese di luglio, caricare le valigie sulla station vagon e cantare per la strada le canzoni di Lorenzo. Solo questo. Voglio solo questo. Chiedo troppo, forse? Sono qui mi sentite? Dove siete? Qualcuno mi dica che sono bella… vi prego…”
Mi volto ed è lei, Melissa, in piedi alle mie spalle, i capelli lisci fino alle scapole e quella specie di luce triste negli occhi. Mi piace la sua aria imbronciata, anche se mi manca la versione sorridente, per poter fare un paragone.
Faccio un passo verso di lei.
“Te lo dico io.”
Si guarda intorno per assicurarsi che sto parlando proprio con lei.
“Cosa?”
“Che sei bella.”
L’autobus si ferma ai bordi della strada. Le porte si aprono verso l’interno con il loro soffio di aria compressa.
Melissa spalanca gli occhi enormi, che a guardarli sembra assurdo che esistano davvero. Si sta chiedendo come faccio a saperlo. Apre la bocca prima di sapere che cosa dire.
“Gr… grazie.”
Le sorrido.
“È il mio,” dice, guardando spaesata alle mie spalle l’autobus già pronto a ripartire.
La vedo infilarsi in quella scatola arancione e sparire in mezzo a tutte le altre teste inutili.
Guardo l’autobus che si allontana e alzo una mano in alto per mandarle un saluto, anche se non la vedo più, anche se non so se lei mi sta osservando, e mi sento felice, mentre lo faccio, ma non so perché.
Caro Curzio, mi scuserai se non mi soffermo tanto sulle tue tristezze, ma lo sai che non sono stato programmato per certe cose, tipo dire “mi dispiace”, o “che ci vuoi fare, è la vita”. A pensarci bene non sono stato programmato per un casino di altre cose, ma qui il discorso si farebbe troppo lungo.
Voglio, invece, raccontarti di certe situazioni allucinanti che mi sono capitate negli ultimi giorni, che se non ne parlo a qualcuno divento pazzo. Certo, ci sarebbe Roccia nei paraggi, ma quando dico “qualcuno” intendo qualcuno con almeno dieci neuroni nella scatola cranica. Tu dovresti capirmi, con quel lavoro della banana che fai, hai un sacco di tempo per leggere libri e acculturarti, con tutto quello che ne consegue in termini di paranoie e seghe mentali. Dai retta a me, ogni tanto impasticcati, nemmeno pensare troppo è granché salutare per il cervello.
Hai presente quando la mente si apre e cominci a vedere tutto sotto una luce nuova, diversa, e cose che una volta ti sembravano normali assumono significati più profondi e… ma forse è meglio che ti racconti come sono andate le cose, che magari capisci meglio cosa intendo dire.
Di sicuro ti ricorderai di certi miei progetti, tipo mettere la testa apposto e darmi al sacro fuoco dell’arte. Due propositi del tutto contrapposti, detti così, in rapida sequenza, ma non è che bisogna per forza essere coerenti, giusto?
Come ben sai, sono idee che mi frullano nella testa ormai da un po’ di tempo, ma in genere c’è sempre un periodo di fermentazione tra il proposito e la realizzazione dello stesso. Almeno, nel mio caso.
L’altro ieri ho deciso che era arrivato il momento di farci qualcosa con tutte quelle idee schizzate che mi vengono in testa quando sono schiffarato. E tu sai che mi capita spesso di esserlo.
Per farlo avevo bisogno di un posto adatto, un posto che mi mettesse in contatto con il mio centro creativo e cose così. Non potevo restarmene semplicemente a casa, lì tutto grida a gran voce “fottitene!” Quell’appartamento è il tempio del nulla, l’anarchia totale eretta su quattro mura, la porta chiusa in faccia al mondo. Ogni attività anche solo marginalmente lavorativa, stride con lo spirito del luogo. Nemmeno l’idea di andare a fare il topo di biblioteca, mi attirava tanto. Aspiravo a qualcosa di più bohemien, o come cavolo si dice. Non so se rendo l’idea.
Così sono finito in un posto che mi sono sempre guardato bene dal frequentare, un buco maleodorante con la scritta bar all’ingresso. Non volevo correre il rischio di incontrare facce conosciute. A parte Roccia, ovviamente, che comunque è implicato nel progetto.
Mi accuccio in un tavolino stretto in un angolo fra due pareti giallastre e tutto quello che so è che sto parlando di un vampiro. Sul momento mi sembra un’idea perfetta, le femmine vanno pazze per i morsi sul collo. Un morso, non è altro che un bacio più forte, del resto.
Mi si affollano nella mente tutti questi ricordi della scuola, il mio diario che girava tra certe conigliette quindicenni grafomani che 9 volte su 10 scrivevano stronzate del tipo “Ivy super the best” o “Igor tvtb” ma che avevano sempre quell’amica cervellona che ti tirava fuori una qualche citazione di quelle veramente toste, di gente con il nome che molto spesso finiva in “osky”. Stralci di poesie maledette e cose così. E pazienza se tutte le volte mi innamoravo della traccia sul terreno, dell’orma lasciata sulla neve fresca e poi mi accorgevo che tanta poesia proveniva da una qualche mocciosetta occhialuta e senza tette, con una coltivazione di brufoli a guarnirgli la faccia. Pazienza, perché tanto a quel tempo di scopare se ne parlava comunque poco e niente. Almeno rimediavo una stronzata intelligente da copiare sul muro del bagno, quando mi ci chiudevo per fumare e mi ritrovavo con una penna in tasca e la sensazione che tutto il senso della vita fosse racchiuso nella possibilità di imbrattare l’intonaco. Cioè, non in quello che scrivevo, ma proprio nell’atto dello scrivere. Se poi era anche una cosa intelligente tanto meglio. Altrimenti anche “viva la fica” non era male come soluzione.
Era come travasare del liquido da un bottiglia a un’altra, e in quel liquido c’era parte di me. Era lasciare una traccia.
L’atto stesso dello scrivere, dunque, non il contenuto, non la spiegazione dell’atto stesso contavano, anche perché il senso di tutto quello che faccio ancora adesso continua a sfuggirmi. È sempre stato così per me, fin dai tempi in cui scagliavo oggetti giù dal seggiolone per scoprire gli effetti delle mie azioni sul mondo.
Penso che viviamo solo per questo, per lasciare una traccia. Ci portiamo sempre dietro questa angoscia di morte e ci illudiamo che le nostre azioni serviranno a sopravvivere al dopo, quando saremo solo carne marcia che si stacca dall’osso, fetido banchetto per i vermi. Il sogno dell’eternità, ecco cos’è che ci frega. Con un odore più forte e un olfatto più sopraffino non avremmo bisogno di tutto questo. Dovremmo essere come segugi, che sentono l’odore rimasto anche dopo giorni, e sono in grado di seguirne le tracce. È per questo che i cani non hanno mai imparato a scrivere.
Le frasi sul diario, dunque, è lì che è nata questa storia: “All’origine del bacio c’è l’istinto a mordere”.
Dal giorno in cui una pischella brufolosa ha scritto queste parole sui miei fogli, la concatenazione degli eventi si è messa in moto e mi ha portato fino a qui, in questo bar da sfigati, con una penna in mano e un taccuino poggiato sul tavolo.
Eccomi, dunque, ad aspettare la mia musa e a ordinare Jack Daniel’s a raffica. Sto spalancando le porte della percezione, come ha detto anche Jim Morrison e un mucchio di altri geniacci sballati che hanno fatto i quattrini in questo modo.
Al momento però ci sono solo io e il vampiro appollaiato a testa in giù sul lampadario nella sua versione compatta di pipistrello dagli occhi rossi che brillano nel buio. Ed è tutto quello che so, a parte la canzone, che l’altra volta l’ho anche fatta sentire a una che di lì a poco ci dovevo girare delle scene di ficco e che ha sgranato gli occhi tanto così, come se fossi un dannato genio, al punto che un po’ mi ha fatto pena, perché dopo mi è venuta come l’impressione che lei non fosse la tipa adatta a valutare la mia opera. Cioè, troppo capra intellettualmente parlando (e non solo), che qualsiasi cosa le sarebbe sembrata una creazione stupenda. Ho cominciato a pensare che forse non era granché come canzone e che avrei dovuto farla sentire a qualcun altro. Solo per averci un parere in più. C’è di buono che dopo la tipa si è fatta sbattere con un certo gusto, con tanto di gemiti e mugolii che lo vedevi che non stava recitando. Io c’ho l’occhio per queste cose. E, sai com’è, sono le piccole soddisfazioni che ti ripagano dei sacrifici che fai.
“Capo, un altro jack.”
Non mi ricordo quando è stata l’ultima volta che mi sono spasciato fino a questo punto. Ci ho messo dentro anche un paio di cannoni, prima di uscire di casa, roba di lusso, ganja allo stato puro. Ci sono momenti che entro in questa bolla di sapone e fluttuo nell’aria, sopra le teste di tutti. Forse divento anche piccolo piccolo, perché non sono lontano da loro, eppure li vedo distanti, un metro e mezzo sotto di me che diventano decine di metri. Parlano piano, veramente pianissimo. Tutti loro credono che io sia ancora seduto a quel tavolo con una penna in mano.
Entra questa ragazza e si siede, come me, da sola, in un angolo appartato del locale. Anche lei è una scrittrice, anche se ancora non lo sa. Si vede benissimo che ha una storia dentro, e prima o poi la tirerà fuori. Posso sapere tutto di lei, entrare nella sua mente e ascoltare quello che pensa.
“Lo sapevo che dovevo dirgli di no. A una ragazza come me non dai un appuntamento così, in un posto qualunque in mezzo alla strada. La vai a prendere a casa, una come me, con la macchina. Una bella macchina, anche. La vai a prendere a casa e se piove ti fai trovare davanti alla porta con l’ombrello aperto. Mi suoni al citofono e io ti dico che sto scendendo, ma tanto già lo sai che ti farò aspettare ancora qualche minutino. Così ci puoi fantasticare sopra nella tua testolina perversa di maschio porco. Ti immagini che sono ancora chiusa in bagno a sciacquarmi la fighetta, in modo che sia tutta bella fresca e profumata nel caso decidessi di dartela. Solo a pensarci l’idea ti fa un certo effetto. Ti infili una mano nella tasca per tastarti il pisellone. Invece io sono davanti allo specchio, già pronta da un po’ e devo solo decidere che va tutto bene così, l’insieme delle cose che… tipo il rossetto, questo rosso fuoco che mi fa una gran bocca da troia… non è che non bisogna mai sembrare troie, dopotutto è quello che i maschi vogliono da noi, quello che sperano che tu sia. L’importante è veicolare il messaggio nel modo giusto. Veicolare… complimenti Meli, da quando hai queste frequentazioni acculturate il tuo vocabolario è molto più raffinato. L’importante è veicolare il messaggio nel modo giusto, dicevo. Qualcosa del tipo: c’è una seria possibilità che io possa essere una troia stasera, con te. Potrei anche decidere di lasciarti l’impronta delle mie labbra attorno al cazzo, avvolgendotelo dolcemente, per farlo scomparire tutto nella mia bocca… però bisogna anche che non sia tutto scontato. È per questo che alla fine ho deciso di mettere su questo cappellino e di legare i capelli dietro la nuca. Perché è necessario che questi uomini capiscano la complessità che c’è dentro ognuna di noi, quante donne ci sono tutte dentro la stessa donna… e dunque posso essere anche dolce, se voglio, frivola e sbarazzina, all’occorrenza, puttana o principessa… ma c’è differenza poi? Guarda quella là, per esempio, quella di Monaco: da quanti si sarà fatta scopare una così? Se lo facessi io, nel giro di un mese non ci sarebbe più nessuno disposto a mettersi con me. Sarei per tutti soltanto “quella troia di Melissa”. Tutti i maschi più sfigati di Trapani mi inviterebbero soltanto per portarmi al Ronciglio e svuotarsi le palle sul sedile posteriore della loro sfigatissima Punto bianca. Non sono cose che può fare una come me, una ragazza qualunque, senza titoli nobiliari e frequentazioni altolocate. Ho una reputazione, io. Anche se adesso mi sento proprio una gran vacca a farmela con questo qui che pare mio padre. Lascia la moglie a casa per sbattersi le fresca 25enne rimediata in biblioteca. Mannaggia a me e quando gli ho permesso di parlarmi di filosofia. È lì che mi ha fregato. Soprattutto quando ha usato la parola “edonismo”. Ho pensato: uno che usa termini così non può essere un bastardo figlio di sua mamma. Nessuno di tutti quei bonazzi che mi sono fatta nella mia ultima vacanza a Formantera ha mai usato quella parola lì. O forse io non parlo abbastanza bene lo spagnolo. Per una volta che volevo fare la ragazza matura… “Qual è il muscolo più sensuale in un uomo? Il cervello.” Devo smetterla di leggere questi stupidi periodici per casalinghe annoiate. Senza tutte queste cavolate non mi ritroverei adesso in questo schifosissimo bar come un’amante da quattro soldi.
Aspetto ancora 5 minuti e me ne vado. Così impara, lo stronzo. Anzi fra 5 minuti cancello il suo numero dalla rubrica e fra 10 minuti me ne vado. 10 minuti a partire da adesso. A proposito, devo telefonare a Laura. La troietta a quest’ora sarà gia a casa a vedersi “Desperate huose wife” insieme a mamma e paparino. Fa la brava bambina, lei. La sera non esce mai. Tanto ha tutto il pomeriggio a disposizione per fare la porca con il suo ragazzo. È stata lei a dirmi che la vagina è come i piedi, bisogna farli respirare. Secondo lei dovremmo andare sempre in giro senza mutande... dice che così fa sempre un buon odore. O almeno un odore che piace ai maschi.
Guarda quello là. Che cavolo fa con quella penna e quel taccuino davanti? Saranno 10 minuti che fissa quella parete. Forse è il caso di avvertirlo che la televisione l’hanno spostata. La vedi quella scatola nera lì in alto a destra? Quello lì è tutto di fuori. Come minimo ha calato. Roba forte, però, allucinogeni o schifezze del genere. Chissà che film sta vedendo dentro la sua testa. E ordina un altro whisckey, pure. A momenti finisce a vomitare sotto il tavolo. Che sfigato! Da uno del genere non mi fare toccare nemmeno con una canna da pesca… Magari si è ridotto così perché la sua tipa l’ha mollato. Bè, direi che la ragazza ha fatto bene: sei un perdente nato, amico. E se invece fosse un giornalista? Starà scrivendo un articolo sulla fauna giovanile della zona. Bel posticino, complimenti per la scelta. Naaa, come reporter non vali un cicca. Potrebbe essere un pittore e fra poco si alzerà e verrà qui. Se mi vede si alza e viene qui, così gli tiro addosso il portatovaglioli in ceramica. A meno che non sia una artista davvero, in quel caso… potrebbe chiedermi di posare nuda per lui, come Leonardo Di Caprio a Kate Winslet nel film Titanic. Solo che questo qui non c’ha nemmeno le sopracciglia di Di Caprio. No, non è un artista. Se lo fosse si sarebbe già accorto di me. Sono troppo bella. Sono davvero bellissima. Me lo dicono tutti… tutti tranne quelli da cui vorrei sentirmelo dire, per essere schifosamente sincera. Che tristezza!… “l’amore è dare qualcosa che non si ha a qualcuno che non lo vuole”… Devo smetterla con queste frasi fatte. Non capisco perché continuino a venirmi in testa. Non hai più 15 anni, Meli, sei una donna, ormai. Occhei, adesso basta. Mi sono stufata di aspettare ancora. Ora esco da quella porta e giuro su Dio che lo stronzo non mi vede più.
Lo sapevo che andava a finire così. Non è giusto. Tutti dovrebbero avere diritto a un minimo sindacale di amore. Non solo quelle che vanno in giro senza mutande.
Forse dovrei rifarmi il seno..”
Come nel peggiore dei mondi possibili, dalla stessa porta in cui esce Melissa, nello stesso istante compare Roccia. Si volta a guardarla finché lei sparisce dalla sua vista. Poi si accorge di me in fondo al locale e viene a sedersi al tavolo.
“L’hai vista quella?” esordisce, “gran belle bocce.”
“Si chiama Melissa.”
“Perché la conosci? Era qui con te?”
“Lascia stare, è un discorso lungo.”
Lancia un’occhiata al mio taccuino.
“Che sono sti gerogglifici?”
“È il mio film.”
Rimane in silenzio, anche se questa non è proprio l’espressione esatta per spiegare quello che fa. Perché lui è uno che non resta mai in silenzio, nemmeno quando sta zitto. Ha tutto un corredo di facce e cose che fa con la bocca e con gli occhi, che capisci che sta dicendo qualcosa, anche se non userà le parole.
“Ricordi i nostri discorsi sull’arte?”
Alza gli occhi verso di me, poi li ruota tutto intorno sbuffando scazzato.
“Compare non ricominciare con la solita storia del giorno in cui non potremo più permetterci di vivere soltanto abbagnando il biscotto.”
Per un attimo resto sorpreso dalla sua reazione. Eppure non sono proprio sorpreso, perché Roccia è uno che parla sempre a cazzo, solo per dar fiato alla bocca. Si esalta per qualsiasi cosa e costruisce castelli in aria che tu pensi che è bello che finalmente abbiamo trovato qualcosa che ci entusiasma tutti e due, ma poi il giorno dopo non gliene frega più niente. Perché non è il progetto che lo entusiasma, è il parlare. Dopo il ficco parlare è la cosa che gli piace di più.
“Minchia, sei una cosa allucinante.”
“No, tu sei una cosa allucinante.”
“No, tu lo sei.”
Andiamo avanti per un po’ ripetendoci solo questa frase, puntandoci contro gli indici ingialliti dal fumo, con le unghia nere come se fossimo andati a rovistare nella melma per recuperare un po’ di trimulina.
Poi si istaura questo silenzio greve che c’è sempre tutte le volte che finiamo di discutere, quando restiamo a corto di cose da dirci ma non vogliamo abbandonare l’idea che l’altro è un coglione.
“Occhei, sentiamo sta porcata,” dice lui, girato verso il banco, intento ad attirare l’attenzione di qualcuno al bar.
“È una storia di vampiri,” dico, consapevole che non si deve mai parlare di qualcosa a cui tieni a qualcuno a cui non gliene frega un cazzo di quello che stai per dire. Il fatto è che non ho nessun altro a cui parlarne, se mi gioco anche la possibilità di dirlo allo stronzone mi tocca pagare uno psicanalista a 100 euro l’ora per sentirmi dire che come sceneggiatore non valgo una mazza e che ho un “complesso di Edipo” non risolto. Insomma, odio doverlo ammettere, ma il cazzone è tutto il mio mondo in questo momento.
“Una storia di vampiri che succhiano il sangue…”
“Ecco, questa sì che è una novità.”
Il tipo del bar nel frattempo ha deciso di darci conto e si presenta al tavolo con un falare legato alla vita. Si impianta davanti a noi con le mani sui fianchi che sembra un’anfora greco-romana.
L’esordio non è dei più accoglienti: “Allora?”
“Che si beve in un posto come questo?” domanda Roccia alzando il mento verso di me.
“In un posto di merda come questo, intendi?”
Il trippone si irrigidisce, toglie le mani dai fianchi con se dovesse estrarre una colt il più in fretta possibile. Forse si credeva di dirigere un hotel a cinque stelle.
“Non so tu, ma per quanto mi riguarda, finito sto jack, ci metto sopra un paio di rum e pera, giusto per carburare.”
“Direi che rum e pera è adatto a mandare giù anche uno schifo di posto come questo,” mi appoggia, Roccia.
L’altro barista orecchia la situazione un po’ trubbula e viene in raddoppio a Ciccio Pasticcio.
Come posso spiegarti che tipo e quest’altro?... c’hai presente quei film americani che c’è uno belloccio, che balla bene e che mena tutti? Ecco, una cosa del genere, compresa la banana in testa anni ’50. Ma in quanto a menare, io starei molto attento se fossi in lui.
“Tutto apposto qua?” Fa il ballerino.
“Di canna,” gli risponde Roccia. “Portaci due rum e pera, va…”
“Due a testa, ovviamente,” specifico.
Restano lì un secondo in più del dovuto, quel tanto che basta a voler sembrare minacciosi. Roba del tipo “stai molto attento, gringo” ma si vede lontano un chilometro che non c’hanno abbastanza le palle. Figurati se due come noi possiamo sentirci minacciati da gente così.
Quando pare a loro girano i tacchi e se ne tornano dietro al bancone. Più in là, un tipo con la faccia da becchino ha assistito a tutta la scena. Ci squadra dalla testa ai piedi ma basta che alzo gli occhi verso di lui che subito trova qualcosa di meglio a cui interessarsi.
“Questo posto si sta guastando,” dice, rivolto al tipo che beve birra scadente insieme a lui.
“Dicevo: c’è questo vampiro che è uno che all’inizio non gliene frega niente, no? Cioè, lui beve il sangue di queste ragazze – perché è un vampiro rigorosamente etero – e dopo che ne ha bevuto il sangue, fa a pezzi le vittime. Ci sei?”
Nel frattempo, il ballerino è già tornato indietro con in mano un vassoio. Mette giù i bicchieri di plastica con dentro il rum e la pera.
“Calici di cristallo” gli faccio, ma quello fa finta di niente.
“No, aspetta, aspetta, perché fa a pezzi i corpi?”
“Semplice, per depistare le indagini. Non vuole che si sappia che c’è un vampiro in giro. Così pensano tutti che si tratti di un serial killer. Uno svitato, magari, ma niente di paranormale.”
“Mi pare giusto.”
“Allora spunta fuori questo investigatore della polizia, che poi in realtà è un’investigatrice. Una con le palle, che intuisce subito che c’è qualcosa di strano in questa storia. Infatti dall’autopsia si capisce che i corpi dilaniati erano stati precedentemente dissanguati, dico bene? Quindi comincia a sospettare che ci sia di mezzo un vampiro. Cioè, non un vampiro vero, ma un maniaco convinto di essere un vampiro. Un malato di porfiria, per esempio. Tu sai cos’è la porfiria, vero?”
“No.”
“Manco io. Però so che è una malattia che quelli che ce l’hanno non possono esporsi alla luce del sole.”
“Ah.”
“Ora questo vampiro mica è scemo, capisce subito che questa tipa qui può diventare un problema. Quindi decide che prima la fa fuori e meglio è per tutti. O quantomeno, per lui. Oltretutto una bella sucata a questa ispettrice gliela darebbe volentieri, visto che lei è una fica pazzesca, roba proprio di lusso. Allora una notte entra nella stanza di questa gnoccona, con lei che è lì che dorme, e tutto quello che deve fare è affondargli i denti nel collo… ma, quando è sul punto di morderla, capisce che non lo può fare.”
“Non lo può fare? Perché non lo può fare?”
“Perché lei è tutto quello che aveva sempre cercato.”
“Non mi starai parlando d’amore, giusto?”
“L’idea è che il vampiro… che cos’è in realtà? È uno con una sete terribile che beve di continuo senza dissetarsi mai…”
“No, porco disco. Eri partito bene. Che bisogno c’è di tirare fuori una di quelle storie zuccherose tipo “Ghost”?”
“Non sto parlando d’amore, cioè, non solo quello. È riduttivo metterla in questi termini. Perché, se tu bevi questo rum, adesso, se tu c’hai sete e bevi questo rum, non è che ti passa la sete. Devi bere acqua per farti passare la sete. E questo è proprio quello che succede al nostro vampiro. Direi anzi che questa è proprio l’essenza del vampirismo. Lui ogni notte morde qualcuna ed è come se noi che ci scopiamo tutte quelle ragazze porcone a un certo punto trovassimo quella lì che diciamo: questa non è solo una che mi trombo e basta; questa è quella che io metto la testa apposto, con cui ci invecchio. Hai capito? In pratica io c’ho questa idea che il vampiro… in realtà lui cerca qualcosa. Magari non lo sa, ma cerca qualcosa. Una piccola pace, un senso alla propria esistenza. Perché, se ci pensi bene è la morte che dà senso alle cose. Il solo motivo per cui ci precipitiamo fuori dal letto ogni mattina è perché sappiamo che dobbiamo morire, che abbiamo un tempo limitato. Magari io e te no, ma la gente va a lavorare per questo, se vuoi il mio parere. Per via della morte e di quello che si immaginano ci sia dopo la morte. Ma il vampiro, lui è già morto, eppure non lo è veramente, e non morirà mai, paletti di frassino permettendo. E lei, la poliziotta, è questo, è il senso che andava cercando, la sua piccola pace. E non può morderla perché sarebbe come se io e te ci tagliassimo il pisello. Lei è “la donna”, quella che racchiude in sé tutte le altre donne che ha già morso, tutte quelle che morderà.
È come se tu vai in America, incontri una donna e quella è l’America, tutti gli americani dentro di lei…”
“Che gran troia.”
“L’America, capisci? Tutti gli americani, tutta la storia dell’America, la cultura americana, la musica, i fast food, la Coca Cola, la finale del Superbowl, la notte degli oscar, Michael Jordan, i Red Hot, il Mississippi, il jazz, New Orlean, tutto quello che è America tutto dentro una sola persona.”
“Dev’essere bella grassa sta tipa.”
“E dunque non la uccide.”
“No.”
“Non la morde nemmeno… neanche un assaggino. Prende un fiore, glielo poggia sul cuscino e se ne va.”
“Un fiore? E dove lo prende ‘sto fiore?”
“Lei ha ricevuto dei fiori: un ammiratore o non so che cosa, ci devo ancora pensare. Ce li ha lì in camera, poggiati sul comodino.”
“Ah.”
“Poggia un fiore sul suo cuscino e se ne va. Ma poi torna la notte successiva.”
“Meno male, pensavo finisse così.”
“No, non finisce così. È che il resto lo devo ancora scrivere. Mi sono interrotto quando ho cominciato ad ascoltare i pensieri di quella ragazza che era seduta là prima che venissi tu. Quella che hai visto uscire.”
“Tu mi preoccupi.”
“Lo so che può sembrare strano, ma è andata proprio così. A un certo punto ho cominciato a fluttuare per la stanza ed era come se le distanze non esistessero più, il concetto di spazio non aveva più alcun senso e ogni cosa era allo stesso tempo vicina e lontana. Io ero piccolo piccolo, un puntino di luce o di non so che cosa, e poi è entrata questa ragazza e io fin dal primo momento che l’ho vista ho pensato che potevo sentire i suoi pensieri… ed è quello che poi è successo.”
“Tutto questo con quanti Jack Daniel’s?”
“Tre, quattro, non mi ricordo. Ma questo non c’entra. Cioè, le canne, l’alcool, servono ad aiutarti ad andare oltre il velo delle apparenze, come diceva quel tipo delle porte della percezione che me ne ha parlato una volta mia sorella.”
“Hai detto canne?”
“Si, due spini. Marijuana.”
“Da chi hai fatto la storia?”
“Quel tipo del centro, quello che lo chiamano il Merlo.”
“No, compare, quante volte te lo devo dire che se devi fare una storia devi venire da me che io c’ho gli agganci giusti. Il Merlo tu non lo conosci. Quello è un terrorista. Ti ha messo qualche porcheria nell’erba. Acidi, tipo trip o cose del genere.”
“No, che trip, io sto occhei. Sto veramente occhei.”
“Igor, tu non stai occhei. Sembri indemoniato, ti mancano solo gli occhi rivoltati verso l’interno.”
“Ma ti pare che un pusher si mette a regalarti gli acidi così, come se fossero acqua fresca?”
“Tu non hai idea di che razza di psicopatico è il Merlo. Quello non c’ha più niente di umano, è una specie di scimmia, ormai. Ha cominciato a farsi di acidi a 13 anni, c’ha il cervello completamente bollito. Facciamo così: domani gli vado a fare una visitina con certi compari miei del rione, gli spieghiamo come ci si comporta con gli amici del qui presente Roccia e ci riprendiamo i soldi indietro. Quanto gli hai dato?”
“Compare, io non voglio che pesti la gente per conto mio.”
“Occhei, allora non lo pestiamo. Gli sfascio solo un po’ la casa: due-trecento euro di danni e ce ne andiamo.”
Resto zitto, mi limito solo a scuotere la testa. Tanto con Roccia non è possibile discutere, siamo su due livelli di pensiero completamente sfasati. Lui è operativo-concreto, si è fermato allo stadio dell’homo erectus. Non capirà mai quello che c’è dentro di me.
Io sono di un’altra categoria, non ci piove, anche se a scuola non ero proprio una cima… il fatto è che sono cresciuto a stretto contatto con quella mente di mia sorella e sono stato come contaminato. Sono transgenico, come i pomodori di adesso che ci mettono la metà del tempo a maturare e sono grossi come ananas. È per via del fatto che mia sorella studiava quando io dormivo, perché era l’unico momento della giornata in cui io non stessi combinando qualche casino. Stava lì nella sua stanza che era di fianco alla mia e ripeteva tutto ad alta voce, con quelle pareti sottili che sono sicuro che tutta quella roba filosofica mi è entrata nel cervello e si è impiantata lì, come in una specie di ipnosi. Centina di anni di filosofia, migliaia di pagine di letteratura mi sono entrati nel cervello senza che io abbia mai aperto un libro.
A volte penso che è proprio brutto che io e lei non ci parliamo più. E mi dispiace, perché lei non era nemmeno male come sorella, anche se si chiudeva nella stanza col suo picciotto e facevano certi rumori che io ero costretto ad accendere lo stereo per non sentirli. Però non è che gliene faccio una colpa, anche se ai tempi mi rodeva che lei scopasse molto più di me.
E poi c’è stata quella volta del pranzo di Natale che ho proprio esagerato…
È stata tutta colpa dei parenti, secondo me, perché io li odio, e lei pure, e dunque c’era già questa situazione di scazzo iniziale e si sa che quando c’hai lo scazzo va a finire che te la prendi sempre con quelli che gli vuoi più bene.
Insomma, siamo ancora tutti lì seduti che abbiamo appena finito di mangiare e si deve liberare la tavola per giocare a tombola, che io preferirei immergere una mano nell’olio bollente, piuttosto. Siccome lo so che a casa mia c’è lo spirito del Natale al contrario, che ti piombano in casa tutti questi parenti e noi, invece di sbatterli fuori a calci, finiamo con lo scannarci l’un l’altro, tra consanguinei in senso stretto, cerco di starmene il più pacifico possibile. Mi sto fumando la mia paglia, e per evitare di prestare attenzione ai discorsi della tavolata cerco di tirarmi via un po’ di lurdìa da dietro l’orecchio. Esce fuori mia sorella dalla cucina e mi grida addosso che potrei anche alzare il culo dalla sedia e dare una mano a sparecchiare. Ora tu sai bene quanto è importante per me la sigaretta dopo mangiato. È un momento sacro, dovrebbe far parte dei diritti inalienabili dell’essere umano. Ma nonostante questo decido di evitare di fare polemiche.
“Scassaci la minchia” dico, sottovoce, mentre mi alzo e comincio a portare piatti in cucina. C’è anche da dire che è la prima volta in tutta la mia vita che faccio una cosa del genere. Ci vuole un po’ di incoraggiamento con i novizi, ti pare?
Invece mia sorella torna all’attacco che certe cose non c’è bisogno che me le dice lei, che è ora che capisco da solo che non sono il principe Harry e robe così. Io le chiedo cortesemente di non triturarmi i testicoli ma lei non ne vuole sapere di chiudere il becco. Così gli dico va bene, allora me ne torno a sedere. Ed è quello che faccio. Lei mi corre dietro tipo che sono un bambino discolo.
“Alzati subito da quella sedia e mettiti a lavorare come tutti gli altri,” che poi sono solo lei e mia madre, questi altri, perché nella mia stirpe c’è una percentuale altissima di mangiapane a tradimento. Tiene un dito puntato contro la porta della cucina.
“Vediamo se riesci a farmi alzare da questa sedia,” le rispondo.
Allora lei diventa tutta rossa e mi viene vicino a gridarmi in faccia che sono un fallito e che non combinerò mai un cazzo nella vita. Cosa che fra l’altro è vera, ma non sta bene dirlo davanti a tutto il parentato.
“E tu puoi studiare tutta la filosofia che vuoi ma resterai sempre una succhiacazzi” gli grido, io.
Poi segue questo momento che si vede che lei si sta mettendo a piangere e che è sul punto di mollarmi una boffa. Mio padre si alza dal suo posto in fondo alla tavola e sta per dire che non mi permette non so che cosa perché mollo tutti lì e me ne vado.
È da quella volta che con mia sorella non ci parliamo più.
L’altro giorno avevo cominciato a scriverle un sms; tutte le parole che ero riuscito a mettere insieme si limitavano a uno scarno “comunque ti voglio bene”. Ho guardato il display del cellulare per un minuto intero, forse due, indeciso se inviarlo o meno. Alla fine ho memorizzato il messaggio senza spedirlo, dicendomi che ci avrei pensato ancora un po’, prima di prendere una decisione. L’ho cancellato proprio ieri.
A volte penso che stiamo andando nella direzione sbagliata. Tutta la scienza, il sapere umano… ci riempiono la testa con la pubblicità di tutta una serie di prodotti inutili: il navigatore satellitare, i cellulari che parlano, la macchinetta per grattugiare il formaggio, tutte stronzate che non è niente vero che ci migliorano la vita. Ce la incasinano ancora di più, semmai. Me lo posso grattugiare anche a mano il formaggio e se sono in un posto che non so dove andare, posso sempre abbassare il finestrino e chiedere al primo che passa. Non sono queste le cose di cui abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di cose che ci migliorino come persone, come esseri umani. Dovrebbero inventare un microchip che lo impianti nel cervello e ti avverte quando stai per fare un’enorme cazzata; o, al contrario, se invece stai facendo una cosa tremendamente giusta, ti dia la forza di farla. Qualcosa tipo un bip tremendo nelle orecchie che non smette nemmeno se ti dai una martellata in testa e che continua fino a quando non hai fatto quello che dovresti fare.
Se avessi inviato quel sms magari a quest’ora mia sorella sarebbe qui, tutta contenta per i miei propositi di cominciare a vivere in modo normale e domani passerebbe da casa mia a sistemarmi la cucina e a tirare su un po’ di immondizia dal pavimento.
Però, riflettendoci bene, forse non l’ho cancellato del tutto quel messaggio, perché anche se non è più in memoria, comunque è qualcosa che ho pensato, e un pensiero, quando lo senti veramente forte dentro di te, è qualcosa che già esiste. Tutte le più grandi conquiste dell’uomo, tutte le meraviglie mai realizzate dall’essere umano, sono state prima soltanto pensieri. La Cappella Sistina, la Gioconda, la Divina Commedia, la Tour Eiffel, le sonde su Marte, la Nona Sinfonia di Beethowen, sono state all’inizio solo pensieri che poi si sono trasformati in azioni che hanno sbalordito il mondo. Per questo mi piace pensare che comunque quel messaggio è nell’aria, e prima o poi arriverà a destinazione, come il polline dei fiori a primavera.
In fin dei conti so benissimo che tra noi due è sempre stata lei quella giusta, e io quello sbagliato. Anche se i giusti tendono a diventare pesanti, talvolta.
“E poi ci sarebbe la canzone.”
Lo dico come se stessi poggiando una ciliegina gustosa su una torta meravigliosamente guarnita.
“Tu hai scritto una canzone?”
“Proprio così. La colonna sonora del film.”
“Sentiamo.” Roccia ha una faccia da “come fa uno come te ad aver scritto una canzone? Può trattarsi solo di un’immane cazzata.”
“Sei sicuro che la vuoi sentire?”
“Non sto nella pelle.”
“Va bene. Allora…” mi raschio la gola risciacquando il tutto con un sorso di whiskey.
“Comincia con un arpeggio di chitarra che fa più o meno così: nanananaa daun daun, poi sol e la minore, nannanana daun daun daun…”
“Vabbè, sentiamo le parole.”
“Ah, occhei. Si, cioè, in effetti l’arpeggio lo devo ancora perfezionare. Comunque la canzone fa così:
è di notte che ritrovo te
quella vita che nel corpo hai
se ti mordo è per sentire
che gusto hai
E poi c’è la seconda strofa che fa:
tu che dormi così piano che
così bella non ti ho vista mai
quel tuo odore così forte che
morirei
Qui passa in mi minore:
e non so cosa fai
le speranze che hai
ma qualcosa di te l’avrò
e non so che darei
per non perderti mai
ma per sempre con te sarò
Ecco, questo è un passaggio importante, perché lui si rende conto di com’è difficile amare qualcuno e restargli vicino, trattenere la persona a cui vuoi bene. Tanto più per lui che è un vampiro e per il quale amare significa sfamarsi e dunque uccidere l’oggetto del suo amore. Allo stesso tempo, però, sa che se ami davvero qualcuno non lo perdi mai del tutto, perché te lo porti dentro, e gli resti vicino comunque, aldilà delle distanze reali nel mondo fisico.
“Lo dicevo io che si finiva a parlare d’amore.”
“Poi c’è il ritornello:
e non ti sveglierò
resto tutto il tempo in silenzio
ma alla fine lo sai
la luce fa svanire ogni sogno
e non c’è pace in me
un sogno è quel che è
Poi la canzone riprende come all’inizio. C’è un assolo di chitarra e si torna in re maggiore.
È di notte che mi sembra che
La distanza che di giorno hai
Si riduce fino al punto
Che scoppierei
La tua mano sul cuscino che
Più indifesa di così non puoi
Quel sapore così dolce che
Lo berrei
E non so tu chi sei
Le paure che hai
Ma una cosa di te la so
E non so che farei
Per sorprenderti poi
Ma una notte con te l’avrò”
Poi quando sono sul punto di rientrare con il ritornello, vedo sto gruppo di coglionazzi che stanno lì ad ascoltare la mia canzone e ridono e mi battono le mani. Uno di loro fa tutte le mosse come se stesse ballando la break dance.
Non mi spreco nemmeno ad andare da loro a chiedergli cosa c’è tanto da scompisciarsi nella mia canzone. Senza nessuna fretta mi alzo in piedi, e butto giù tutto quello che rimane da bere: rum, pera, rum, pera e l’ultimo sorso di jack nel lucidissimo bicchiere di vetro, che poi è anche l’unico oggetto contundente nei paraggi. A meno che non voglia provare a trapassarli tutti e cinque lanciandogli contro la biro. Me lo passo tra una mano e l’altra, come un lanciatore di baseball prima di effettuare il suo tiro. Lo metto in controluce per osservarne i riflessi, i fasci di luce delle lampadine da 90 watt che lo investono dividendosi in una miriade di raggi minori. “Credo in te” gli dico, e lo scaglio contro il mucchio. Lo vedo infilarsi in mezzo a tante teste senza colpirne nemmeno una e andare a frantumarsi sulla parete di fronte. Mi aspettavo qualcosa di meglio, ma fa niente, del resto era solo un avvertimento. Non ho paura di loro, mi sento un leone. Posso buttarli giù tutti quanti. Ho più palle io di tutti loro messi assieme. Quelli, intanto, che erano rimasti un attimino così, diciamo sorpresi, a riflettere su quanto vicino alle loro teste fosse passato quel bicchiere, si scuotono dal loro torpore e in un secondo me li vedo arrivare tutti addosso.
Salgo sul tavolo e mollo un calcio in faccia al primo fortunato estratto. Lo vedo cadere all’indietro con uno squarcio sullo zigomo destro che con tutti i punti che gli daranno, se passa dal distributore convenzionato, come minimo ritira un lettore mp3. Poi mi lancio a volo d’angelo addosso al mucchio. Stendo un secondo stronzo atterrandogli con i gomiti su una clavicola che fa crack, come un ramo spezzato dal vento. Il terzo coglione intanto è già lì, e dio solo sa quanto vorrei riempirlo di cazzotti, dargli tutti quelli che si merita - perché questo è proprio lo stronzo che mi prendeva per il culo ballando alla Michael Jackson - e invece non lo prendo mai. All’improvviso mi sento le braccia molli, pesanti, come se vessi attraversato a nuoto il Canale di Sicilia. Mi becco due pugni in faccia che non mi fanno nemmeno tanto male, perché questo qui non è per niente un picchiatore. Gli va bene che sono zavorrato di Tennessee whiskey e porcherie varie, e mi muovo come le azioni al ralenty delle partite di Champions League. Vorrei tanto poter chiamare il time out, ritirarmi nell’angolo insieme con Roccia ed elaborare una strategia d’azione, fosse anche quella di scappare a gambe levate che, visto come si stanno mettendo le cose, non sarebbe nemmeno una pessima idea. Invece devo rassegnarmi all’idea che il massimo che posso ottenere dalla situazione è salvarmi i connotati. Non provo nemmeno più a colpire, tengo soltanto le braccia alte a pararmi il viso. Un attimo dopo sento un colpo tremendo allo sterno e vengo scaraventato all’indietro, come se qualcuno di loro avesse preso la rincorsa e mi fosse piombato addosso con una spallata sul petto. Finisco addosso a un tavolino alle mie spalle e mi ribalto all’indietro, atterrando di nuca sul pavimento. Rimango un lungo secondo con gli occhi chiusi, disteso sulle mattonelle gelide. Quando li riapro, solo un istante più tardi, mi sento confuso. Ma ho ancora abbastanza a mente la situazione da capire che fra mezzo secondo ce li avrò ancora tutti addosso e quando avranno finito di pestarmi sarò perfetto per la parte di Quasimodo nel Gobbo di Notre Dame. So bene che non ce la potrei fare mai ad alzarmi. Non da solo. Quindi resto semplicemente lì, ad aspettare che arrivino i primi calci in faccia o che qualcuno mi atterri con le ginocchia sulla bocca dello stomaco. Invece non succede niente di tutto questo. Nella mia confusione mentale mi accorgo che le grida si stanno placando. Uno stronzo sbrigativo mi afferra per il bavero della camicia e mi aiuta con modi piuttosto spicci a riguadagnare la posizione eretta.
Roccia è lì, di fianco a me, un zinzino strapazzato, magari, ma non molto altro, segno che ne ha date più di quante ne ha prese. Del resto è quello che ci si aspetta da un tipo come lui.
“Ora ho capito chi siete voi due,” fa il trippone, “lavorate per Vattiata.”
“Modestamente,” fa Roccia.
Io non credo che siamo nella posizione adatta per spacconare, anche perché sto tipo ci ha riconosciuti e Vattiata non è tanto uno che raccoglie consensi ovunque vada. Tutt’altro. È un mistero che il vecchiaccio non sia ancora finito incaprettato.
Comunque Roccia non c’ha torto, perché in certe cose ci vuole coerenza e se parti alla grande allora devi anche finire alla grande.
“In persona,” replico, ostentando una sicurezza da strafatto.
Però sto pensando che non vorrei averci grane con gli ometti blu. E scassare la minchia ai puffi di notte, significa averci grane. L’ho imparato quando ero ancora un pischello quindicenne, una notte che ci siamo messi a sfidarci coi motorini a chi sapeva appagnare meglio. Facevamo un casino tra il rombo dei motori e qualche oca giuliva che starnazzava ai bordi della strada. Così, un vecchiaccio arrapacchiato che si era già affacciato un paio di volte dal balcone minacciandoci di scendere con il bastone da passeggio, ha pensato bene di chiamare gli sbirri. Arriva una volante e scendono sti due puffi che cominciano a spagasiare nel loro modo che fanno sempre, soprattutto se c’hanno di fronte pischelli minorenni. Uno di loro, con i pollici nel cinturone, minaccia di portarci dentro per disturbo della quiete dei vecchiacci lordi del quartiere, o all’incirca una cosa del genere.
Sto picciotto che era affianco a me, che non conoscevo più di tanto, gli salta in testa di fare il duro.
“Che cazzo fai tu?” dice, rivolto al primo sbirro.
Il fatto è che c’erano ste due o tre pischellette e ci tenevamo tutti a fare la figura dei cazzuti, visto che fino a quel momento avevamo spaccato alla grande a tenere gli scooter sopra una ruota.
“No, veramente. Spiegami che cazzo fai tu, perché non l’ho capito bene.”
Sto sbirro qui, questo dei pollici nel cinturone, che si sente tutto Poncherello, gli si avvicina e gli molla una boffa che gli fa girare la testa dall’altra parte.
Io ci resto di merda, che proprio non me l’aspettavo.
Il pulotto mi guarda e fa: “tu hai qualcosa da dire?”
Io gli rispondo no, no, ma quello continua:
“Come? Non ho sentito bene.”
“No, niente da dire. Anzi, scusateci se vi abbiamo fatto venire fino a qui a quest’ora… cioè, abbiamo capito che abbiamo sbagliato…” rispondo io, paraculo al massimo. Ma quella volta c’ho proprio avuto la merda in culo, soprattutto dopo, che ci hanno portato in questura e ci hanno tenuti lì fino a quando non sono venuti i nostri genitori a recuperarci
Ora è diverso. Non è che c’ho paura che uno sbirro mi molla uno schiaffo, figuriamoci, manco se viene Grande Puffo in persona, ma di sicuro non voglio averci cacata la minchia.
Ma per fortuna il Trippone è in serata pacifica.
“Per rispetto al mio amico Vattiata la chiudiamo qua. Pagate le consumazioni e lavatevi di torno. E qua dentro non ci mettete più piede.”
Resto sorpreso, è la prima volta che quel vecchio depravato mi toglie dai casini. Di solito i casini me li procura, lui.
Usciamo fuori, l’aria fresca mi pizzica il viso. Sembra tutto troppo bello, troppo più bello di come me l’aspettavo. Ci casca addosso questo cielo stellato che non finisce più.
Arriviamo alle macchine e dal locale cominciano a giungerci le note di un pezzo reggae.
“Hanno messo la musica,” gli faccio a Roccia. “Proprio ora che siamo andati via.”
Quello manco mi dà retta.
“Ce la fai a guidare o ti devo accompagnare a casa?”
“No, aspetta. Non possiamo andare via proprio adesso. Senti qua… Africa Unite.”
Faccio un attimo di silenzio, quanto basta perché Roccia si renda conto di cosa sto parlando.
“Dobbiamo tornare là dentro.”
“Vaffanculo tu e Africa Unite. Abbiamo fatto tanto di quel bordello che la metà bastava. Adesso saliamo in macchina, io sulla mia e tu sulla tua, e ci allacciamo.”
No, porco zio, non dovete farmi questi discorsi quando mi sento così, in sintonia con il grande silenzio dell’universo e tutto il resto.
“No, compare, non farmi questo, ti dico non farmi questo. Non lo vedi che è tutto come dovrebbe essere, tutto così armonico e calibrato e in perfetto equilibrio?…”
Mi metto a ballare in mezzo alla strada, nel mio consueto modo scomposto e tribale. È tutto come dovrebbe essere e io posso annullare la mia mente ed essere soltanto una perfetta scimmia del terzo millennio.
“Sembri un orango,” fa Roccia.
“Non c’entra un cazzo, compare,” comincio a girare su me stesso, come facevo da bambino nel giardino dei nonni, che continuavo a ruotare e ruotare fino al punto che perdevo l’equilibrio e davo il culo per terra. “Non c’entra niente questo discorso, perché questa sera si balla come dico io. Quella gente ci ha riconosciuti. Loro sono niente, un budino informe, mentre io sono una celebrità e posso volare sopra le loro teste e ascoltare i pensieri di Melissa che è andata via e…”
Mi fermo all’improvviso, la faccia rivolta verso l’auto di Roccia. Sembra quasi che la sto osservando, ma in realtà non vedo nulla. Ora è tutto il contrario, è come se io fossi il fottuto asse terrestre e il mondo mi ruotasse attorno.
Sento Roccia dire qualcosa, ma non c’è più contemporaneità tra il momento in cui percepisco il suono della sua voce e quello in cui capisco quello che dice.
“Compare, tutto occhei?”
In effetti non è proprio tutto occhei, ma non faccio in tempo a dirglielo perché un attimo dopo rovescio tutto quello che avevo ingerito contro il finestrino anteriore destro della sua fiammante Uno Turbo.
Lo sento inveire conto di me, ma ho ben altro a cui pensare in questo momento.
L’universo continua a girare e non ha nessuna intenzione di fermarsi. Anzi, sembra quasi che acceleri. Devo reggermi a qualcosa, perché da un momento all’altro la forza centrifuga mi scaraventerà fuori dal cerchio. Piego le ginocchia e allungo le mani verso il basso alla ricerca di un punto di appoggio. Il contatto con l’asfalto è rassicurante, dice terra. Mi seggo, ma ho la sensazione di essere ancora troppo elevato rispetto al terreno per poter mantenere l’equilibrio. Così mi sdraio completamente sull’asfalto umido e chiudo gli occhi.
Roccia non fa che gridare. C’è sempre quella discrepanza tra la percezione e la decodifica del messaggio.
“Che cazzo fai, compare. Qui passano macchine.”
Mi lascio andare. Quello che dice Roccia non ha più senso. Roccia stesso non ha più senso. Il mondo nella sua interezza, e quello che sta accadendo, insieme a quello che è successo prima, o ieri, o 10 anni fa, e tutto quello che accadrà in futuro non hanno più senso. Niente ne ha più. C’è solo il grande nulla dell’universo, proprio addosso a me, con la sua vastità impressionante, e allo stesso tempo affascinante, e quello che c’è ora dentro di me non è altro che l’immagine speculare di quello che c’è fuori, fino all’ultimo remotissimo angolo del cosmo.
Quando riapro gli occhi sono in quella scatoletta di tonno che è la macchina di Roccia. Ci stiamo muovendo. Lui con la sua classica faccia incidentata: le cicatrici di acne sulle guance, gli incisivi superiori scheggiati appoggiati al labbro inferiore e quella lingua che sembra troppo grossa per appartenere alla sua bocca. Sta fissando la strada. Ha messo su un pezzo di un qualche tascissimo cantante neo-melodico.
“Per piacere,” dico, allungando una mano sofferente verso l’autoradio. Lui capisce e la spegne.
Mi volto a guardare il finestrino alla mia destra.
Indico la striscia giallastra sul vetro.
“Hai visto com’è andato tutto giù?”
Roccia mi lancia un’occhiata sbrigativa.
“Secondo te perché?”
“Cosa perché?”
“Perché tutto va verso il basso?”
“Non è vero. Per esempio la mia minchia va verso l’alto.”
“Dico sul serio. Non ti sei mai chiesto perché?”
“Che bisogno c’è di chiederselo. È la forza di gravità, lo sanno pure i nuzzenti.”
“Si, ma cos’è veramente la forza di gravità? E perché esiste?”
“Ho cambiato idea: domani vado dal Merlo e lo scanno. Vediamo se deve mettere l’LSD pure nel cappuccino e poi i cazzi sono miei.”
“Lascia stare il Merlo. Quello che dico io è che non sappiamo niente di com’è veramente l’universo e del perché è stato creato così com’è. La luce, per esempio: che cos’è veramente? E cosa sono i colori? Sono una proprietà dell’oggetto che osserviamo o solo il nostro modo di percepire l’oggetto? Magari gli extraterrestri percepiscono i colori in un modo tutto diverso rispetto a noi umani. Vedono più sfumature, o forse vedono colori che per noi non esistono.”
“A momenti ti butto giù dalla macchina.”
“Ma come cazzo fai a non farti mai domande? Minchia, mi sembra di parlare con un australopiteco.”
“Vedi tu come ti sei ridotto a furia di farti domande.”
Vorrei dirgli ancora che secondo me la forza di gravità è Dio e ogni cosa va verso di Lui. Allora c’è un poco di Dio sotto la terra, in modo che tutte le cose ci restino attaccate, e un poco di Dio proprio al centro del sole, così che i pianeti possano girarci attorno e ancora una grossa fetta di Dio al centro della Via Lattea e poi al centro dell’universo e tutto quello che esiste si muove verso Dio.
Il giorno dopo è arrivato spietato e in madornale anticipo, come sempre. Sono fermo alla fermata dell’autobus. Mi sono svegliato verso mezzogiorno e mezza, che per me è piuttosto prestino. Ho messo su questi occhiali scuri a goccia, con le lenti che, investite dalla luce del sole, si scuriscono e assumono colorazioni tra l’azzurro e il violetto. Abbastanza spacchiusi, per essere roba da marocchini. La luce del sole è troppo violenta a quest’ora del mattino, e poi devo coprire quest’occhio nero che una di quelle mezzeseghe è riuscito a farmi la notte scorsa.
Odio camminare. L’avevo detto a Roccia che potevo benissimo tornarmene a casa con la mia fottuta carrozza… o forse no, non glielo avevo detto. Certo è che sono in pieno scazzo. Non ho avuto nemmeno il tempo di prendermi un cappuccino e di dare un’occhiata alla Gazzetta dello Sport. Posso solo starmene qui, storto come la Torre di Pisa, appoggiato alla pensilina e incapace di formulare un qualsiasi pensiero, anche elementare. Dopo tutta la filosofia della notte prima…
La mia mente si limita a registrare i dati provenienti dal mondo circostante: vecchia con la cesta della spesa, Clio verde ferma ai bordi della strada, culo tondo di pischella diciottenne in jeans diesel e cintura in pelle nera…
All’improvviso, però, nella mia mente cominciano a prendere forma pensieri di senso compiuto che, vista l’ora e i postumi della sbronza rimediata la notte precedente, è piuttosto improbabile che siano miei:
“Neanche una telefonata per scusarsi del pacco che mi ha rifilato ieri sera. Come si permette di trattarmi così? Appena lo rivedo gli mollo un calcio nelle palle. Così, senza neanche preavviso. Glielo dovevo staccare a morsi quando ne ho avuto la possibilità. Mollusco schifoso.
Tutta colpa di quello stronzo di mio padre. Se mi avesse voluto almeno un po’di bene non sarei così insicura con gli uomini. Come si fa a sentirsi fighe quando l’uomo più importante della tua vita, quello che è sangue del tuo sangue, e dovrebbe volerti più bene dei suoi stessi occhi, ti abbandona prima ancora che tu riesca a dirgli una sola volta papà?
Non ce la faccio più ad andare avanti così. Questa vita è sempre la stessa, non c’è mai niente di bello. E io ho già quasi 26 anni. Fra un po’ dovrò cominciare a preoccuparmi di diventare vecchia. Non voglio trasformarmi in una zitella acida come la zia Antonietta. Dio, che orrore la vita! Perché proprio io devo rimanere da sola? Che cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Io voglio avere dei figli. Due: un maschio e una femmina… e una casa con un enorme giardino pieno di fiori di ogni colore, con un uomo che apre la porta e mi bacia sulle labbra tutti i santi giorni, fino a novant’anni… e un cane e le ferie nel mese di luglio, caricare le valigie sulla station vagon e cantare per la strada le canzoni di Lorenzo. Solo questo. Voglio solo questo. Chiedo troppo, forse? Sono qui mi sentite? Dove siete? Qualcuno mi dica che sono bella… vi prego…”
Mi volto ed è lei, Melissa, in piedi alle mie spalle, i capelli lisci fino alle scapole e quella specie di luce triste negli occhi. Mi piace la sua aria imbronciata, anche se mi manca la versione sorridente, per poter fare un paragone.
Faccio un passo verso di lei.
“Te lo dico io.”
Si guarda intorno per assicurarsi che sto parlando proprio con lei.
“Cosa?”
“Che sei bella.”
L’autobus si ferma ai bordi della strada. Le porte si aprono verso l’interno con il loro soffio di aria compressa.
Melissa spalanca gli occhi enormi, che a guardarli sembra assurdo che esistano davvero. Si sta chiedendo come faccio a saperlo. Apre la bocca prima di sapere che cosa dire.
“Gr… grazie.”
Le sorrido.
“È il mio,” dice, guardando spaesata alle mie spalle l’autobus già pronto a ripartire.
La vedo infilarsi in quella scatola arancione e sparire in mezzo a tutte le altre teste inutili.
Guardo l’autobus che si allontana e alzo una mano in alto per mandarle un saluto, anche se non la vedo più, anche se non so se lei mi sta osservando, e mi sento felice, mentre lo faccio, ma non so perché.
75 Commenti:
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