martedì, marzo 06, 2007

ascoltando i pensieri di una ragazza al bar

Questo racconto invece mi piace molto, dal momento in cui ho messo l'ultimo punto e ho detto "é finito", mi sono accorto di amarlo come un figlio. E lui si è imposto fortemente, è saltato fuori durante le ultime vacanze di Natale, mentre stavo lavorando a un altro racconto che è ancora lì che aspetta.

Qui torna Igor, uno dei due protagonisti delle "freak mail", il progetto narrativo che avevo cominciato a realizzare con il mio amico genialoide Gigi che interpreta Curzio, l'altro protagonista delle storie. Gigi sta per pubblicare un romanzo, prossimamente vi darò anche il titolo, e dunque abbiamo pensato che forse era meglio riprendere il nostro vecchio progetto. Se ci diamo una mossa (soprattutto io, visto che lui scrive molto più di me), entro giugno dovremmo avere una raccolta di racconti da presentare agli editori, e se il suo libro dovesse andare bene potremmo avere quella spinta decisiva per la pubblicazione. ma non corriamo troppo. Intanto ecco a voi il ritorno di Igor.

sopra: "maschera in blu" un dipinto di David Hunter ispirato dall'ibogaina, un allucinogeno che sembra avere effetti miracolosi per la disintossicazione da altre sostanze stupefacenti.

Ascoltando i pensieri di una ragazza al bar

Caro Curzio, mi scuserai se non mi soffermo tanto sulle tue tristezze, ma lo sai che non sono stato programmato per certe cose, tipo dire “mi dispiace”, o “che ci vuoi fare, è la vita”. A pensarci bene non sono stato programmato per un casino di altre cose, ma qui il discorso si farebbe troppo lungo.
Voglio, invece, raccontarti di certe situazioni allucinanti che mi sono capitate negli ultimi giorni, che se non ne parlo a qualcuno divento pazzo. Certo, ci sarebbe Roccia nei paraggi, ma quando dico “qualcuno” intendo qualcuno con almeno dieci neuroni nella scatola cranica. Tu dovresti capirmi, con quel lavoro della banana che fai, hai un sacco di tempo per leggere libri e acculturarti, con tutto quello che ne consegue in termini di paranoie e seghe mentali. Dai retta a me, ogni tanto impasticcati, nemmeno pensare troppo è granché salutare per il cervello.
Hai presente quando la mente si apre e cominci a vedere tutto sotto una luce nuova, diversa, e cose che una volta ti sembravano normali assumono significati più profondi e… ma forse è meglio che ti racconti come sono andate le cose, che magari capisci meglio cosa intendo dire.
Di sicuro ti ricorderai di certi miei progetti, tipo mettere la testa apposto e darmi al sacro fuoco dell’arte. Due propositi del tutto contrapposti, detti così, in rapida sequenza, ma non è che bisogna per forza essere coerenti, giusto?
Come ben sai, sono idee che mi frullano nella testa ormai da un po’ di tempo, ma in genere c’è sempre un periodo di fermentazione tra il proposito e la realizzazione dello stesso. Almeno, nel mio caso.
L’altro ieri ho deciso che era arrivato il momento di farci qualcosa con tutte quelle idee schizzate che mi vengono in testa quando sono schiffarato. E tu sai che mi capita spesso di esserlo.
Per farlo avevo bisogno di un posto adatto, un posto che mi mettesse in contatto con il mio centro creativo e cose così. Non potevo restarmene semplicemente a casa, lì tutto grida a gran voce “fottitene!” Quell’appartamento è il tempio del nulla, l’anarchia totale eretta su quattro mura, la porta chiusa in faccia al mondo. Ogni attività anche solo marginalmente lavorativa, stride con lo spirito del luogo. Nemmeno l’idea di andare a fare il topo di biblioteca, mi attirava tanto. Aspiravo a qualcosa di più bohemien, o come cavolo si dice. Non so se rendo l’idea.
Così sono finito in un posto che mi sono sempre guardato bene dal frequentare, un buco maleodorante con la scritta bar all’ingresso. Non volevo correre il rischio di incontrare facce conosciute. A parte Roccia, ovviamente, che comunque è implicato nel progetto.

Mi accuccio in un tavolino stretto in un angolo fra due pareti giallastre e tutto quello che so è che sto parlando di un vampiro. Sul momento mi sembra un’idea perfetta, le femmine vanno pazze per i morsi sul collo. Un morso, non è altro che un bacio più forte, del resto.
Mi si affollano nella mente tutti questi ricordi della scuola, il mio diario che girava tra certe conigliette quindicenni grafomani che 9 volte su 10 scrivevano stronzate del tipo “Ivy super the best” o “Igor tvtb” ma che avevano sempre quell’amica cervellona che ti tirava fuori una qualche citazione di quelle veramente toste, di gente con il nome che molto spesso finiva in “osky”. Stralci di poesie maledette e cose così. E pazienza se tutte le volte mi innamoravo della traccia sul terreno, dell’orma lasciata sulla neve fresca e poi mi accorgevo che tanta poesia proveniva da una qualche mocciosetta occhialuta e senza tette, con una coltivazione di brufoli a guarnirgli la faccia. Pazienza, perché tanto a quel tempo di scopare se ne parlava comunque poco e niente. Almeno rimediavo una stronzata intelligente da copiare sul muro del bagno, quando mi ci chiudevo per fumare e mi ritrovavo con una penna in tasca e la sensazione che tutto il senso della vita fosse racchiuso nella possibilità di imbrattare l’intonaco. Cioè, non in quello che scrivevo, ma proprio nell’atto dello scrivere. Se poi era anche una cosa intelligente tanto meglio. Altrimenti anche “viva la fica” non era male come soluzione.
Era come travasare del liquido da un bottiglia a un’altra, e in quel liquido c’era parte di me. Era lasciare una traccia.
L’atto stesso dello scrivere, dunque, non il contenuto, non la spiegazione dell’atto stesso contavano, anche perché il senso di tutto quello che faccio ancora adesso continua a sfuggirmi. È sempre stato così per me, fin dai tempi in cui scagliavo oggetti giù dal seggiolone per scoprire gli effetti delle mie azioni sul mondo.
Penso che viviamo solo per questo, per lasciare una traccia. Ci portiamo sempre dietro questa angoscia di morte e ci illudiamo che le nostre azioni serviranno a sopravvivere al dopo, quando saremo solo carne marcia che si stacca dall’osso, fetido banchetto per i vermi. Il sogno dell’eternità, ecco cos’è che ci frega. Con un odore più forte e un olfatto più sopraffino non avremmo bisogno di tutto questo. Dovremmo essere come segugi, che sentono l’odore rimasto anche dopo giorni, e sono in grado di seguirne le tracce. È per questo che i cani non hanno mai imparato a scrivere.
Le frasi sul diario, dunque, è lì che è nata questa storia: “All’origine del bacio c’è l’istinto a mordere”.
Dal giorno in cui una pischella brufolosa ha scritto queste parole sui miei fogli, la concatenazione degli eventi si è messa in moto e mi ha portato fino a qui, in questo bar da sfigati, con una penna in mano e un taccuino poggiato sul tavolo.
Eccomi, dunque, ad aspettare la mia musa e a ordinare Jack Daniel’s a raffica. Sto spalancando le porte della percezione, come ha detto anche Jim Morrison e un mucchio di altri geniacci sballati che hanno fatto i quattrini in questo modo.
Al momento però ci sono solo io e il vampiro appollaiato a testa in giù sul lampadario nella sua versione compatta di pipistrello dagli occhi rossi che brillano nel buio. Ed è tutto quello che so, a parte la canzone, che l’altra volta l’ho anche fatta sentire a una che di lì a poco ci dovevo girare delle scene di ficco e che ha sgranato gli occhi tanto così, come se fossi un dannato genio, al punto che un po’ mi ha fatto pena, perché dopo mi è venuta come l’impressione che lei non fosse la tipa adatta a valutare la mia opera. Cioè, troppo capra intellettualmente parlando (e non solo), che qualsiasi cosa le sarebbe sembrata una creazione stupenda. Ho cominciato a pensare che forse non era granché come canzone e che avrei dovuto farla sentire a qualcun altro. Solo per averci un parere in più. C’è di buono che dopo la tipa si è fatta sbattere con un certo gusto, con tanto di gemiti e mugolii che lo vedevi che non stava recitando. Io c’ho l’occhio per queste cose. E, sai com’è, sono le piccole soddisfazioni che ti ripagano dei sacrifici che fai.
“Capo, un altro jack.”
Non mi ricordo quando è stata l’ultima volta che mi sono spasciato fino a questo punto. Ci ho messo dentro anche un paio di cannoni, prima di uscire di casa, roba di lusso, ganja allo stato puro. Ci sono momenti che entro in questa bolla di sapone e fluttuo nell’aria, sopra le teste di tutti. Forse divento anche piccolo piccolo, perché non sono lontano da loro, eppure li vedo distanti, un metro e mezzo sotto di me che diventano decine di metri. Parlano piano, veramente pianissimo. Tutti loro credono che io sia ancora seduto a quel tavolo con una penna in mano.
Entra questa ragazza e si siede, come me, da sola, in un angolo appartato del locale. Anche lei è una scrittrice, anche se ancora non lo sa. Si vede benissimo che ha una storia dentro, e prima o poi la tirerà fuori. Posso sapere tutto di lei, entrare nella sua mente e ascoltare quello che pensa.

“Lo sapevo che dovevo dirgli di no. A una ragazza come me non dai un appuntamento così, in un posto qualunque in mezzo alla strada. La vai a prendere a casa, una come me, con la macchina. Una bella macchina, anche. La vai a prendere a casa e se piove ti fai trovare davanti alla porta con l’ombrello aperto. Mi suoni al citofono e io ti dico che sto scendendo, ma tanto già lo sai che ti farò aspettare ancora qualche minutino. Così ci puoi fantasticare sopra nella tua testolina perversa di maschio porco. Ti immagini che sono ancora chiusa in bagno a sciacquarmi la fighetta, in modo che sia tutta bella fresca e profumata nel caso decidessi di dartela. Solo a pensarci l’idea ti fa un certo effetto. Ti infili una mano nella tasca per tastarti il pisellone. Invece io sono davanti allo specchio, già pronta da un po’ e devo solo decidere che va tutto bene così, l’insieme delle cose che… tipo il rossetto, questo rosso fuoco che mi fa una gran bocca da troia… non è che non bisogna mai sembrare troie, dopotutto è quello che i maschi vogliono da noi, quello che sperano che tu sia. L’importante è veicolare il messaggio nel modo giusto. Veicolare… complimenti Meli, da quando hai queste frequentazioni acculturate il tuo vocabolario è molto più raffinato. L’importante è veicolare il messaggio nel modo giusto, dicevo. Qualcosa del tipo: c’è una seria possibilità che io possa essere una troia stasera, con te. Potrei anche decidere di lasciarti l’impronta delle mie labbra attorno al cazzo, avvolgendotelo dolcemente, per farlo scomparire tutto nella mia bocca… però bisogna anche che non sia tutto scontato. È per questo che alla fine ho deciso di mettere su questo cappellino e di legare i capelli dietro la nuca. Perché è necessario che questi uomini capiscano la complessità che c’è dentro ognuna di noi, quante donne ci sono tutte dentro la stessa donna… e dunque posso essere anche dolce, se voglio, frivola e sbarazzina, all’occorrenza, puttana o principessa… ma c’è differenza poi? Guarda quella là, per esempio, quella di Monaco: da quanti si sarà fatta scopare una così? Se lo facessi io, nel giro di un mese non ci sarebbe più nessuno disposto a mettersi con me. Sarei per tutti soltanto “quella troia di Melissa”. Tutti i maschi più sfigati di Trapani mi inviterebbero soltanto per portarmi al Ronciglio e svuotarsi le palle sul sedile posteriore della loro sfigatissima Punto bianca. Non sono cose che può fare una come me, una ragazza qualunque, senza titoli nobiliari e frequentazioni altolocate. Ho una reputazione, io. Anche se adesso mi sento proprio una gran vacca a farmela con questo qui che pare mio padre. Lascia la moglie a casa per sbattersi le fresca 25enne rimediata in biblioteca. Mannaggia a me e quando gli ho permesso di parlarmi di filosofia. È lì che mi ha fregato. Soprattutto quando ha usato la parola “edonismo”. Ho pensato: uno che usa termini così non può essere un bastardo figlio di sua mamma. Nessuno di tutti quei bonazzi che mi sono fatta nella mia ultima vacanza a Formantera ha mai usato quella parola lì. O forse io non parlo abbastanza bene lo spagnolo. Per una volta che volevo fare la ragazza matura… “Qual è il muscolo più sensuale in un uomo? Il cervello.” Devo smetterla di leggere questi stupidi periodici per casalinghe annoiate. Senza tutte queste cavolate non mi ritroverei adesso in questo schifosissimo bar come un’amante da quattro soldi.
Aspetto ancora 5 minuti e me ne vado. Così impara, lo stronzo. Anzi fra 5 minuti cancello il suo numero dalla rubrica e fra 10 minuti me ne vado. 10 minuti a partire da adesso. A proposito, devo telefonare a Laura. La troietta a quest’ora sarà gia a casa a vedersi “Desperate huose wife” insieme a mamma e paparino. Fa la brava bambina, lei. La sera non esce mai. Tanto ha tutto il pomeriggio a disposizione per fare la porca con il suo ragazzo. È stata lei a dirmi che la vagina è come i piedi, bisogna farli respirare. Secondo lei dovremmo andare sempre in giro senza mutande... dice che così fa sempre un buon odore. O almeno un odore che piace ai maschi.
Guarda quello là. Che cavolo fa con quella penna e quel taccuino davanti? Saranno 10 minuti che fissa quella parete. Forse è il caso di avvertirlo che la televisione l’hanno spostata. La vedi quella scatola nera lì in alto a destra? Quello lì è tutto di fuori. Come minimo ha calato. Roba forte, però, allucinogeni o schifezze del genere. Chissà che film sta vedendo dentro la sua testa. E ordina un altro whisckey, pure. A momenti finisce a vomitare sotto il tavolo. Che sfigato! Da uno del genere non mi fare toccare nemmeno con una canna da pesca… Magari si è ridotto così perché la sua tipa l’ha mollato. Bè, direi che la ragazza ha fatto bene: sei un perdente nato, amico. E se invece fosse un giornalista? Starà scrivendo un articolo sulla fauna giovanile della zona. Bel posticino, complimenti per la scelta. Naaa, come reporter non vali un cicca. Potrebbe essere un pittore e fra poco si alzerà e verrà qui. Se mi vede si alza e viene qui, così gli tiro addosso il portatovaglioli in ceramica. A meno che non sia una artista davvero, in quel caso… potrebbe chiedermi di posare nuda per lui, come Leonardo Di Caprio a Kate Winslet nel film Titanic. Solo che questo qui non c’ha nemmeno le sopracciglia di Di Caprio. No, non è un artista. Se lo fosse si sarebbe già accorto di me. Sono troppo bella. Sono davvero bellissima. Me lo dicono tutti… tutti tranne quelli da cui vorrei sentirmelo dire, per essere schifosamente sincera. Che tristezza!… “l’amore è dare qualcosa che non si ha a qualcuno che non lo vuole”… Devo smetterla con queste frasi fatte. Non capisco perché continuino a venirmi in testa. Non hai più 15 anni, Meli, sei una donna, ormai. Occhei, adesso basta. Mi sono stufata di aspettare ancora. Ora esco da quella porta e giuro su Dio che lo stronzo non mi vede più.
Lo sapevo che andava a finire così. Non è giusto. Tutti dovrebbero avere diritto a un minimo sindacale di amore. Non solo quelle che vanno in giro senza mutande.
Forse dovrei rifarmi il seno..”

Come nel peggiore dei mondi possibili, dalla stessa porta in cui esce Melissa, nello stesso istante compare Roccia. Si volta a guardarla finché lei sparisce dalla sua vista. Poi si accorge di me in fondo al locale e viene a sedersi al tavolo.
“L’hai vista quella?” esordisce, “gran belle bocce.”
“Si chiama Melissa.”
“Perché la conosci? Era qui con te?”
“Lascia stare, è un discorso lungo.”
Lancia un’occhiata al mio taccuino.
“Che sono sti gerogglifici?”
“È il mio film.”
Rimane in silenzio, anche se questa non è proprio l’espressione esatta per spiegare quello che fa. Perché lui è uno che non resta mai in silenzio, nemmeno quando sta zitto. Ha tutto un corredo di facce e cose che fa con la bocca e con gli occhi, che capisci che sta dicendo qualcosa, anche se non userà le parole.
“Ricordi i nostri discorsi sull’arte?”
Alza gli occhi verso di me, poi li ruota tutto intorno sbuffando scazzato.
“Compare non ricominciare con la solita storia del giorno in cui non potremo più permetterci di vivere soltanto abbagnando il biscotto.”
Per un attimo resto sorpreso dalla sua reazione. Eppure non sono proprio sorpreso, perché Roccia è uno che parla sempre a cazzo, solo per dar fiato alla bocca. Si esalta per qualsiasi cosa e costruisce castelli in aria che tu pensi che è bello che finalmente abbiamo trovato qualcosa che ci entusiasma tutti e due, ma poi il giorno dopo non gliene frega più niente. Perché non è il progetto che lo entusiasma, è il parlare. Dopo il ficco parlare è la cosa che gli piace di più.
“Minchia, sei una cosa allucinante.”
“No, tu sei una cosa allucinante.”
“No, tu lo sei.”
Andiamo avanti per un po’ ripetendoci solo questa frase, puntandoci contro gli indici ingialliti dal fumo, con le unghia nere come se fossimo andati a rovistare nella melma per recuperare un po’ di trimulina.
Poi si istaura questo silenzio greve che c’è sempre tutte le volte che finiamo di discutere, quando restiamo a corto di cose da dirci ma non vogliamo abbandonare l’idea che l’altro è un coglione.
“Occhei, sentiamo sta porcata,” dice lui, girato verso il banco, intento ad attirare l’attenzione di qualcuno al bar.
“È una storia di vampiri,” dico, consapevole che non si deve mai parlare di qualcosa a cui tieni a qualcuno a cui non gliene frega un cazzo di quello che stai per dire. Il fatto è che non ho nessun altro a cui parlarne, se mi gioco anche la possibilità di dirlo allo stronzone mi tocca pagare uno psicanalista a 100 euro l’ora per sentirmi dire che come sceneggiatore non valgo una mazza e che ho un “complesso di Edipo” non risolto. Insomma, odio doverlo ammettere, ma il cazzone è tutto il mio mondo in questo momento.
“Una storia di vampiri che succhiano il sangue…”
“Ecco, questa sì che è una novità.”
Il tipo del bar nel frattempo ha deciso di darci conto e si presenta al tavolo con un falare legato alla vita. Si impianta davanti a noi con le mani sui fianchi che sembra un’anfora greco-romana.
L’esordio non è dei più accoglienti: “Allora?”
“Che si beve in un posto come questo?” domanda Roccia alzando il mento verso di me.
“In un posto di merda come questo, intendi?”
Il trippone si irrigidisce, toglie le mani dai fianchi con se dovesse estrarre una colt il più in fretta possibile. Forse si credeva di dirigere un hotel a cinque stelle.
“Non so tu, ma per quanto mi riguarda, finito sto jack, ci metto sopra un paio di rum e pera, giusto per carburare.”
“Direi che rum e pera è adatto a mandare giù anche uno schifo di posto come questo,” mi appoggia, Roccia.
L’altro barista orecchia la situazione un po’ trubbula e viene in raddoppio a Ciccio Pasticcio.
Come posso spiegarti che tipo e quest’altro?... c’hai presente quei film americani che c’è uno belloccio, che balla bene e che mena tutti? Ecco, una cosa del genere, compresa la banana in testa anni ’50. Ma in quanto a menare, io starei molto attento se fossi in lui.
“Tutto apposto qua?” Fa il ballerino.
“Di canna,” gli risponde Roccia. “Portaci due rum e pera, va…”
“Due a testa, ovviamente,” specifico.
Restano lì un secondo in più del dovuto, quel tanto che basta a voler sembrare minacciosi. Roba del tipo “stai molto attento, gringo” ma si vede lontano un chilometro che non c’hanno abbastanza le palle. Figurati se due come noi possiamo sentirci minacciati da gente così.
Quando pare a loro girano i tacchi e se ne tornano dietro al bancone. Più in là, un tipo con la faccia da becchino ha assistito a tutta la scena. Ci squadra dalla testa ai piedi ma basta che alzo gli occhi verso di lui che subito trova qualcosa di meglio a cui interessarsi.
“Questo posto si sta guastando,” dice, rivolto al tipo che beve birra scadente insieme a lui.
“Dicevo: c’è questo vampiro che è uno che all’inizio non gliene frega niente, no? Cioè, lui beve il sangue di queste ragazze – perché è un vampiro rigorosamente etero – e dopo che ne ha bevuto il sangue, fa a pezzi le vittime. Ci sei?”
Nel frattempo, il ballerino è già tornato indietro con in mano un vassoio. Mette giù i bicchieri di plastica con dentro il rum e la pera.
“Calici di cristallo” gli faccio, ma quello fa finta di niente.
“No, aspetta, aspetta, perché fa a pezzi i corpi?”
“Semplice, per depistare le indagini. Non vuole che si sappia che c’è un vampiro in giro. Così pensano tutti che si tratti di un serial killer. Uno svitato, magari, ma niente di paranormale.”
“Mi pare giusto.”
“Allora spunta fuori questo investigatore della polizia, che poi in realtà è un’investigatrice. Una con le palle, che intuisce subito che c’è qualcosa di strano in questa storia. Infatti dall’autopsia si capisce che i corpi dilaniati erano stati precedentemente dissanguati, dico bene? Quindi comincia a sospettare che ci sia di mezzo un vampiro. Cioè, non un vampiro vero, ma un maniaco convinto di essere un vampiro. Un malato di porfiria, per esempio. Tu sai cos’è la porfiria, vero?”
“No.”
“Manco io. Però so che è una malattia che quelli che ce l’hanno non possono esporsi alla luce del sole.”
“Ah.”
“Ora questo vampiro mica è scemo, capisce subito che questa tipa qui può diventare un problema. Quindi decide che prima la fa fuori e meglio è per tutti. O quantomeno, per lui. Oltretutto una bella sucata a questa ispettrice gliela darebbe volentieri, visto che lei è una fica pazzesca, roba proprio di lusso. Allora una notte entra nella stanza di questa gnoccona, con lei che è lì che dorme, e tutto quello che deve fare è affondargli i denti nel collo… ma, quando è sul punto di morderla, capisce che non lo può fare.”
“Non lo può fare? Perché non lo può fare?”
“Perché lei è tutto quello che aveva sempre cercato.”
“Non mi starai parlando d’amore, giusto?”
“L’idea è che il vampiro… che cos’è in realtà? È uno con una sete terribile che beve di continuo senza dissetarsi mai…”
“No, porco disco. Eri partito bene. Che bisogno c’è di tirare fuori una di quelle storie zuccherose tipo “Ghost”?”
“Non sto parlando d’amore, cioè, non solo quello. È riduttivo metterla in questi termini. Perché, se tu bevi questo rum, adesso, se tu c’hai sete e bevi questo rum, non è che ti passa la sete. Devi bere acqua per farti passare la sete. E questo è proprio quello che succede al nostro vampiro. Direi anzi che questa è proprio l’essenza del vampirismo. Lui ogni notte morde qualcuna ed è come se noi che ci scopiamo tutte quelle ragazze porcone a un certo punto trovassimo quella lì che diciamo: questa non è solo una che mi trombo e basta; questa è quella che io metto la testa apposto, con cui ci invecchio. Hai capito? In pratica io c’ho questa idea che il vampiro… in realtà lui cerca qualcosa. Magari non lo sa, ma cerca qualcosa. Una piccola pace, un senso alla propria esistenza. Perché, se ci pensi bene è la morte che dà senso alle cose. Il solo motivo per cui ci precipitiamo fuori dal letto ogni mattina è perché sappiamo che dobbiamo morire, che abbiamo un tempo limitato. Magari io e te no, ma la gente va a lavorare per questo, se vuoi il mio parere. Per via della morte e di quello che si immaginano ci sia dopo la morte. Ma il vampiro, lui è già morto, eppure non lo è veramente, e non morirà mai, paletti di frassino permettendo. E lei, la poliziotta, è questo, è il senso che andava cercando, la sua piccola pace. E non può morderla perché sarebbe come se io e te ci tagliassimo il pisello. Lei è “la donna”, quella che racchiude in sé tutte le altre donne che ha già morso, tutte quelle che morderà.
È come se tu vai in America, incontri una donna e quella è l’America, tutti gli americani dentro di lei…”
“Che gran troia.”
“L’America, capisci? Tutti gli americani, tutta la storia dell’America, la cultura americana, la musica, i fast food, la Coca Cola, la finale del Superbowl, la notte degli oscar, Michael Jordan, i Red Hot, il Mississippi, il jazz, New Orlean, tutto quello che è America tutto dentro una sola persona.”
“Dev’essere bella grassa sta tipa.”
“E dunque non la uccide.”
“No.”
“Non la morde nemmeno… neanche un assaggino. Prende un fiore, glielo poggia sul cuscino e se ne va.”
“Un fiore? E dove lo prende ‘sto fiore?”
“Lei ha ricevuto dei fiori: un ammiratore o non so che cosa, ci devo ancora pensare. Ce li ha lì in camera, poggiati sul comodino.”
“Ah.”
“Poggia un fiore sul suo cuscino e se ne va. Ma poi torna la notte successiva.”
“Meno male, pensavo finisse così.”
“No, non finisce così. È che il resto lo devo ancora scrivere. Mi sono interrotto quando ho cominciato ad ascoltare i pensieri di quella ragazza che era seduta là prima che venissi tu. Quella che hai visto uscire.”
“Tu mi preoccupi.”
“Lo so che può sembrare strano, ma è andata proprio così. A un certo punto ho cominciato a fluttuare per la stanza ed era come se le distanze non esistessero più, il concetto di spazio non aveva più alcun senso e ogni cosa era allo stesso tempo vicina e lontana. Io ero piccolo piccolo, un puntino di luce o di non so che cosa, e poi è entrata questa ragazza e io fin dal primo momento che l’ho vista ho pensato che potevo sentire i suoi pensieri… ed è quello che poi è successo.”
“Tutto questo con quanti Jack Daniel’s?”
“Tre, quattro, non mi ricordo. Ma questo non c’entra. Cioè, le canne, l’alcool, servono ad aiutarti ad andare oltre il velo delle apparenze, come diceva quel tipo delle porte della percezione che me ne ha parlato una volta mia sorella.”
“Hai detto canne?”
“Si, due spini. Marijuana.”
“Da chi hai fatto la storia?”
“Quel tipo del centro, quello che lo chiamano il Merlo.”
“No, compare, quante volte te lo devo dire che se devi fare una storia devi venire da me che io c’ho gli agganci giusti. Il Merlo tu non lo conosci. Quello è un terrorista. Ti ha messo qualche porcheria nell’erba. Acidi, tipo trip o cose del genere.”
“No, che trip, io sto occhei. Sto veramente occhei.”
“Igor, tu non stai occhei. Sembri indemoniato, ti mancano solo gli occhi rivoltati verso l’interno.”
“Ma ti pare che un pusher si mette a regalarti gli acidi così, come se fossero acqua fresca?”
“Tu non hai idea di che razza di psicopatico è il Merlo. Quello non c’ha più niente di umano, è una specie di scimmia, ormai. Ha cominciato a farsi di acidi a 13 anni, c’ha il cervello completamente bollito. Facciamo così: domani gli vado a fare una visitina con certi compari miei del rione, gli spieghiamo come ci si comporta con gli amici del qui presente Roccia e ci riprendiamo i soldi indietro. Quanto gli hai dato?”
“Compare, io non voglio che pesti la gente per conto mio.”
“Occhei, allora non lo pestiamo. Gli sfascio solo un po’ la casa: due-trecento euro di danni e ce ne andiamo.”
Resto zitto, mi limito solo a scuotere la testa. Tanto con Roccia non è possibile discutere, siamo su due livelli di pensiero completamente sfasati. Lui è operativo-concreto, si è fermato allo stadio dell’homo erectus. Non capirà mai quello che c’è dentro di me.
Io sono di un’altra categoria, non ci piove, anche se a scuola non ero proprio una cima… il fatto è che sono cresciuto a stretto contatto con quella mente di mia sorella e sono stato come contaminato. Sono transgenico, come i pomodori di adesso che ci mettono la metà del tempo a maturare e sono grossi come ananas. È per via del fatto che mia sorella studiava quando io dormivo, perché era l’unico momento della giornata in cui io non stessi combinando qualche casino. Stava lì nella sua stanza che era di fianco alla mia e ripeteva tutto ad alta voce, con quelle pareti sottili che sono sicuro che tutta quella roba filosofica mi è entrata nel cervello e si è impiantata lì, come in una specie di ipnosi. Centina di anni di filosofia, migliaia di pagine di letteratura mi sono entrati nel cervello senza che io abbia mai aperto un libro.
A volte penso che è proprio brutto che io e lei non ci parliamo più. E mi dispiace, perché lei non era nemmeno male come sorella, anche se si chiudeva nella stanza col suo picciotto e facevano certi rumori che io ero costretto ad accendere lo stereo per non sentirli. Però non è che gliene faccio una colpa, anche se ai tempi mi rodeva che lei scopasse molto più di me.
E poi c’è stata quella volta del pranzo di Natale che ho proprio esagerato…
È stata tutta colpa dei parenti, secondo me, perché io li odio, e lei pure, e dunque c’era già questa situazione di scazzo iniziale e si sa che quando c’hai lo scazzo va a finire che te la prendi sempre con quelli che gli vuoi più bene.
Insomma, siamo ancora tutti lì seduti che abbiamo appena finito di mangiare e si deve liberare la tavola per giocare a tombola, che io preferirei immergere una mano nell’olio bollente, piuttosto. Siccome lo so che a casa mia c’è lo spirito del Natale al contrario, che ti piombano in casa tutti questi parenti e noi, invece di sbatterli fuori a calci, finiamo con lo scannarci l’un l’altro, tra consanguinei in senso stretto, cerco di starmene il più pacifico possibile. Mi sto fumando la mia paglia, e per evitare di prestare attenzione ai discorsi della tavolata cerco di tirarmi via un po’ di lurdìa da dietro l’orecchio. Esce fuori mia sorella dalla cucina e mi grida addosso che potrei anche alzare il culo dalla sedia e dare una mano a sparecchiare. Ora tu sai bene quanto è importante per me la sigaretta dopo mangiato. È un momento sacro, dovrebbe far parte dei diritti inalienabili dell’essere umano. Ma nonostante questo decido di evitare di fare polemiche.
“Scassaci la minchia” dico, sottovoce, mentre mi alzo e comincio a portare piatti in cucina. C’è anche da dire che è la prima volta in tutta la mia vita che faccio una cosa del genere. Ci vuole un po’ di incoraggiamento con i novizi, ti pare?
Invece mia sorella torna all’attacco che certe cose non c’è bisogno che me le dice lei, che è ora che capisco da solo che non sono il principe Harry e robe così. Io le chiedo cortesemente di non triturarmi i testicoli ma lei non ne vuole sapere di chiudere il becco. Così gli dico va bene, allora me ne torno a sedere. Ed è quello che faccio. Lei mi corre dietro tipo che sono un bambino discolo.
“Alzati subito da quella sedia e mettiti a lavorare come tutti gli altri,” che poi sono solo lei e mia madre, questi altri, perché nella mia stirpe c’è una percentuale altissima di mangiapane a tradimento. Tiene un dito puntato contro la porta della cucina.
“Vediamo se riesci a farmi alzare da questa sedia,” le rispondo.
Allora lei diventa tutta rossa e mi viene vicino a gridarmi in faccia che sono un fallito e che non combinerò mai un cazzo nella vita. Cosa che fra l’altro è vera, ma non sta bene dirlo davanti a tutto il parentato.
“E tu puoi studiare tutta la filosofia che vuoi ma resterai sempre una succhiacazzi” gli grido, io.
Poi segue questo momento che si vede che lei si sta mettendo a piangere e che è sul punto di mollarmi una boffa. Mio padre si alza dal suo posto in fondo alla tavola e sta per dire che non mi permette non so che cosa perché mollo tutti lì e me ne vado.
È da quella volta che con mia sorella non ci parliamo più.
L’altro giorno avevo cominciato a scriverle un sms; tutte le parole che ero riuscito a mettere insieme si limitavano a uno scarno “comunque ti voglio bene”. Ho guardato il display del cellulare per un minuto intero, forse due, indeciso se inviarlo o meno. Alla fine ho memorizzato il messaggio senza spedirlo, dicendomi che ci avrei pensato ancora un po’, prima di prendere una decisione. L’ho cancellato proprio ieri.
A volte penso che stiamo andando nella direzione sbagliata. Tutta la scienza, il sapere umano… ci riempiono la testa con la pubblicità di tutta una serie di prodotti inutili: il navigatore satellitare, i cellulari che parlano, la macchinetta per grattugiare il formaggio, tutte stronzate che non è niente vero che ci migliorano la vita. Ce la incasinano ancora di più, semmai. Me lo posso grattugiare anche a mano il formaggio e se sono in un posto che non so dove andare, posso sempre abbassare il finestrino e chiedere al primo che passa. Non sono queste le cose di cui abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di cose che ci migliorino come persone, come esseri umani. Dovrebbero inventare un microchip che lo impianti nel cervello e ti avverte quando stai per fare un’enorme cazzata; o, al contrario, se invece stai facendo una cosa tremendamente giusta, ti dia la forza di farla. Qualcosa tipo un bip tremendo nelle orecchie che non smette nemmeno se ti dai una martellata in testa e che continua fino a quando non hai fatto quello che dovresti fare.
Se avessi inviato quel sms magari a quest’ora mia sorella sarebbe qui, tutta contenta per i miei propositi di cominciare a vivere in modo normale e domani passerebbe da casa mia a sistemarmi la cucina e a tirare su un po’ di immondizia dal pavimento.
Però, riflettendoci bene, forse non l’ho cancellato del tutto quel messaggio, perché anche se non è più in memoria, comunque è qualcosa che ho pensato, e un pensiero, quando lo senti veramente forte dentro di te, è qualcosa che già esiste. Tutte le più grandi conquiste dell’uomo, tutte le meraviglie mai realizzate dall’essere umano, sono state prima soltanto pensieri. La Cappella Sistina, la Gioconda, la Divina Commedia, la Tour Eiffel, le sonde su Marte, la Nona Sinfonia di Beethowen, sono state all’inizio solo pensieri che poi si sono trasformati in azioni che hanno sbalordito il mondo. Per questo mi piace pensare che comunque quel messaggio è nell’aria, e prima o poi arriverà a destinazione, come il polline dei fiori a primavera.
In fin dei conti so benissimo che tra noi due è sempre stata lei quella giusta, e io quello sbagliato. Anche se i giusti tendono a diventare pesanti, talvolta.

“E poi ci sarebbe la canzone.”
Lo dico come se stessi poggiando una ciliegina gustosa su una torta meravigliosamente guarnita.
“Tu hai scritto una canzone?”
“Proprio così. La colonna sonora del film.”
“Sentiamo.” Roccia ha una faccia da “come fa uno come te ad aver scritto una canzone? Può trattarsi solo di un’immane cazzata.”
“Sei sicuro che la vuoi sentire?”
“Non sto nella pelle.”
“Va bene. Allora…” mi raschio la gola risciacquando il tutto con un sorso di whiskey.
“Comincia con un arpeggio di chitarra che fa più o meno così: nanananaa daun daun, poi sol e la minore, nannanana daun daun daun…”
“Vabbè, sentiamo le parole.”
“Ah, occhei. Si, cioè, in effetti l’arpeggio lo devo ancora perfezionare. Comunque la canzone fa così:

è di notte che ritrovo te
quella vita che nel corpo hai
se ti mordo è per sentire
che gusto hai

E poi c’è la seconda strofa che fa:

tu che dormi così piano che
così bella non ti ho vista mai
quel tuo odore così forte che
morirei

Qui passa in mi minore:

e non so cosa fai
le speranze che hai
ma qualcosa di te l’avrò

e non so che darei
per non perderti mai
ma per sempre con te sarò

Ecco, questo è un passaggio importante, perché lui si rende conto di com’è difficile amare qualcuno e restargli vicino, trattenere la persona a cui vuoi bene. Tanto più per lui che è un vampiro e per il quale amare significa sfamarsi e dunque uccidere l’oggetto del suo amore. Allo stesso tempo, però, sa che se ami davvero qualcuno non lo perdi mai del tutto, perché te lo porti dentro, e gli resti vicino comunque, aldilà delle distanze reali nel mondo fisico.
“Lo dicevo io che si finiva a parlare d’amore.”
“Poi c’è il ritornello:

e non ti sveglierò
resto tutto il tempo in silenzio
ma alla fine lo sai
la luce fa svanire ogni sogno
e non c’è pace in me
un sogno è quel che è

Poi la canzone riprende come all’inizio. C’è un assolo di chitarra e si torna in re maggiore.

È di notte che mi sembra che
La distanza che di giorno hai
Si riduce fino al punto
Che scoppierei

La tua mano sul cuscino che
Più indifesa di così non puoi
Quel sapore così dolce che
Lo berrei

E non so tu chi sei
Le paure che hai
Ma una cosa di te la so
E non so che farei
Per sorprenderti poi
Ma una notte con te l’avrò”

Poi quando sono sul punto di rientrare con il ritornello, vedo sto gruppo di coglionazzi che stanno lì ad ascoltare la mia canzone e ridono e mi battono le mani. Uno di loro fa tutte le mosse come se stesse ballando la break dance.
Non mi spreco nemmeno ad andare da loro a chiedergli cosa c’è tanto da scompisciarsi nella mia canzone. Senza nessuna fretta mi alzo in piedi, e butto giù tutto quello che rimane da bere: rum, pera, rum, pera e l’ultimo sorso di jack nel lucidissimo bicchiere di vetro, che poi è anche l’unico oggetto contundente nei paraggi. A meno che non voglia provare a trapassarli tutti e cinque lanciandogli contro la biro. Me lo passo tra una mano e l’altra, come un lanciatore di baseball prima di effettuare il suo tiro. Lo metto in controluce per osservarne i riflessi, i fasci di luce delle lampadine da 90 watt che lo investono dividendosi in una miriade di raggi minori. “Credo in te” gli dico, e lo scaglio contro il mucchio. Lo vedo infilarsi in mezzo a tante teste senza colpirne nemmeno una e andare a frantumarsi sulla parete di fronte. Mi aspettavo qualcosa di meglio, ma fa niente, del resto era solo un avvertimento. Non ho paura di loro, mi sento un leone. Posso buttarli giù tutti quanti. Ho più palle io di tutti loro messi assieme. Quelli, intanto, che erano rimasti un attimino così, diciamo sorpresi, a riflettere su quanto vicino alle loro teste fosse passato quel bicchiere, si scuotono dal loro torpore e in un secondo me li vedo arrivare tutti addosso.
Salgo sul tavolo e mollo un calcio in faccia al primo fortunato estratto. Lo vedo cadere all’indietro con uno squarcio sullo zigomo destro che con tutti i punti che gli daranno, se passa dal distributore convenzionato, come minimo ritira un lettore mp3. Poi mi lancio a volo d’angelo addosso al mucchio. Stendo un secondo stronzo atterrandogli con i gomiti su una clavicola che fa crack, come un ramo spezzato dal vento. Il terzo coglione intanto è già lì, e dio solo sa quanto vorrei riempirlo di cazzotti, dargli tutti quelli che si merita - perché questo è proprio lo stronzo che mi prendeva per il culo ballando alla Michael Jackson - e invece non lo prendo mai. All’improvviso mi sento le braccia molli, pesanti, come se vessi attraversato a nuoto il Canale di Sicilia. Mi becco due pugni in faccia che non mi fanno nemmeno tanto male, perché questo qui non è per niente un picchiatore. Gli va bene che sono zavorrato di Tennessee whiskey e porcherie varie, e mi muovo come le azioni al ralenty delle partite di Champions League. Vorrei tanto poter chiamare il time out, ritirarmi nell’angolo insieme con Roccia ed elaborare una strategia d’azione, fosse anche quella di scappare a gambe levate che, visto come si stanno mettendo le cose, non sarebbe nemmeno una pessima idea. Invece devo rassegnarmi all’idea che il massimo che posso ottenere dalla situazione è salvarmi i connotati. Non provo nemmeno più a colpire, tengo soltanto le braccia alte a pararmi il viso. Un attimo dopo sento un colpo tremendo allo sterno e vengo scaraventato all’indietro, come se qualcuno di loro avesse preso la rincorsa e mi fosse piombato addosso con una spallata sul petto. Finisco addosso a un tavolino alle mie spalle e mi ribalto all’indietro, atterrando di nuca sul pavimento. Rimango un lungo secondo con gli occhi chiusi, disteso sulle mattonelle gelide. Quando li riapro, solo un istante più tardi, mi sento confuso. Ma ho ancora abbastanza a mente la situazione da capire che fra mezzo secondo ce li avrò ancora tutti addosso e quando avranno finito di pestarmi sarò perfetto per la parte di Quasimodo nel Gobbo di Notre Dame. So bene che non ce la potrei fare mai ad alzarmi. Non da solo. Quindi resto semplicemente lì, ad aspettare che arrivino i primi calci in faccia o che qualcuno mi atterri con le ginocchia sulla bocca dello stomaco. Invece non succede niente di tutto questo. Nella mia confusione mentale mi accorgo che le grida si stanno placando. Uno stronzo sbrigativo mi afferra per il bavero della camicia e mi aiuta con modi piuttosto spicci a riguadagnare la posizione eretta.
Roccia è lì, di fianco a me, un zinzino strapazzato, magari, ma non molto altro, segno che ne ha date più di quante ne ha prese. Del resto è quello che ci si aspetta da un tipo come lui.
“Ora ho capito chi siete voi due,” fa il trippone, “lavorate per Vattiata.”
“Modestamente,” fa Roccia.
Io non credo che siamo nella posizione adatta per spacconare, anche perché sto tipo ci ha riconosciuti e Vattiata non è tanto uno che raccoglie consensi ovunque vada. Tutt’altro. È un mistero che il vecchiaccio non sia ancora finito incaprettato.
Comunque Roccia non c’ha torto, perché in certe cose ci vuole coerenza e se parti alla grande allora devi anche finire alla grande.
“In persona,” replico, ostentando una sicurezza da strafatto.
Però sto pensando che non vorrei averci grane con gli ometti blu. E scassare la minchia ai puffi di notte, significa averci grane. L’ho imparato quando ero ancora un pischello quindicenne, una notte che ci siamo messi a sfidarci coi motorini a chi sapeva appagnare meglio. Facevamo un casino tra il rombo dei motori e qualche oca giuliva che starnazzava ai bordi della strada. Così, un vecchiaccio arrapacchiato che si era già affacciato un paio di volte dal balcone minacciandoci di scendere con il bastone da passeggio, ha pensato bene di chiamare gli sbirri. Arriva una volante e scendono sti due puffi che cominciano a spagasiare nel loro modo che fanno sempre, soprattutto se c’hanno di fronte pischelli minorenni. Uno di loro, con i pollici nel cinturone, minaccia di portarci dentro per disturbo della quiete dei vecchiacci lordi del quartiere, o all’incirca una cosa del genere.
Sto picciotto che era affianco a me, che non conoscevo più di tanto, gli salta in testa di fare il duro.
“Che cazzo fai tu?” dice, rivolto al primo sbirro.
Il fatto è che c’erano ste due o tre pischellette e ci tenevamo tutti a fare la figura dei cazzuti, visto che fino a quel momento avevamo spaccato alla grande a tenere gli scooter sopra una ruota.
“No, veramente. Spiegami che cazzo fai tu, perché non l’ho capito bene.”
Sto sbirro qui, questo dei pollici nel cinturone, che si sente tutto Poncherello, gli si avvicina e gli molla una boffa che gli fa girare la testa dall’altra parte.
Io ci resto di merda, che proprio non me l’aspettavo.
Il pulotto mi guarda e fa: “tu hai qualcosa da dire?”
Io gli rispondo no, no, ma quello continua:
“Come? Non ho sentito bene.”
“No, niente da dire. Anzi, scusateci se vi abbiamo fatto venire fino a qui a quest’ora… cioè, abbiamo capito che abbiamo sbagliato…” rispondo io, paraculo al massimo. Ma quella volta c’ho proprio avuto la merda in culo, soprattutto dopo, che ci hanno portato in questura e ci hanno tenuti lì fino a quando non sono venuti i nostri genitori a recuperarci
Ora è diverso. Non è che c’ho paura che uno sbirro mi molla uno schiaffo, figuriamoci, manco se viene Grande Puffo in persona, ma di sicuro non voglio averci cacata la minchia.
Ma per fortuna il Trippone è in serata pacifica.
“Per rispetto al mio amico Vattiata la chiudiamo qua. Pagate le consumazioni e lavatevi di torno. E qua dentro non ci mettete più piede.”
Resto sorpreso, è la prima volta che quel vecchio depravato mi toglie dai casini. Di solito i casini me li procura, lui.

Usciamo fuori, l’aria fresca mi pizzica il viso. Sembra tutto troppo bello, troppo più bello di come me l’aspettavo. Ci casca addosso questo cielo stellato che non finisce più.
Arriviamo alle macchine e dal locale cominciano a giungerci le note di un pezzo reggae.
“Hanno messo la musica,” gli faccio a Roccia. “Proprio ora che siamo andati via.”
Quello manco mi dà retta.
“Ce la fai a guidare o ti devo accompagnare a casa?”
“No, aspetta. Non possiamo andare via proprio adesso. Senti qua… Africa Unite.”
Faccio un attimo di silenzio, quanto basta perché Roccia si renda conto di cosa sto parlando.
“Dobbiamo tornare là dentro.”
“Vaffanculo tu e Africa Unite. Abbiamo fatto tanto di quel bordello che la metà bastava. Adesso saliamo in macchina, io sulla mia e tu sulla tua, e ci allacciamo.”
No, porco zio, non dovete farmi questi discorsi quando mi sento così, in sintonia con il grande silenzio dell’universo e tutto il resto.
“No, compare, non farmi questo, ti dico non farmi questo. Non lo vedi che è tutto come dovrebbe essere, tutto così armonico e calibrato e in perfetto equilibrio?…”
Mi metto a ballare in mezzo alla strada, nel mio consueto modo scomposto e tribale. È tutto come dovrebbe essere e io posso annullare la mia mente ed essere soltanto una perfetta scimmia del terzo millennio.
“Sembri un orango,” fa Roccia.
“Non c’entra un cazzo, compare,” comincio a girare su me stesso, come facevo da bambino nel giardino dei nonni, che continuavo a ruotare e ruotare fino al punto che perdevo l’equilibrio e davo il culo per terra. “Non c’entra niente questo discorso, perché questa sera si balla come dico io. Quella gente ci ha riconosciuti. Loro sono niente, un budino informe, mentre io sono una celebrità e posso volare sopra le loro teste e ascoltare i pensieri di Melissa che è andata via e…”
Mi fermo all’improvviso, la faccia rivolta verso l’auto di Roccia. Sembra quasi che la sto osservando, ma in realtà non vedo nulla. Ora è tutto il contrario, è come se io fossi il fottuto asse terrestre e il mondo mi ruotasse attorno.
Sento Roccia dire qualcosa, ma non c’è più contemporaneità tra il momento in cui percepisco il suono della sua voce e quello in cui capisco quello che dice.
“Compare, tutto occhei?”
In effetti non è proprio tutto occhei, ma non faccio in tempo a dirglielo perché un attimo dopo rovescio tutto quello che avevo ingerito contro il finestrino anteriore destro della sua fiammante Uno Turbo.
Lo sento inveire conto di me, ma ho ben altro a cui pensare in questo momento.
L’universo continua a girare e non ha nessuna intenzione di fermarsi. Anzi, sembra quasi che acceleri. Devo reggermi a qualcosa, perché da un momento all’altro la forza centrifuga mi scaraventerà fuori dal cerchio. Piego le ginocchia e allungo le mani verso il basso alla ricerca di un punto di appoggio. Il contatto con l’asfalto è rassicurante, dice terra. Mi seggo, ma ho la sensazione di essere ancora troppo elevato rispetto al terreno per poter mantenere l’equilibrio. Così mi sdraio completamente sull’asfalto umido e chiudo gli occhi.
Roccia non fa che gridare. C’è sempre quella discrepanza tra la percezione e la decodifica del messaggio.
“Che cazzo fai, compare. Qui passano macchine.”
Mi lascio andare. Quello che dice Roccia non ha più senso. Roccia stesso non ha più senso. Il mondo nella sua interezza, e quello che sta accadendo, insieme a quello che è successo prima, o ieri, o 10 anni fa, e tutto quello che accadrà in futuro non hanno più senso. Niente ne ha più. C’è solo il grande nulla dell’universo, proprio addosso a me, con la sua vastità impressionante, e allo stesso tempo affascinante, e quello che c’è ora dentro di me non è altro che l’immagine speculare di quello che c’è fuori, fino all’ultimo remotissimo angolo del cosmo.
Quando riapro gli occhi sono in quella scatoletta di tonno che è la macchina di Roccia. Ci stiamo muovendo. Lui con la sua classica faccia incidentata: le cicatrici di acne sulle guance, gli incisivi superiori scheggiati appoggiati al labbro inferiore e quella lingua che sembra troppo grossa per appartenere alla sua bocca. Sta fissando la strada. Ha messo su un pezzo di un qualche tascissimo cantante neo-melodico.
“Per piacere,” dico, allungando una mano sofferente verso l’autoradio. Lui capisce e la spegne.
Mi volto a guardare il finestrino alla mia destra.
Indico la striscia giallastra sul vetro.
“Hai visto com’è andato tutto giù?”
Roccia mi lancia un’occhiata sbrigativa.
“Secondo te perché?”
“Cosa perché?”
“Perché tutto va verso il basso?”
“Non è vero. Per esempio la mia minchia va verso l’alto.”
“Dico sul serio. Non ti sei mai chiesto perché?”
“Che bisogno c’è di chiederselo. È la forza di gravità, lo sanno pure i nuzzenti.”
“Si, ma cos’è veramente la forza di gravità? E perché esiste?”
“Ho cambiato idea: domani vado dal Merlo e lo scanno. Vediamo se deve mettere l’LSD pure nel cappuccino e poi i cazzi sono miei.”
“Lascia stare il Merlo. Quello che dico io è che non sappiamo niente di com’è veramente l’universo e del perché è stato creato così com’è. La luce, per esempio: che cos’è veramente? E cosa sono i colori? Sono una proprietà dell’oggetto che osserviamo o solo il nostro modo di percepire l’oggetto? Magari gli extraterrestri percepiscono i colori in un modo tutto diverso rispetto a noi umani. Vedono più sfumature, o forse vedono colori che per noi non esistono.”
“A momenti ti butto giù dalla macchina.”
“Ma come cazzo fai a non farti mai domande? Minchia, mi sembra di parlare con un australopiteco.”
“Vedi tu come ti sei ridotto a furia di farti domande.”
Vorrei dirgli ancora che secondo me la forza di gravità è Dio e ogni cosa va verso di Lui. Allora c’è un poco di Dio sotto la terra, in modo che tutte le cose ci restino attaccate, e un poco di Dio proprio al centro del sole, così che i pianeti possano girarci attorno e ancora una grossa fetta di Dio al centro della Via Lattea e poi al centro dell’universo e tutto quello che esiste si muove verso Dio.

Il giorno dopo è arrivato spietato e in madornale anticipo, come sempre. Sono fermo alla fermata dell’autobus. Mi sono svegliato verso mezzogiorno e mezza, che per me è piuttosto prestino. Ho messo su questi occhiali scuri a goccia, con le lenti che, investite dalla luce del sole, si scuriscono e assumono colorazioni tra l’azzurro e il violetto. Abbastanza spacchiusi, per essere roba da marocchini. La luce del sole è troppo violenta a quest’ora del mattino, e poi devo coprire quest’occhio nero che una di quelle mezzeseghe è riuscito a farmi la notte scorsa.
Odio camminare. L’avevo detto a Roccia che potevo benissimo tornarmene a casa con la mia fottuta carrozza… o forse no, non glielo avevo detto. Certo è che sono in pieno scazzo. Non ho avuto nemmeno il tempo di prendermi un cappuccino e di dare un’occhiata alla Gazzetta dello Sport. Posso solo starmene qui, storto come la Torre di Pisa, appoggiato alla pensilina e incapace di formulare un qualsiasi pensiero, anche elementare. Dopo tutta la filosofia della notte prima…
La mia mente si limita a registrare i dati provenienti dal mondo circostante: vecchia con la cesta della spesa, Clio verde ferma ai bordi della strada, culo tondo di pischella diciottenne in jeans diesel e cintura in pelle nera…
All’improvviso, però, nella mia mente cominciano a prendere forma pensieri di senso compiuto che, vista l’ora e i postumi della sbronza rimediata la notte precedente, è piuttosto improbabile che siano miei:

“Neanche una telefonata per scusarsi del pacco che mi ha rifilato ieri sera. Come si permette di trattarmi così? Appena lo rivedo gli mollo un calcio nelle palle. Così, senza neanche preavviso. Glielo dovevo staccare a morsi quando ne ho avuto la possibilità. Mollusco schifoso.
Tutta colpa di quello stronzo di mio padre. Se mi avesse voluto almeno un po’di bene non sarei così insicura con gli uomini. Come si fa a sentirsi fighe quando l’uomo più importante della tua vita, quello che è sangue del tuo sangue, e dovrebbe volerti più bene dei suoi stessi occhi, ti abbandona prima ancora che tu riesca a dirgli una sola volta papà?
Non ce la faccio più ad andare avanti così. Questa vita è sempre la stessa, non c’è mai niente di bello. E io ho già quasi 26 anni. Fra un po’ dovrò cominciare a preoccuparmi di diventare vecchia. Non voglio trasformarmi in una zitella acida come la zia Antonietta. Dio, che orrore la vita! Perché proprio io devo rimanere da sola? Che cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Io voglio avere dei figli. Due: un maschio e una femmina… e una casa con un enorme giardino pieno di fiori di ogni colore, con un uomo che apre la porta e mi bacia sulle labbra tutti i santi giorni, fino a novant’anni… e un cane e le ferie nel mese di luglio, caricare le valigie sulla station vagon e cantare per la strada le canzoni di Lorenzo. Solo questo. Voglio solo questo. Chiedo troppo, forse? Sono qui mi sentite? Dove siete? Qualcuno mi dica che sono bella… vi prego…”

Mi volto ed è lei, Melissa, in piedi alle mie spalle, i capelli lisci fino alle scapole e quella specie di luce triste negli occhi. Mi piace la sua aria imbronciata, anche se mi manca la versione sorridente, per poter fare un paragone.
Faccio un passo verso di lei.
“Te lo dico io.”
Si guarda intorno per assicurarsi che sto parlando proprio con lei.
“Cosa?”
“Che sei bella.”
L’autobus si ferma ai bordi della strada. Le porte si aprono verso l’interno con il loro soffio di aria compressa.
Melissa spalanca gli occhi enormi, che a guardarli sembra assurdo che esistano davvero. Si sta chiedendo come faccio a saperlo. Apre la bocca prima di sapere che cosa dire.
“Gr… grazie.”
Le sorrido.
“È il mio,” dice, guardando spaesata alle mie spalle l’autobus già pronto a ripartire.
La vedo infilarsi in quella scatola arancione e sparire in mezzo a tutte le altre teste inutili.
Guardo l’autobus che si allontana e alzo una mano in alto per mandarle un saluto, anche se non la vedo più, anche se non so se lei mi sta osservando, e mi sento felice, mentre lo faccio, ma non so perché.

10 anni dopo


Ecco qui un racconto che ci vuole un bel coraggio a pubblicare. A dirla tutta questo testo è tutto quello che un racconto non dovrebbe essere. l'idea è piuttosto confusa, e già questo di solito basta a mandare a puttane tutto il lavoro, aggiungo poi che il linguaggio è inutilmente sgrammaticato e il personaggio fa quello che gli pare in aperta opposizione con quello che l'autore (in questo caso io) si aspettava da lui. volevo una prosa molto fluida sul genere della beat generation e mi è venuta fuori una cosa che non si sa cos'è, con una punteggiatura che sembra messa qua e là a casaccio da un bambino di seconda elementare. il protagonista, che doveva essere il solito cinico, insensibile bastardo, mi si è trasformato in un filosofo della domenica con influenze new age. la storia, nel suo complesso è pasticciata e poco convincente. detto questo, potreste chiedermi perchè cavolo lo stia pubblicando lo stesso. bella domanda, me la sono posta anch'io. la risposta è che comunque questo racconto mi è costato tempo e fatica, e siccome non mi va di stare seduto alla scrivania per niente, qualcosa dovevo comunque farci. anche perchè è da questa estate che lo rileggo di tanto in tanto e provo a pensare al modo di renderlo almeno decente, senza ottenere altro che incasinare ancora di più le cose. quindi va bene, così, cioè, non va bene, ma è meglio se ci metto un punto e faccio finta di non averlo mai scritto.

sopra un'immagine dell'Isola di Formica, sulla quale è stato ambientato questo racconto. Sullo sfondo è possibile vedere Levanzo, la più piccola delle isole Egadi.


10 anni dopo

“Ecco, siamo arrivati” dice Mario spegnendo il motore.
Io e Toni saltiamo giù dalla barca e a piedi raggiungiamo l’isola.
“La Formica…” continua, Mario, “mi fa sempre un effetto… è come passare da una barca piccola a una un poco più grande. Quel faro sembra un’enorme vela ammainata…”
Si gratta la nuca.
“Tornare qui è come riavvolgere il nastro di quella sera… mi ricordo tutto, fin nei minimi particolari. A volte quando sono a casa mi pare che certe cose le vado scordando, ma quando sono qui…”
Toni sale su uno scoglio, si sbottona la patta, se lo tira fuori e comincia a urinare in mare.
“Voi date troppa importanza al ricordo, siete troppo attaccati al passato, e così perdite di vista il presente e, cosa ancora più importante, il futuro.”
“È proprio perché diamo importanza al presente che ricordiamo il passato,” ribatte Mario, “avere consapevolezza dei propri errori serve a non ripetere più le stesse stronzate.”
“Sarà, ma pi mia il passato è passato e u presente è presente. Sono due cose distinte e separate. Comparti stagni. Nella vita non ti succede mai due volte la stessa cosa. Per cui è sufficiente rifarsi alle tre regole fondamentali della vita: uno, appizza sempre in faccia, forte e pi primo; due, con le fimmine non averci mai nessuna pietà; e tri, la più importante di tutte, non pisciare mai controvento.”
“A proposito, preferirei che non pisciassi lì” dice Mario.
“E dove dovrei pisciare?”
“Dall’altra parte dell’isola, non voglio che pisci lì. È come se urinassi sulla tomba di Marta.”
“Dall’altra parte dell’isola sono controvento, terza regola fondamentale di vita. E poi non può essere ancora qui Marta, le correnti l’avranno portata al largo, sono passati dieci anni ormai…”
“Il suo spirito è ancora qui, dieci anni non sono niente per uno spirito.”
“Vabbè, allora dimmi che non si può più pisciare nel mar Mediterraneo.”
“Ho solo detto che non devi pisciare da questa parte dell’isola.”
Toni si riabbottona i pantaloni e salta giù dallo scoglio.
“Finito. Sono sicuro che Marta capirà, anche lei avrà bevuto birra, qualche volta.”
Mario lo lascia perdere. Guarda il cielo.
“Io dico che è meglio cominciare, tramonta.”
Torna alla barca e prende un borsone da tennis, lo apre ed estrae tre bottiglie di wiscky, una per ciascuno. Ce le lancia, le prendiamo al volo.
“Cazzo è sta robba?” dico.
“È quello che ho trovato.”
“Chi doveva portare i teli da mare” chiede, Toni.
“Sono sulla barca,” rispondo.
Stendiamo i teli sul terreno fatto di ciottoli appiattiti e levigati dal mare. Mario estrae delle candele e dei piattini da caffè da una delle tasche del suo borsone. Le accendiamo. Facciamo cadere le prime gocce di cera sul piattino e ci incolliamo sopra le candele. Il buio è sceso pesantemente su tutte le cose e ora nei nostri visi c’è qualcosa di spettrale. La piccola, tremolante, luce delle fiammelle ci scava occhiaie profondissime, mentre le nostre pupille si muovono rapide a fissare l’oscurità imminente.
Mario prende la parola:
“Siamo qui per ricordare Marta, scomparsa in queste acque il 15 giugno del 1996, esattamente 10 anni fa. Siamo qui per assumerci le nostre responsabilità, le nostre colpe, per pentirci e per renderle giustizia, affinché la sua anima possa riposare in pace. Siamo qui per provare a essere quegli uomini che allora non siamo stati. Siamo qui per non dimenticare.” Fa un lungo respiro. “Perdonaci, Marta… se puoi.”
“Perdonaci” ripeto.
“Amen” fa quello stronzo di Toni.
“Bene” continua, Mario, “chi vuole cominciare?”
Io e Toni guardiamo altrove, vorremmo tanto avere un compagno alto dietro cui nasconderci, come ai tempi della scuola.
“Facciamo accussì,” dice Toni, “lo tiriamo fuori tutti e tre, quello che ce l’ha più corta comincia a parlare.” Sghignazza da solo.
“Facciamo una gara di apnea, invece” dico io, “uno alla volta ci immergeremo mentre un altro cronometrerà il tempo di resistenza, chi ci sta di meno parla.”
I ragazzi sono d’accordo.
Dentro di me so di non poter competere con quel bestione di Toni, sembra gli abbiano incorporato due bombole da sub sotto le costole. Ma Mario non può battermi, con quella pancia così flaccida e le tette cascanti che sembrano due mozzarelle avariate, non può proprio battermi. Almeno così credo. Invece nel modo di immergermi mi entra l’acqua nel naso e mi viene subito da tossire perché mi arriva fino alla gola e mi brucia e così risalgo subito.
“6 secondi” dice Toni, “complimenti, hai battuto il record di apnea di Maiorca.”
Provo a convincerli che non vale, perché non ero concentrato, ma a loro non frega veramente un cazzo.
Soffio via tutta l’acqua dal naso, insieme a una bella porzioncina di morvo che rimane qualche istante a penzolare da una narice prima che con un movimento poco accorto me lo spalmi sul mento.
“Sei lo schifo della terra” dice Toni.
Con una mano mi tolgo via il morvo dalla faccia, poi me la sciacquo in mare.
“Fanculo” dico, attaccandomi subito alla bottiglia di wiscky.
“Mi sa che tocca a te” dice Mario.
Mi accendo una sigaretta. Il vecchio Irish comincia già a farmi effetto. Meglio così, non voglio pensare troppo a quello che devo dire.
“Forse certe cose devono proprio accadere,” comincio, schiarendomi la voce, “ma quando accadono a una come te, Marta, viene da pensare che il destino sceglie sempre le persone sbagliate.
Il destino… che parola inutile.
Il destino siamo noi, tutti noi. Non del tutto forse, ma almeno in parte è così. Nessuno può fare a meno di influenzare il destino delle altre persone, anche se questo può accadere a livelli diversi di profondità. E questo è quello che è successo tra noi. Tu hai influenzato il nostro destino e noi il tuo. Certo tu era una di quelle persone che fanno bene al destino degli altri, senza volerlo eri una che indirizzava la vita degli altri su strade migliori, anche se con noi non sei riuscita a farlo. Non del tutto almeno. Noi, invece…
Quando le nostre strade si sono incrociate, è stato come una lotta tra il bene e il male. Ed è stato più forte il male. Siamo come l’acido muriatico, noi, corrodiamo tutto quello con cui veniamo in contatto.”
Faccio un attimo di pausa. Inghiotto un altro sorso di wisky, tiro una boccata dalla mia pall mall, mi gratto la faccia. È come se le parole fossero tutte corse a nascondersi. Un attimo prima erano lì, e adesso… no, anzi no. Non è proprio così. Ci sono, le parole ci sono, le ho tutte, dalla prima all’ultima, è l’ordine che mi manca. È come quando aprono i cancelli allo stadio e tutta la gente che nel frattempo si era assiepata intorno, si ammucchia all’improvviso davanti all’ingresso. Le parole ci sono, devo solo metterle in fila dalla prima all’ultima, perché tutte insieme non è possibile dirle. Da qualche parte comunque dovrò cominciare, e forse l’ordine verrà poco a poco, da solo.
“Questa cosa di influenzare il destino degli altri, forse è la prima volta che ne parlo, ma è da un bel pezzo che ci penso. Me la immagino come una specie di flusso di energia, come… conosci l’effetto Kirlian? Si mette un oggetto a contatto con un foglio fotografico e vi si applica un’elevata tensione elettrica. Così facendo l’immagine dell’oggetto si imprime sul foglio fotografico e attorno ai bordi compare un alone luminescente. Qualcuno dice che quella sia l’aura vitale. Questo tipo, Kirlian, ha inventato questa tecnica e ha passato il resto della sua vita andandosene in giro a fotografare piante, animali e anche persone, e compariva sempre questo alone di luce tutto intorno, l’aura appunto, cioè la nostra energia spirituale. L’anima forse è proprio questo, l’energia dell’universo che pervade tutte le cose, esseri viventi e materia inanimata. Secondo certe filosofie orientali quest’energia non è altro che consapevolezza. Consapevolezza di quello che siamo e di quello che dovremmo essere, il nostro posto nell’immenso ingranaggio dell’universo, questo grande orologio costruito per essere perfetto, per andare alla grande… solo che in questa infinitudine di ingranaggi, c’è qualche rotella che a volte impazzisce. La pazzia è proprio questo, è perdita di consapevolezza. È come se in questo orologio che tengo al polso qualche rotellina non sapesse da che parte girare. Ecco, quelle rotelline siamo noi. Tutto l’universo è costruito su questa sorta di gerarchia della coscienza di essere. Un sasso non è così diverso da me e te, è sempre fatto di materia e di energia che tiene insieme quella materia. L’unica differenza tra me e il sasso è che io so di esistere e lui no.
L’albero ha un livello di consapevolezza più alto del sasso, è su un piano gerarchico più elevato. Certo, l’albero non ha un “io”, non dice a se stesso io sono un pino, oppure sono un abete e dunque sono un vegetale e mi stanno sulle palle i rottweiler che mi vengono a pisciare sulle radici. Non dice niente del genere. Però sa che ha bisogno del sole per sopravvivere, e di affondare le sue radici più a fondo possibile nella terra per assorbire le sostanze nutritive ed è per questo che si vedono alberi ai fianchi delle montagne crescere tutti storti, perché sanno che per sopravvivere devono cercare di dirigere i loro rami verso il sole, per poter mettere in atto il processo della fotosintesi clorofilliana. Hanno questo genere di consapevolezza.
Un cane, non sa di essere un cane, probabilmente non sa nemmeno di chiamarsi Bobby, ha solo capito che quando sente quel suono pronunciato dal suo padrone deve correre verso di lui; e sa che è divertente riportare indietro la pallina lanciata lontano, perché si beccherà una carezza in mezzo alle orecchie e ha imparato che dopo gliela lanceranno di nuovo lontano, e lui correrà di nuovo e ci saranno altre carezze tra le orecchie e pacche sulla schiena e tutto questo lo farà sentire bene.
Per noi uomini invece il discorso è più complesso. Noi pensiamo di sapere chi siamo, di essere consapevoli perché leggiamo Flaubert, o perchè dipingiamo nature morte su piatti di ceramica, o perché scriviamo “viva la fica” nei cessi della stazione, e in certe sere d’agosto, con una pioggia di meteoriti che infiamma il cielo, ci chiediamo che cosa c’è oltre quel buio, e se qualcuno accenderà di nuovo la luce dopo che saremo morti.
Ci sono filosofi che stanno lì a discutere se un albero esiste lo stesso se nessuno lo guarda…
Quando ero piccolo d’estate andavamo sempre dai miei zii in campagna, restavamo lì a goderci il fresco, a camminare in mezzo alle piante e a mangiare roba appena raccolta dai campi. La sera mi arrampicavo sopra un ulivo, mi trovavo un ramo abbastanza comodo da potermici sdraiare e abbastanza in alto da poter guardare il cielo. Restavo un sacco di tempo così, solo io e l’albero e non facevo altro che guardare il cielo. Tutte quelle stelle mi facevano sentire meno di niente…
Lo sai che ci sono un sacco di scienziati che credono che sia possibile viaggiare nel tempo?
Minchia, questa cosa è troppo spaventosa secondo me. Perché vuol dire che da qualche parte nello spazio-tempo accadono di nuovo le stesse cose che sono accadute qui 10 anni fa, e magari fra un’ora, una settimana o un anno, da qualche parte nello spazio-tempo noi staremo ancora parlando seduti su questi scogli, da quella parte vedremo di nuovo le luci di Trapani, e da quest’altra le isole Egadi, e Toni avrà smesso da poco di pisciare spalle al vento e staremo ancora bevendo uischi irlandese… E se esiste un posto chiamato passato (un posto dove forse tu sei ancora viva), allora esiste anche un posto chiamato futuro, perché il presente è il futuro del passato e anche il passato del futuro, e dunque c’è un posto dove stanno già accadendo le cose che noi vivremo domani, tra un mese, o tra dieci anni, o venti, e se questo è vero, forse non sono nemmeno io che sto pensando queste cose, forse era già scritto nel mio destino che un giorno avrei pensato e detto queste cose, qui davanti a loro, su questo isolotto in mezzo al mare, esattamente dieci anni dopo aver visto il blu del mare portarsi via te, Marta, con il tuo pareo azzurro e gli occhi azzurri e le tue dita lunghe da violinista mancata. E dunque da qualche parte c’era anche scritto che non ti avremmo salvata, e che Mario avrebbe comprato uischi irlandese e io non mi sarei mai laureato in psicologia, e che a 17 anni avrei allagato i bagni dell’istituto magistrale otturando i lavandini con della carta di giornale. E lo stronzo che la settimana scorsa si pomiciava la mia ex davanti al Caffè delle Rose, non deve prendersela con quel figlio di buonadonna che gli ha rigato la punto verde, perché era scritto nel mio destino che lo avrei fatto.
Non ti nascondo che provo un certo sollievo all’idea che non sono io il responsabile di tutte le stronzate che ho fatto, che c’è un mandante delle mie cazzate, di fronte al quale io sono solo un ignaro esecutore. Però è anche angosciante, questa prospettiva, perché io ho sempre pensato di essere anche i miei errori, di essere anche il mio passato, l’insieme delle scelte, delle decisioni prese, delle rinunce, le volte che ho ordinato una pizza alla romana perché non avevo voglia di cucinare, o che ho telefonato a scuola inventando una malattia che non avevo per poter restare a letto fino a tardi. Un miliardo di decisioni, di cose che ho fatto o che non ho fatto, un miliardo di brevissimi istanti in cui pensavo di stare affermando il mio modo di essere, guidare con un braccio appoggiato al finestrino, o prendere una granita al limone, un miliardo di piccolissimi particolari senza nessuna importanza, per i quali non ho mai pensato di poter essere fiero di me stesso, ma che adesso, di fronte a questa possibilità che la mia vita possa essere soltanto una storia scritta su un libro, che tutte le vite di questa povera umanità possano essere soltanto una storia scritta su un libro, che il libero arbitrio sia solo un’illusione, che quello che penso in realtà c’è qualcun altro che lo pensa per me, di fronte a questa prospettiva, dicevo, tutti quei piccoli momenti, e i miliardi di me stesso che li hanno abitati, mi mancano terribilmente. È come se qualcuno me li avesse rubati.
Ma non può essere così, c’è qualcosa che non quadra.
Se noi adesso ci proiettassimo nel futuro e potessimo vedere gli errori che faremo, e le sofferenze che questi errori ci procureranno… prova a immaginare cosa sarebbe accaduto se esattamente 10 anni fa, proprio qui su questo isolotto, avessimo potuto guardare nel futuro e vederci come siamo adesso, e capire il male che ci siamo fatti in tutto questo tempo per il solo fatto che nessuno di noi si è gettato in mare per salvarti la vita. Se avessimo potuto vedere allora lo squallore che è stata la nostra vita da quel momento in poi, con addosso il peso della nostra corrosività, del nostro saper soltanto distruggere tutto quello che ci capita tra le mani. Se avessimo potuto vedere tutto questo e poi tornare su quella barca, di nuovo vent’anni, con tutte le nostre idee idiote a frullarci per la testa, io dico che tutto sarebbe cambiato, sarebbe stato tutto diverso. Forse non saremmo nemmeno sbarcati su questo isolotto. Tu non saresti mai finita in fondo al mare, e tutta la nostra vita avrebbe avuto più senso. Quindi non può esserci un destino scritto, non può esserci un posto chiamato futuro dove accadono le cose che accadranno domani, perché se ci fosse, e fosse possibile raggiungerlo, poi tutto cambierebbe. Il futuro è un ventaglio di possibilità e per ogni scelta che compi ci sono possibilità che perdi e altre che trovi. Il futuro non è un racconto scritto, qualcosa di immutabile, è una mano di poker, semmai, e sta a te decidere di cambiare tre carte, o darti servito con una coppia di sette.
Ecco questa è la nostra consapevolezza. Tutti noi dovremmo vivere sapendo che ogni nostra decisione, ogni cosa che facciamo o non facciamo, influenza il corso degli eventi, ricade sul nostro destino e di riflesso sul destino di chi ci sta intorno, e come un sasso lanciato in uno stagno, che crea cerchi concentrici che si allargano e arrivano fino ai bordi dello specchio d’acqua, allo stesso modo, ogni nostra piccola decisione crea questi cerchi concentrici di energia tutto intorno, e influenza il mondo intero, dalla persona che ci sta di fronte fino all’ultimo uomo sulla faccia della terra, e noi dovremmo vivere sapendo questo, sapendo che il nostro agire influenza il destino dell’umanità, che attimo dopo attimo, ognuno di noi contribuisce a creare e modificare il futuro dell’universo. Dobbiamo essere consapevoli di questo nostro ruolo di costruttori dell’universo, perché se non lo siamo, qualcuno ci andrà di mezzo, noi stessi, o le persone che ci stanno vicine, com’è successo a te 10 anni fa, o qualcuno dall’altra parte del mondo che magari adesso sta morendo perché noi avremmo potuto fare qualcosa e non l’abbiamo fatta. Se non sei consapevole… allora sei come un ingranaggio di un orologio che non sa da che parte girare. E mi viene da dire che noi siamo stati questo fino ad oggi, e che sarebbe bene che non lo fossimo più. Quelli come noi, quelli che non hanno consapevolezza, quelli che non sanno da che parte girare, sono un pericolo per se stessi e per gli altri, sono un pericolo per il mondo intero. Meglio essere un sasso, allora, perché un sasso ha sempre la giusta dose di consapevolezza, che è una consapevolezza minima magari, ma che non è mai meno di quella che dovrebbe essere. Un sasso non è mai un pericolo per l’universo, almeno fino a quando non finisce in mano a un teppista deficiente che lo lancia contro il vetro di una macchina. Un sasso non è mai un pericolo per l’universo, l’uomo lo è.”
Mi accendo una sigaretta e mi caccio in bocca la bottiglia di irish. Non ho mai fatto un discorso così lungo, non ci sono abituato, per cui non sono sicuro di essere d’accordo con quello che ho detto, non sono nemmeno certo se quello che ho detto è chiaro o meno, se sono riuscito ad esprimere quello che veramente volevo dire, o se mi sono incasinato, se sono stato confusionario, tutti quei discorsi cominciati e lasciati a metà, accavallati, dire una cosa e poi dirne un’altra, i concetti nebulosi che si inseguivano e io provavo a dire tutto quello che mi veniva in mente, perché, pensavo, alla fine capirò quello che intendo dire, alla fine mi verrà in mente anche una conclusione per tutto queste parole e tutto finalmente apparirà chiaro, inconfutabile e illuminante. E dopo un discorso così, io non faccio mai discorsi, perché sono convinto di non saperli fare, ma dopo un discorso così, dicevo, vorrei tanto poter bere questo uischi irlandese senza fare nessuna smorfia, senza strizzare gli occhi, o fare una faccia schifata come succede sempre ogni volta che mi ritrovo questa roba in bocca. E vorrei anche vedere stupiti i miei amici, affascinati per le mie parole, e che dicessero che non se l’aspettavano che in me ci fosse tanta profondità. Tutto qua, davvero, solo il loro stupore e bere uischi come un cowboy, come se questo fosse un vecchio film americano.
Ma c’è troppo mare intorno perché sia così.
“Bel discorso, ma non sono sicuro di averci capito granchè” fa Mario.
Ci resto male, mi aspettavo tutt’altra accoglienza perle mie parole, mi aspettavo luccichii negli occhi, e bocche spalancate che non riescono a dire wow! Però lo vorrebbero, farebbero di tutto per dirlo, e certi fremiti come quando si assiste alla manifestazione del genio, come stare di fronte a Picasso mentre dipinge, o ascoltare Chopin che suona un notturno, come quando Maradona scartò tutta la squadra dell’Inghilterra ai mondiali dell’86 o… insomma, incredulità, che qualcuno dicesse impossibile, no, no, non ci credo, è successo davvero…è successo davvero, qui, davanti ai miei occhi… invece…
“Cioè, io intendevo dire che la consapevolezza… cioè, forse non mi sono spiegato bene… Toni, tu che ne pensi?”
“Io penso che le tradizioni vanno rispettate” dice Toni.
“Certo, appunto” dico, “le tradizioni sono un forma di consapevolezza di…”
“Rum e pera, quella sera di dieci anni fa stavamo bevendo rum e pera. Perché hai preso stu schifo di uischi?”
“È quello che ho trovato, ti ho detto.”
“Abbiamo sempre vivuto rum e pera. Tutti i 15 luglio del cazzo che mi costringete a passare con voi in questo merdoso isolotto, abbiamo sempre vivuto rum e pera.”
“Questo non è un party, è una commemorazione. Noi veniamo qui per estinguere un debito.”
“Vaffanculo tu e le tue regole del cazzo.”
Toni si alza, fa dieci metri verso la base del faro, resta fermo qualche istante a fissare la parete cilindrica e poi torna indietro, scalcia una pietra che si trova sul suo percorso e si rimette a sedere con noi.
“Tanto dove cazzo posso andare?”
Mario si volta ancora verso di me.
“Dovevi finire il tuo discorso, mi sembra…”
In realtà pensavo di averlo già finito, ma evidentemente le somme che avevo tirato erano somme soltanto per me, loro aspettavano qualcosa di più chiaro. Non potevo chiuderla lì, ormai ero lanciato, ero entrato nell’ottica di un me stesso fine oratore, dovevo andare fino in fondo.
“Si, certo, e vorrei prendere spunto dalle tue parole, quando dici che siamo qui per ricordare… insomma, mi sembra che in tutti questi anni che ci siamo ritrovati qui è stato come mettere su sempre la stessa cassetta, e discutere sempre delle stesse cose, come il megadirettore generale di Fantozzi, che costringe i suoi dipendenti a vedere sempre lo stesso film, “La corazzata Potiomkin”, e si aspetta ogni volta un’emozione nuova, un commento diverso, qualcosa di più del solito elogio al montaggio analogico. Ecco, dunque io direi, che noi oggi siamo qui per prendere coscienza, vedere in che modo è cambiato il nostro modo di guardare il mondo in tutti questi anni dalla morte di Marta, cos’è cambiato nel nostro modo di voltarci indietro e ricostruire il passato.
Io, per esempio… le prime volte che siamo tornati su quest’isola, parlo dei primi tre o quattro anni, c’erano momenti in cui avevo l’impressione che lei fosse ancora qui con noi, che fosse seduta in mezzo a noi, non il suo fantasma, ma proprio lei, Marta, come se non fosse mai successo nulla. E mi aspettavo di vederla spuntare fuori da un momento all’altro, di voltarmi a destra o a sinistra e accorgermi di lei, aspettavo che uscisse fuori con una delle sue battute che non facevano ridere mai nessuno, perché lei non aveva proprio i tempi per le battute, e poi faceva delle premesse lunghissime, troppo ricche di particolari e di spiegazioni e così capivi con troppo anticipo quello che stava per dire. Non aveva il dono della sorpresa. Insomma non ti veniva per niente da ridere, al massimo le facevi un sorriso, ma la maggior parte delle volte la prendevamo per il culo per le sue battute che facevano davvero schifo. Comunque io avevo questa impressione della presenza di lei, ed era un’impressione proprio bella, perché lei era quella di sempre, quella che abbiamo sempre conosciuto, con quella sua pelle distesa e trasparente, e non era per niente incazzata, non c’era niente che lasciasse credere che ce l’avesse con noi perché nessuno quella notte si è buttato in mare per lei.
Poi, però, con il passare del tempo non è stato più così, nel senso che non ho più pensato che lei fosse qui con noi, e adesso… ci credi che a volte non mi ricordo nemmeno la sua faccia? È come se qualcuno m’avesse sfregato un’enorme gomma sulle tempie per cancellarmi il ricordo della sua faccia. Solo che non ha fatto in tempo a cancellare tutto, ha smesso prima che io perdessi anche la forma del viso, quell’ovale allungato che si stringeva improvvisamente verso il mento, e i suoi capelli biondo cenere, ricci ma non troppo, che erano come una specie di… hai presente la parte tutto intorno alla pizza, che poi in mezzo c’è il pomodoro e la mozzarella? Ecco i suoi capelli mi facevano questo effetto e tutto il resto era il condimento. Mi ricordo questo e basta, i suoi capelli e i suoi occhi azzurri in mezzo. Mi manca la forma della sua bocca, tranne il sorriso, e mi mancano il naso e le sopracciglia e gli zigomi e la rotondità delle guance. A volte penso a Marta e vedo una ragazza dal viso ovale e con i capelli ricci e gli occhi azzurri e poi basta, nulla più. Una ragazza senza faccia, gli occhi chiari che si aprono su una superficie piatta, senza nemmeno le orbite, solo le palpebre che si aprono e l’azzurro delle pupille. Ogni tanto vedo anche la sua bocca che sorride, ma di solito no. Se non sorride invece non c’è niente, scompare proprio tutta la bocca con le labbra e tutto il resto. È una cosa così triste… perché io sento ancora il bisogno di averla dentro di me, e di avercela tutta intera, e questo deteriorarsi della sua immagine, del ricordo che ho di lei, è una cosa a metà tra il tradimento e l’abbandono. Perché noi le avevamo promesso che non l’avremmo dimenticata e io, invece, senza volerlo, ogni giorno perdo un pezzo di lei, e mi sento in colpa per questo. Altre volte invece penso che non sono io a dimenticarla, è lei che sta andando via, è lei che mi lascia solo. E mi chiedo perché.
Sempre più spesso torno a rivedere le sue foto, così completo l’immagine che ho nella mia mente, ci aggiungo i particolari che mancano. Ma ottengo solo istantanee, una Marta ferma immobile e non appena le chiedo di muoversi, ecco che scompare di nuovo tutto, e il suo viso torna ad essere un ovale piatto con al centro due pupille azzurre. Per questo, secondo me, non dovremmo ricordare solo quello che è successo quella sera, ma ricordare proprio lei, com’era fatta, dentro e fuori, quello che diceva e faceva e come lo diceva e faceva.”
“Si” dice Mario, “anch’io a volte penso a Marta e dico: era proprio così? sono proprio sicuro che lei fosse così? O questo è quello che ho deciso di ricordare perché mi fa comodo pensare a lei in certi termini? E a volte ho la sensazione che non è Marta con tutto quello che di meraviglioso c’era in lei, a mancarmi, ma solo il fatto che stare con lei mi faceva sentire importante, ci faceva sentire importanti. Marta come amplificatore del nostro modo di percepirci, come restitutrice di quel senso della vita che ci mancava; forse è solo questo che sentiamo di aver perso, forse la nostra è solo nostalgia di quando siamo stati bene con noi stessi, perché a quei tempi, senza ammetterlo, dentro di noi pensavamo che se esistevamo per una come Marta, allora esistevamo davvero.”
“Stronzate” dice, Toni, “state dicendo solo stronzate. Il fatto che una come Marta uscisse con noi non mi faceva sentire per niente meglio, per niente più esistente di prima che la conoscevo, o di dopo. Era una figlia di papà, con i soldi fin dentro le mutande. Se stava con noi era per la sua mania di protagonismo. Le piaceva che la guardassimo dal basso verso l’alto perché nella piscina che aveva in giardino ci entravano le fondamenta di tutte e tre le nostre case messe insieme. È per questo che stava con noi, perché nella sua compagnia di fighetti non la cacava nessuno, lì i soldi ce li avevano tutti.”
“No, Toni,” dice Mario, “stai soltanto nascondendo la polvere sotto il tappeto, e così facendo costruisci soltanto delle apparenze, un’illusione di pulito, ma quanto prima, lo sai, la polvere salterà di nuovo fuori.”
“Comprerò un tappeto più grande.”
Restiamo qualche istante in silenzio, un silenzio che non ci permette di ascoltare la dolce risacca del mare. I sassolini sotto di noi sono perfettamente piatti e levigati, in un mondo migliore faremmo a gara a chi li fa saltare di più sulla superficie dell’acqua.
“Certe volte dubito di avere un’anima. Quello che abbiamo fatto a Marta… mi sa che Kirlian farebbe fatica a fotografare la nostra aura” dice Mario.
“No,” rispondo, “al massimo si renderebbe conto che le nostre aure fanno proprio schifo. Dai suoi esperimenti si vede infatti che l’aura cambia in base all’umore e al livello di salute degli esseri viventi. Così c’è chi ha un’aura luminosissima e chi meno. Gli esseri viventi, per esempio ce l’hanno più luminosa degli oggetti inanimati. Ma c’è qualcosa di ancora più straordinario in questa storia. Un giorno, Kirlian fotografò con il suo metodo una foglia a cui aveva strappato una parte. Era una di quelle foglie a cinque punte che somigliano un po’ alla canapa indiana e Kirlian strappò una di queste cinque punte e poi fotografò la foglia e scoprì che l’aura era rimasta intera. Capisci? La foglia aveva 4 punte mentre l’aura continuava ad averne 5. Questa secondo lui era la prova dell’esistenza dello spirito, o comunque di una qualche forma di energia che permane anche quando parti di quel corpo non ci sono più. Come la storia dell’arto fantasma. Tantissime persone che hanno subito una qualche amputazione rivelano di sentire ancora delle sensazioni legate a quell’arto che non hanno più. Sentono dolore, o prurito, o caldo, o freddo, eppure quell’arto non ce l’hanno più. Un’altra scoperta sensazionale di Kirlian è quella che le piante hanno sentimenti. Scoprì che le piante si amano e si odiano proprio come facciamo noi. Lui osservò un albero grande, adulto che, posto vicino ad altri due alberi più piccoli, emanava un’aura avvolgente verso uno di questi due, quasi volesse proteggerlo, e un’aura di negatività verso l’altro albero. Io penso che forse farebbe bene a tutti noi poterci fotografare con il metodo Kirlian, e vedere un po’ che genere di energia malsana spargiamo sul mondo, su tutte le cose.
Marta, invece, lei era diversa, lei di sicuro aveva un’aura avvolgente, è per questo che ci sentivamo così bene vicino a lei, perché lei ci proteggeva con la sua aura calda e luminosa.”
“Sapete una cosa?” fa Toni, alzandosi in piedi, “io mi sono rotto della vostra filosofia new age e di tutta questa apologia della povera fanciulla indifesa. Marta era solo una pischella viziata e neanche tanto intelligente, altrimenti non si metteva in testa di tornarsene a casa a nuoto con tutto il rum e pera che si era calata.”
“Non si sarebbe buttata in mare se tu non le fossi saltato addosso come un animale,” ribatte Mario.
“Eravamo tutti d’accordo. Anche tu lo eri. Avevamo comprato il rum e pera apposta.”
È vero, ce l’eravamo studiata proprio bene: rubiamo una barca e poi invitiamo Marta a fare un giro con noi, la facciamo bere, così magari… eravamo sicuri che ci sarebbe scappata un’orgia.
Pensavamo che il nostro piano fosse perfetto, anche se nessuno di noi era abbastanza “pratico” in fatto di donne da poter stimare con esatta approssimazione le nostre possibilità di riuscita…
Era tutto veramente fantastico quella sera: essere così giovani e così lontani dal resto del mondo, su questo isolotto sperduto in mezzo al mare.
Il rum e pera ci aiutava a non pensare troppo e a sostenere il confronto con la disarmante freschezza di Marta. Mi piaceva quando parlava a ruota libera, era bello ascoltarla, c’era come una musica nascosta nelle sue parole. Se ignoravi il senso e ti affidavi soltanto alle vibrazioni del suono potevi sentirla.
Poi a un certo punto disse che fra tre giorni se ne sarebbe tornata a Milano e che forse non sarebbe più venuta in vacanza in Sicilia, perché i suoi genitori avevano deciso di mettere in vendita la loro villa a San Vito lo Capo.
“Promettetemi di non dimenticarmi mai.” Disse, e uno stormo di moscerini ci entrò negli occhi.
“Però cerchiamo di non diventare troppo tristi” aggiunse, “non stasera. Adesso dobbiamo solo pensare a divertirci. Barman, un altro rum e pera.”
Dieci minuti dopo se ne stava sdraiata lì, sopra quei ciottoli, con gli occhi spalancati verso il cielo.
“Gira tutto, fermate il mondo, sta andando troppo in fretta.”
Anch’io a quel punto non ci capivo più granchè di quello che stava succedendo. Li guardavo da dietro un vetro. Sentivo le loro voci lontane, come l’ultima eco che rimbalzata da una montagna. Un’eco flebile. Si muovevano pianissimo, come bradipi attaccati l fogliame di un albero. Mi dispiaceva di non riuscire a ridere con loro di tutto questo, di questa discrepanza di sensazioni tra me e Marta. In un’altra situazione avrei detto “fate andare più in fretta il mondo, sta girando troppo lentamente.”
Ma per fortuna sono rimasto zitto, è triste ricordare i momenti allegri quando sai che non torneranno più.
Ricordo che Toni stava seduto sulla stessa roccia dalla quale oggi ha pisciato in mare. E quando l’ho visto alzarsi in piedi e andare verso Marta distesa sui ciottoli a fissare il suo mondo troppo veloce, avrei voluto dire “no, dai, lascia stare, compare. Secondo me non è proprio il caso.” Però non dissi niente.
Poi non lo so bene che cosa è successo, mi mancano un sacco di particolari per poter dire con certezza quello che ho visto. C’era troppo buio, la luna non bastava. E c’era sempre quel vetro troppo spesso tra me e loro a creare una distanza ulteriore, una separazione di mondi, di dimensioni, come se fossimo nel punto di incontro di tanti universi paralleli. Eravamo tutti e 4 qui eppure non eravamo insieme, perché ognuno apparteneva ad un universo differente.
Marta era poco più di un’ombra, solo deboli sfumature cromatiche che la staccavano dallo sfondo grigio dei ciottoli e Toni, invece, Toni mi sembrava più una nube malsana, come il fumo che esce da una ciminiera. E l’ho visto distendersi sopra di lei e cancellarla, come quando fai uno scarabocchio sopra una parola scritta su un foglio. E questa cosa ha infranto il vetro, ha annullato il confine immaginario che mi separava da loro. Adesso accadeva di nuovo tutto a velocità normale, le mani di Toni la toccavano dappertutto e la sua bocca che si avvicinava a quella di Marta e lei che girava la testa a destra e sinistra per non farsi baciare.
Poi Marta si è messa a piangere ed è stato a quel punto che ho sentito Mario che diceva “basta, dai, non vedi che non vuole?”
E per un sacco di tempo l’ho odiato, Mario, per aver detto quelle parole. Perché avrei voluto dirle io, avrei dovuto dirle io, perché ancora adesso mi sentirei più pulito se le avessi dette. Invece niente, me ne sono rimasto zitto, come ho fatto sempre in tutta la mia vita ogni volta che parlare sarebbe potuto servire a qualcosa.
Dopo quelle parole Toni l’ha lasciata stare. Si è alzato ed è andato a farsi un altro rum e pera, credo. Marta si è messa a sedere, si è portata le mani al volto e ha continuato a piangere.
Io ho provato ad avvicinarmi a lei, volevo tranquillizzarla, volevo che si sentisse protetta, e le ho messo un braccio sulle spalle. Ma lei si è ritratta.
“Non mi toccare. State lontani da me. Mi fai schifo, mi fate tutti schifo.”
Ha cominciato a gridare che voleva essere riportata a casa, che voleva che mettessimo in moto la barca e ce ne tornassimo a terra, ma a quel punto anche noi avevamo tutti troppa paura. Il mare nel frattempo si era fatto grosso e poi prima di tornare indietro volevamo essere sicuri che lei non ci avrebbe messi nei guai.
“Marta stai calma. Non è successo niente, non ti facciamo niente. Siamo noi, i tuoi amici. Calmati un po’ e poi ti riportiamo a casa.”
Eravamo più cacati di lei.
A un certo punto ha visto le luci di quella barca in lontananza e ha cominciato a gridare aiuto, a saltare e ad agitare le braccia per farsi vedere. Noi non sapevamo più che fare, più le stavamo addosso per tentare di calmarla e più le mettevamo paura. E a un certo punto l’ho vista gettarsi in acqua e ha cominciato a nuotare…
Come ha potuto pensare di poter raggiungere quella fottutissima barca? Era solo un puntino in mezzo mare.
Le abbiamo gridato di tornare indietro, ma lei non ci ha dato ascolto.
“Dobbiamo salvarla” continuava a dire Mario.
“Lasciala stare” ripeteva Toni, “quando si renderà conto che non ce la può fare tornerà indietro da sola.”
E poi non l’abbiamo vista più. Abbiamo aspettato e sperato di vederla spuntare da un momento all’altro, vederla nuotare di nuovo verso la Formica, ma così non è stato.
“Non possiamo metterci sulla barca con questo tempo, non torneremo più indietro.” Diceva Toni.
“E che dovremmo fare? Lasciarla annegare?” rispondeva Mario.
“Ci sono degli scogli che emergono a qualche centinaio di metri da qui. Si sarà fermata su quegli scogli. Domani mattina, quando il mare si sarà calmato la andiamo a riprendere. Intanto lasciala lì che si rinfresca un poco le idee.”

“Non c’è nessuno scoglio che emerge in queste zone” dico, dopo un lungo silenzio.
Mi guardano entrambi con un’aria piuttosto perplessa.
“E con questo?” risponde Toni.
“Avevi detto che c’erano. Avevi detto che sicuramente Marta si sarebbe fermata su quegli scogli. Te li sei inventati.”
“Cosa dovevamo fare, annegare insieme a lei? Vi ho salvato la vita impedendovi di buttarvi in mare dietro quella pazza. Non sareste più tornati indietro.”
“Dunque dovremmo esserti riconoscenti” gli risponde Mario.
“Andate a fanculo. Mi sono rotto di questa cazzata del ricordo. Il prossimo anno ve la fate da soli la gita in barca.”
Io e Mario ci guardiamo un attimo negli occhi. Non c’è bisogno di parole.
“Hai ragione” dice Mario, “ non ha più senso essere qua. Torniamo a casa.”
Ci rimettiamo sulla barca. Il mare è piatto come una tavola e una lieve brezza ci accarezza la pelle. Ci aspettano alcune miglia di mare e di silenzio prima di tornare sulla terra ferma.
Guardo dietro di noi l’isola Formica farsi sempre più piccola e distante, fino a quando diventa solo una macchia di colore che galleggia all’orizzonte, ma so che dentro di me non sarà mai abbastanza lontana.
“C’è qualcosa che non va” dice Mario.
“Che cosa?” risponde Toni.
“Non saprei. Senti un po’ tu questo motore, fa un rumore strano.”
Toni viene dietro verso la poppa della barca e si china con la testa che quasi rasenta le acque per ascoltare il borbottio del motore.
Marco, in piedi dietro di lui, afferra un remo, guarda Toni, ci pensa un attimo, lo solleva al cielo, e per pochissimi secondi, che però sembrano molti di più, restiamo tutti e tre così, sospesi tra il vivere e il morire, ancora una volta, esattamente dieci anni dopo.
Poi però ci ripensa e abbassa il remo.
“Io non sento nulla di strano” dice Toni voltandosi verso di noi. “Cosa fai con quel coso in mano?”
“Pensavo ci fossero delle alghe attaccate all’elica.”
“E volevi toglierle con quello? Sei proprio un deficiente.”

Seduto su una poltrona a casa di Mario, un appartamentino fatiscente nel cuore della Trapani vecchia, guardo fuori dalla finestra le onde infrangersi sulla scogliera, l’acqua che diventa bianca, che si imbizzarrisce e si impenna, e resta qualche istante sospesa in aria, e poi ricade giù, dividendosi in mille goccioline.
È già passata una settimana da quando siamo tornati sull’isola Formica.
Mario mette su “Riders on the storm” dei “Doors”. Apre un cassetto della scrivania, tira fuori un panetto di fumo e comincia a rullare.
“Eravamo d’accordo che l’avremmo fatto,” dico.
Lecca la striscia di colla sulla cartina e poi la arrotola.
“Ci sono modi giusti e modi sbagliati per rimediare alle cose” risponde Mario, mentre accende il cannone, “e io sono stanco di fare sempre la cosa sbagliata.”


l'Isola Formica, esiste davvero (come avete visto dalla foto), è un lembo di terra a metà tra Trapani e le isole Egadi, ma è molto diversa da come la descrivo nel racconto. oltre al faro, unica costruzione di cui parlo, l'isolotto ospita delle costruzioni adibite a sala conferenza e, secondo fonti non sicure (il mio amico diego), vi risiederebbe anche una comunità di recupero per tossicodipendenti. nei pressi dell'Isola di Formica ci sono effettivamente degli scogli che emergono, come aveva detto Toni, e sui quali Marta si sarebbe potuta salvare ma... insomma in qualche modo dovevo farla morire sta disgraziata.

martedì, luglio 25, 2006

racconto: saluti estremi



questo racconto è il seguito del precedente che avevo intitolato, senza rigfletterci troppo, "una serata alla grande" e che invece, ripensandoci bene, mi piacerebbe intitolare "salvate Arianna".

l'immagine qui a fianco è un dipinto di Van Gogh di cui non conosco il nome.

ovviamente le immagini che inserisco c'entrano poco e niente con quello che scrivo, ma ritengo che abbelliscano il blog.

Ps: anche se spesso utilizzo me stesso come protagonista dei miei racconti, questi sono totalmente inventati. io sono ovviamente molto peggio del personaggio che descrivo.


Hanno aspettato che uscissi dall’ospedale per dirmi che Elvis stava morendo. Forse pensavano che non avrei retto al colpo, che mi sarei spezzato anche l’altra gamba, o che avrei ingoiato tutte le pagine della settimana enigmistica fino a soffocarmi. Se penso ai loro teatrini mi metto a ridere, quell’orrenda sfilata di parenti e parentini e sottospecie di amici…
“Com’è successo? Guidavi tu?”
“Compare dimmi chi è questo figlio di troia cha gli vado a rompere il culo…”
Io con i miei otto punti di sutura in bocca… tutte le volte che non avevo voglia di parlare bastava mordicchiare un po’ per farli sanguinare, una cosa troppo spacchiusa. Così potevo evitare tutti quei sorrisini forzati che faccio di solito ai cugini della mamma: “lui è il parrino di…” e giù elenchi di perfetti sconosciuti che fingo di conoscere, altrimenti le spiegazioni si sprecano.
C’è di buono che come arrivano se ne vanno.
“Chi cazzo era quello?”
Mia madre spalanca gli occhi.
“Come chi era?” (è proprio allibita), “non hai mai sentito parlare di Mastro Lindo?”
Hanno tutti soprannomi strambi, i parenti di mia madre... Schifosi corvi della malora, spuntano solo quando c’è di mezzo una disgrazia, o un’eredità da spartirsi.
Già me li immagino al mio funerale: “Che disgrazia! Così Giovane”; “Io lo sapevo che sarebbe finito male”; “se l’è cercata…”; “non c’è mai stato tanto con la testa…”; “a quanto pare non è vero che è andato a Padova per insegnare, ce l’ha mandato sua madre per allontanarlo da certe brutte compagnie…”; “sicuro come la morte, guardalo in faccia: quello si drogava”; “non ha mai avuto voglia di fare niente, era un fannullone.”
Preferisco una corona di crisantemi ai piedi del letto che un parente dentro la stanza, mi mette più allegria.
“Com’è stato l’incidente? E tu come stai? Che ti sei fatto?”
Piuttosto mi cappotterei altre dieci volte, magari in diretta tv, a reti unificate, almeno non mi toccherebbe raccontarlo a tutti.
“Otto punti in bocca, altri dieci dietro l’orecchio, la tibia della gamba destra spezzata in due punti, praticamente tutte le costole incrinate… il resto lo potete vedere.”
Iaco mi guarda la faccia tutta piena di lividi viola. Chiude gli occhi, lo aiuta a comporre un’espressione turbata, a metà tra la sofferenza e la paura, le labbra che si increspano… è un campione a fare le facce, ha una dote naturale.
“Cazzo compare, quando l’ho saputo… non ci volevo credere che c’eri tu in quella macchina… ma come cazzo è successo…”
Mio dio ti prego…
Poi arriva anche la stronza di Anna.
“Ma perché ve ne siete andati così? Io e Patrizia stavamo tornando, eravamo andate a comprare le sigarette…”
Le faccio un sorriso fasullo, il migliore di cui disponga, così se ne può andare leggera, e prima possibile.
“Ti ho comprato il sudoku,” dice, prima di sparire dietro la porta.
Poi finalmente arriva il giorno che vengo dimesso.
Mi godo gli sguardi delle ragazze lungo il corridoio dell’ospedale. Mi piacciono i loro occhi pieni di compassione mentre, aggrappato alle stampelle, zampetto piano verso l’uscita. Sono tutte mamme, tutte infermierine, camice e biancheria candidi, potrei chiedere a una qualsiasi di loro di occuparsi di me e… come potrebbe dirmi di no, dopo vermi guardato in quel modo?

A casa è una pacchia, passo tutto il giorno a giocare campionati di calcio alla play station: gli faccio un culo così a sti gobbi di merda.
L’unica cosa mia madre non vuole che chiuda a chiave la porta della mia stanza, non si sa mai dovessi avere bisogno di qualcosa… per farmi le seghe mi tocca chiudermi nel cesso, come facevo ai tempi delle superiori. A parte questo però non è niente male questa degenza. I parenti hanno smesso di venirmi a trovare. L’ospedale lì attira di più. Vogliono il sangue quelli, sono vampiri.

La pacchia dura solo una settimana però, poi ricomincia lo scazzo.
Mia madre infila la testa nella stanza mentre sono intento a vincere lo scudetto con l’Inter (solo alla play station succedono ‘ste cose).
“Iaco e Anna vengono a mangiare da noi, avrai voglia di un po’ di compagnia, no?”
Grugnisco senza alzare gli occhi dal monitor.
“Sto facendo la zuppa di cozze…”
“Bene.”
“Volevo prendere anche i ricci, ma non li avevano… il mare è stato brutto in questi giorni.”
“Porca Eva sto cazzo di coso…”
Agito in aria il joystick.
Lei ci resta male, ha voglia di fare conversazione, ma per fortuna non è una che si accanisce su certi propositi.
“Fra una ventina di minuti sarà pronto” dice, e sparisce.
Quando non ho voglia di parlare, mi invento un problema tecnico. Funziona sempre.
Anna e Iaco faticano a trovare argomenti di conversazione nuovi, per cui riciclano quelli utilizzati in ospedale.
“Com’è compare? Come va? Come stai?...”
Sono una palla, e io non c’ho nemmeno più la scusa dei punti in bocca.
Finito di mangiare beviamo il caffè. Quei due figli di buttana si accendono le loro belle sigarette e se le fumano davanti a me, belli pacifici e appagati, con la panza piena delle cozze di mia madre. Non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello che anch’io posso averci il desiderio di una paglia. Eppure lo sanno che da quando ho ripreso a fumare lo faccio di nascosto. Che bastardi.
Li invito ad andare nella mia stanza a sentire un po’ di musica.
“Ho l’ultimo ciddì di Capossela.”
“Magari dopo…” fa Anna, ruotando lo sguardo intorno in cerca di conferme.
“C’è una cosa che devi sapere,” dice mia madre, “e ho pensato che era meglio che fossero loro a dirtela.”.
Cerco di ricordare se ho fatto qualche cazzata negli ultimi tempi, qualcosa per cui potrei meritarmi un predicozzo, ma non mi viene in mente niente. Comunque sia negare, negare sempre, anche di fronte all’evidenza.
Non è vero, non sono stato io, siete stati informati male, è tutta una congiura…
“Compare,” fa Iaco, mettendoci dentro una pausa holliwoodiana (le pause e le facce sono la sua specialità), “devo darti una brutta notizia…”
Altra pausa.
“Elvis… sta morendo.”
Abbasso lo sguardo sulla tovaglia, sento i loro occhi su di me, la loro volontà di scoprire i miei sentimenti, fanno attenzione ad ogni mio più piccolo movimento, come si tirano e si rilassano i muscoli della mia faccia. È come avere tante sanguisughe attaccate al cuoio capelluto, vogliono fagocitare i miei pensieri, nutrirsene, e devono smetterla, non possono farlo, non è giusto, vorrei gridare “basta! Non ne avete il diritto! Smettetela!...” e invece resto zitto, mi metto un pugno davanti alla bocca e comincio a soffiarci dentro.
“...La merda di cancro allo stomaco” continua lui, “peggiora di giorno in giorno… peserà al massimo 40 chili. Se ti sei chiesto perché non sono più venuto a trovarti all’ospedale, bè, adesso l’hai capito.”
“Non ce la facevamo…” continua Anna, “tu sai quanto bene vogliamo a te e quanto ne vogliamo a Elvis, e vedere tutti e due in quello stato, scusaci ma, era proprio troppo.”
“Certo, lo capisco.”
“Tra i due dovevamo fare una scelta,” continua Iaco, “e non volercene se abbiamo scelto quello che credevamo ne avesse più bisogno.”
“Avete fatto bene.”
“Non che tu non ne avessi bisogno ma, cazzo, Ettore…” Iaco sospira (è un campione di sospiri, e di facce e di pause), “quando vedrai Elvis capirai di cosa stiamo parlando.”
Gli metto una mano sulla spalla per rassicurarlo, ma la tolgo subito, non sono fatto per i contatti fisici.

Il giorno dopo mi infilo in macchina con mia madre e mi faccio portare da Elvis. So che è quello che tutti si aspettano da me, per questo lo faccio. Non voglio che si sospetti che sono un insensibile, certe qualità preferisco tenerle nascoste.
Mia madre mi accompagna fin dentro la stanza di Elvis, seguendo con attenzione i miei passi strascicati sulle stampelle. Si ferma qualche istante a parlare con i genitori del mio caro amico e poi si dilegua, lasciandomi solo con tutti loro.
La faccia di Elvis fa impressione, è tutta giallognola, sembra gli abbiano scarnificato la testa per poi ricoprire il teschio con della carta da cucina.
Sua madre mi fa accomodare su una sedia ai bordi del letto.
Per i primi 20 o 30 minuti mi tocca sorbirmi la cronistoria minuziosa della malattia di Elvis. Lo sapevo, ero preparato a questo. Spero solo non si scivoli troppo sul melodrammatico.
Il padre ce l’ha più col destino; la madre con i dottori: sono degli incompetenti, dei superficiali, potevano salvarlo se… ha visto troppe volte “E.R.”.
Guardo Elvis: dubito che quella sia la faccia di uno che avrebbe potuto cavarsela se solo avesse incontrato medici un po’ più in gamba.
“Dobbiamo operarlo prima possibile, dicevano, e poi cambiavano idea, gli davano quelle porcherie che lo facevano solo vomitare… gli hanno fatto cadere tutti i capelli…”
Scoppia a piangere.
Io non so che cazzo dire, non so proprio che cazzo dire… tengo gli occhi bassi e aspetto in silenzio. Non può piangere in eterno.
Mi domando se quei due sappiano quali erano i rapporti tra me e Elvis negli ultimi tempi, se sono al corrente del fatto che io e lui eravamo pizzicati per via di una certa ragazza che forse non ne valeva neanche la pena, ma che comunque le cose stavano così e che… si, insomma, non ci parlavamo più da un pezzo.
“Una volta questa casa era un via vai di gente, ragazzi che entravano e che uscivano in continuazione, adesso…”
Annuisco piuttosto contrito, anche se questo discorso ha tutta l’aria di essere una predica indiretta per il sottoscritto.
“Non sa quante volte ho pensato a Elvis…” dico, più paraculo che posso. Scuoto il capoccione.
“Ma tu stai a Padova” dice il padre, come se parlasse con sua moglie invece che con me, “e poi hai anche avuto l’incidente…”
“Non se la merita una cosa del genere Elvis, non se la merita…” Ricomincia a piangere.
“Ma Anna e Iaco sono venuti qualche volta a trovare Elvis, no?”
“Quei due, sono venuti una volta, hanno portato dei cioccolatini, e poi… Spariti. Chi li ha visti più? I cioccolatini a uno che ha il cancro allo stomaco…”
Adesso singhiozza.
È insopportabile la gente che piange. Vorrei catapultarmi fuori dalla finestra. Cadere dal terzo piano non può essere peggio che stare lì a sentirla frignare.
Quando entra Loris, il fratello di Elvis, la madre smette di piangere, e a me sembra un intervento divino, il deus ex machina di certi romanzi d’appendice.
“Ho parlato con don Giuseppe” dice, “ oggi non ce la fa a venire. Ha detto che fa un salto domani mattina verso le dieci.”
Sua madre annuisce, il suo sguardo si perde nel vuoto. Si sparge nella stanza un silenzio pesante dove tutti guardano per terra, oppure guardano Elvis, o il crocifisso o il bicchiere d’acqua sul comodino e nessuno guarda gli altri.
Poi il padre mette un braccio attorno alla moglie.
“Vieni,” dice, “lasciamo un po’ soli i ragazzi.”
Escono.
Loris scuote la testa.
“Non si vuole rassegnare all’evidenza. Lui… ha gia tutti e due i piedi nella fossa.”
Si avvicina al letto, prende un braccio di Elvis, lo solleva e lo lascia ricadere sul materasso.
“Bisogna guardare in faccia la realtà.”
“Già” dico, tanto per non starmene ancora zitto.
“Vuoi sapere come la penso?”
“Dimmelo.”
“Se fosse stato per me gli avrei già messo un cuscino in faccia. Hai idea di quanto tempo ha passato su quel letto? A che serve tenerlo qui in queste condizioni? È come una pianta grassa ormai, solo che un cactus non devi lavarlo tutte le mattine. C’era bisogno di arrivare a questo? I medici erano stati chiari, sapevamo che prima o poi sarebbe entrato in coma e che quella sarebbe stata l’anticamera della fine. E allora perché non farlo prima? Perché non risparmiare a lui e a tutti noi questa sofferenza? Hai idea di quanta merda ho dovuto togliergli dal culo? Sentivo sempre quel feto tremendo addosso, non la smettevo più di lavarmi le mani.”
Guarda Elvis, fa no con la testa. Si gira, arriva fino alla porta, poi ci ripensa e torna indietro.
“È tutta colpa di questa mentalità cattolica. Il Vaticano è la rovina dell’Italia. In Olanda è tutta un’altra cosa, sono molto più civili da quelle parti. Sai che fanno in Olanda in questi casi?”
“Si fanno una canna?”
“A parte quello. Ti iniettano una puntura di arsenico o di non so quale altra sostanza velenosa e nel giro di pochi secondi sei all’altro mondo. Hanno più rispetto per la vita. In Italia invece i morti sono più importanti dei vivi. Cioè, non fraintendermi, compare, ti ho già detto come la penso: c’era bisogno di fargli passare tutto questo?”
“Si, l’hai già detto.”
“…vomitare e vomitare… non ha fatto altro negli ultimi 6 mesi. Gli usciva dalla bocca roba verde e marrone che non si capiva che cazzo era… e scaccava dalla mattina alla sera… mia madre insisteva per farlo mangiare: gli preparava i tortellini… io glielo dicevo: che cavolo gli prepari la pasta che tra mezzora la vomita tutta nel secchio?
Quando le cose andavano bene si riempiva le mutande di merda. Lo sapevano che non c’era niente da fare. I dottori e mia madre e tutti gli altri. Lo sapevano, e hanno fatto finta di niente, hanno continuato a sperare nel miracolo.”
Bò, che cazzo vuole che gli dica?
“Si, è proprio come dici tu, questo Vaticano di merda… e questo papa nuovo e anche peggio di quello di prima, più conservatore, più ortodosso… è peggio, è molto peggio.”
Annuisce senza fare nessuna espressione, sembra una carpa d’allevamento. Sta pensando che sono ignorante come una pecora e che non ne capisco niente di cattolicesimo e politica e morale e che sto solo parlando a vanvera, solo per evitare di restarmene in silenzio e farci la solita figura da fesso.
È brutto dirlo ma ha proprio ragione.
“Vabbè, ora devo andare” dice.
“Oh, aspè! Non è che ti ritrovi un po’ di erba? Sai com’è, per ora non posso uscire e sono rimasto a secco.”
“No, non ci voglio avere niente a che fare con questa merda.”
Mi fissa con un sopracciglio più alto dell’altro che nel suo caso denota uno sguardo truce.
“Dovresti lasciarla perdere pure tu quella roba: è veleno. Non vedi come si è ridotto mio fratello?...”
“Non credo c’entri l’erba, in Olanda la danno ai malati terminali come antidepressivo…” dico, convinto che basti questo a dissuaderlo dall’idea che sono un tossico di merda, oltre che il probabile assassino di suo fratello.
“In Italia mio cugino s’è beccato 5 anni perché coltivava la canapa indiana nell’orticello di mia zia. Un suo caro amico l’aveva convinto che fosse illegale solo spacciarla, non coltivarla. Ma non ci andrà in galera, ha un posto riservato nel reparto psichiatrico del Sant’Antonio Abate. Sé fumato il cervello.”
“Ah, mi spiace. E ce l’hai il numero di questo suo amico?”
Se ne va senza rispondermi sbattendo la porta.
Resto solo con lui.
“Elvis ci sei ancora? Non te ne sei andato vero?”
Gli poggio una mano sul collo per sentire il battito. Non sento niente, ma è ancora caldo.
“No, perché se sei già morto come faccio a dirti tutto quello che ti devo dire? E sarebbe ingiusto se tu te ne andassi senza darmi la possibilità di spiegarti. Ho un sacco di cose dentro che vanno su e giù… è come… hai presente quando c’è una scrivania con un sacco di fogli sopra e qualcuno apre una finestra? Ecco, io mi sento così, ho un sacco di fogli che se ne vanno in giro per la stanza e so già che sarà un casino mettere di nuovo tutto in ordine.
Tuo fratello è solo uno stronzo, immagino che questo già lo sai. Non credo a niente di tutte le stronzate che ha detto, soprattutto il fatto che sei già all’altro mondo. Io lo so che tu sei ancora qui e ci senti parlare di te e ti rendi conto di quanto siamo piccoli e meschini. Ci stai guardando, sei qui da qualche parte che svolazzi, e ci vedi tutti riuniti in questa stazione desolante ad aspettare che parta il tuo treno. Dimmi una cosa, com’è il mondo visto da quel finestrino?”
Tiro fuori il pacchetto di sigarette e ne accendo una.
“Posso? O hai paura che il fumo passivo ti faccia male?”
Rido da solo come un perfetto idiota. Del resto chi l’ha detto che non lo sono?
“ltro mondo. e sei già al'o, immagino che questo lo sai già, e per questo io non credo a tutte le stronzate che ha detto, intTi ricordi Melina, la picciotta che conoscemmo durante le manifestazioni studentesche quando si gridavano slogan contro la Jervolino? Era pazza di te. Erano tutte pazze di te. Andava dicendo in giro che le piacevi perché avevi il nome di Presley, eri bello come Dylan di Beverly Hills ed eri maledetto come Jim Morrison. Melina era una picciotta troppo avanti, portava le mutande colorate dieci anni prima che diventassero di moda. Tu la cacavi e non la cacavi, dipendeva da come ti svegliavi la mattina. Te lo potevi permettere, del resto, avevi un sacco di fiche che ti venivano dietro. Io non riuscivo a spiegarmela questa cosa, non riuscivo a capire com’era che si innamoravano sempre tutte di te: tu non somigli per niente a Luke Perry.
Facevamo le feste e tu bevevi come una spugna e ruttavi e piritiavi davanti a tutti e facevi un feto di alcol che non ti si poteva stare vicino, eppure le femmine era tutte lì che si bagnavano le mutande solo a guardarti. Quando io e Melina siamo diventati amici sapevo benissimo che lei non aveva scelto me, che gli servivo solo per poterti stare più vicino. La odiavo e allo stesso tempo la amavo ma non gliene facevo un colpa. Tu eri troppo di un’altra categoria rispetto a me. Però mi dava fastidio vedere che la consideravi una “cosa” tua. Per te era una riserva da tenere in panchina perchè prima o poi sarebbe tornata utile. A dire la verità quella tra me e Melina non era neanche questa grande amicizia, parlavamo sempre e solo di te e lei aveva sempre un buon motivo per mettersi a piangere. Facevo una fatica bestiale a convincerla che tu non eri poi così bastardo come sembravi e che… ma adesso te lo posso dire, non lo facevo per amicizia. Era solo che quello era l’unico modo per starle vicino: ascoltarla e dirle le cose che voleva sentirsi dire. Poi ci abbracciavamo e restavamo un sacco di tempo così, in silenzio, a scaldarci. Lei mi chiamava fratellino, io per dovere di corrispondenza la chiamavo sorellina… almeno fino a quando non è successo quello che è successo. Sto parlando della storia del bacio e tutto quello che è venuto dopo, con lei che a casa tua, durante la tua festa di compleanno, mi ha chiesto di fare l’amore. Nel tuo letto.
Io pensavo che sarebbe stata una cosa bellissima, me l’ero sempre immaginato come, che ne so, buttarsi da un trampolino altissimo e, lungo la caduta, non pensare affatto a quanto può essere profonda l’acqua, ma pensare solo al volo, allo stile, alla perfezione dei movimenti, e poi quel che sarà sarà.
Invece non è stato niente di tutto questo. Per tutto il tempo che è durato non ho fatto altro che chiedermi dove fosse lei, e con chi stesse davvero facendo l’amore.
Porca zozza, quello era un momento mio e io non ti avrei mai permesso di rovinarmelo ma… è tutta una stronzata questa cosa che il destino è nelle nostre mani, che ce lo facciamo noi. Per me non è mai stato così. Perché il destino è fatto anche di altre persone e tu non puoi controllare le altre persone. L’ho capito quando lei ha cominciato ad ansimare forte e a gemere e a ripetere ad alta voce il mio nome, fingendo un orgasmo che non stava avendo. Dovevi sentirla, era un orgasmo veramente strafasullo. Voleva solo che tu ci sentissi o che qualcun altro ci sentisse e te lo venisse a riferire. Io volevo solo piangere, invece, ma non lo feci, non con lei nuda sotto di me. Cercai solo di accelerare un po’ la cosa, non avevo più voglia che durasse tanto. E quando fu il momento di venirmene non lo tirai fuori. Non so se fu una scelta vera e propria o se semplicemente le cose andarono così. È vero però che dopo, per un bel po’ di tempo ci ho pensato a questa cosa, al rischio che lei restasse incinta, e forse ci ho pure sperato, perché credevo che con un bambino di mezzo lei sarebbe stata mia per sempre.
Per anni mi sono chiesto come avevi fatto a saperlo. Nessuno può averci sentiti, con tutta quella musica sparata a massimo che era persino difficile percepire i propri pensieri. Ma poi ho capito.
Dimmi una cosa: te lo ha detto proprio lei in persona o si è limitata a farlo sapere a qualcuna che certamente non si sarebbe persa l’occasione di farti questa confidenza?
Anna, per esempio.
Vabbè, non importa. Quello che conta è che tu mi hai perdonato… dovrei dire così, no?
Hai sempre avuto un cuore grande come una capanna, vecchio mio. Anche se, forse non è così difficile perdonare un ladro che non è riuscito a rubarti nulla, dico bene? I ladri sfigati fanno sempre compassione.
Adesso dirai che parlo di cose vecchie, che quello non sei più tu e che l’altro non sono più io (non è proprio così, compare, perché almeno io sono sempre quello, sempre lo stesso). Comunque hai ragione, forse è meglio passare a cose più recenti: Veronica, per esempio.
Sapevi che piaceva a me, lo sapevano tutti. Lo sapevi tu, lo sapeva lei e lo sapevano tutti gli altri. Non dovevi far altro che startene un po’ per i cazzi tuoi, eri così bravo a sparire quando io avevo bisogno del tuo aiuto. E invece io passavo da lei per invitarla a prendere un aperitivo e sotto casa sua ci trovavo te: “Elvis mi ha invitata da lui per vedere i suoi quadri...”
Le telefonavo la sera e trovavo il telefono occupato per ore, e con chi stava parlando lei? Con Van Gogh, ovviamente. E tutte le attenzioni che di punto in bianco avevi per lei… roba che prima che scoprissi che la volevo, manco ti passava per la mente di telefonarle. Non ne eri innamorato, in quel caso ti avrei capito, forse... Soltanto non potevi accettare il fatto che una ragazza potesse starti intorno senza essere innamorata di te. Eri ossessionato dall’idea di veder ridotto il tuo harem. Lei non era altro che l’ennesima figurina da aggiungere al tuo album. Purtroppo, però, io di quella figurina ne ero innamorato.
E invece lei si è innamorata di te, così, per caso: “compare davvero mi dispiace che le cose siano andate così. Io non ho fatto niente perché accadesse, e comunque se tu vuoi io mollo subito, se tu mi dici che sei innamorato di lei io ci sto niente a farmi da parte.”
“Bè, in effetti sono un zinzino innamorato di lei, si.”
Forse sono esagerato. Che male c’è se continuavi a passare ore a telefono con lei e a invitarla a casa tua a vedere i tuoi dipinti del cazzo? Del resto mi avevi promesso di lasciarla perdere, no?
Fanculo, compare, so benissimo cosa vi dicevate in quelle fottute telefonate. Perché, vedi, Veronica le registrava, così poteva riascoltarle la sera prima di andare a dormire. Era convinta che se si fosse addormentata ascoltando la tua voce ti avrebbe sognato.
Lei mi faceva ascoltare le vostre telefonate e poi mi chiedeva: “Secondo te che avrà voluto dire con queste parole?” mi chiedeva un parere “disinteressato”. A volte saltava certe parti dicendo, “no, questo non te lo posso fare sentire, è troppo personale”.
Non so se fosse sadismo il suo o se per lei il fatto di essersi innamorata di te implicava di conseguenza che io non fossi più innamorato di lei. Le ragazze hanno un concetto troppo elevato dell’amicizia tra maschi.
Ad ogni modo, dire cose “troppo personali” non è esattamente quello che io intendevo per “farsi da parte”, ma probabilmente sono io che ho una visione distorta delle cose.
Purtroppo per te lei non era tipo da accettare una “compartecipazione degli utili”. Era troppo una picciotta con le palle per accollarsi una situazione del tipo sto-con-te-ma-non-sto-con-te-perché-intanto-mi-vado-facendo-tutte-quelle-che-incontro.
Così è arrivato il momento della vendetta. Mai fidarsi delle donne, compare, dovresti saperlo.
“Elvis è uno stronzo!” diceva.
“Davvero?”
“Si. E vuoi anche sapere perchè è uno stronzo?”
“Sentiamo.”
“Ascolta questa telefonata. È proprio tutto quello che ci siamo detti due giorni fa, tutto per filo e per segno, versione integrale.”
“Bene. Non fa ingrassare, allora.”
Facevo lo sbruffone ma avrei voluto che ti sentissi tu come mi sentivo io…
Dicevi cose che per me erano tremende: “Tu non lo vuoi a Ettore. Avanti ammettilo che non lo vuoi.”
“Questo non ti riguarda.”
“Devi ammetterlo. Non te ne frega un cazzo di lui.”
“Lo dici tu.”
“Dillo che non te ne frega un cazzo di lui.”
“Gli voglio bene.”
“Quello è innamorato di te. Non puoi continuare ad illuderlo. Devi dirglielo, altrimenti non lo capirà mai.”
“Diglielo tu, allora.”
“A me non mi crederebbe. Ormai s’è fottuto il cervello.”
Sai com’è, “Quello” pensava che tu fossi suo amico…
“Tu sei innamorata di me, Veronica.”
“Io non sono per niente innamorata di te.”
“Si che lo sei, si vede lontano un miglio che sei innamorata di me.”
“Pensa pure quello che vuoi.”
In un certo senso ti ammiravo, perché io non potrei mai dire niente del genere. Io non sono mai sicuro di quello che gli altri provano per me, ho sempre la sensazione che tutte le mie relazioni siano provvisorie, se non proprio occasionali. Ho sempre paura che i sentimenti degli altri per me siano contratti a termine e non faccio che chiedermi quando scadranno.
“Lo sai che mi ha detto quello? È venuto qui ieri pomeriggio e mi ha fatto tutta una scenata di gelosia, perché dice che devo lasciarti stare. Continuava a dire “ma che vuoi dimostrare? Che cavolo vuoi dimostrare?” Pensa che per me tu sei una specie di gioco di società, che voglio dimostrare che sono meglio di lui, che posso fregargli la ragazza quando e come voglio…”
“Ha detto così?”
“Si è fottuto il cervello… fregargli la ragazza per dimostrare che sono meglio di lui…”
Te la ridevi…
Per un sacco di tempo ho pensato che la mia vita sarebbe stata migliore senza di te, se non ti avessi mai incontrato, o se, meglio ancora, tu non fossi mai esistito. E adesso sembra arrivato il momento di scoprire se avevo ragione.
Ma già mi viene il dubbio di essermi sbagliato.
Perché tu te ne vai, è vero, ma lo fai alla grande, come hai sempre fatto. Te ne vai sul più bello, come un pugile che conquista il mondiale e lo difende contro tutti i migliori pugili del mondo e poi, dopo che tutta una generazione di sfidanti è stata messa al tappeto, prima che possa nascere un nuovo campione in grado di buttarlo giù, dice: adesso basta.
Per me invece non cambierà niente. Forse appartengo a quel genere di persone che sono destinate a non essere mai felici.
Vuoi sapere una cosa? Tu adesso… io ti guardo e… fai proprio senso… hai una pelle orribile. Il tuo truccatore dovrà fare i miracoli per presentarti in modo decente per l’atto finale. Ci saranno tutte le tue ammiratrici, bagnate come sempre, anche se stavolta per un altro motivo, e tu avrai quella faccia lì, quella faccia orrenda… Ma non disperare, sono sicuro che per loro resterai un tipo arrapante anche dentro la cassa da morto. Più arrapante di me, almeno.
Ora però devo andare, si è fatto tardi. Fra poco comincia “Una mamma per amica” e non posso perderlo, perché sembra proprio che Lorelai sposerà Liuk e che Rory… bè, lei ha lasciato il college… ma lasciamo perdere.
Se vedi Lui digli che non c’ho proprio capito un cavolo di tutta questa pantomima, di questa giostra disperata che ha messo su. Mi sfugge proprio il senso di questo… correre verso il nulla. Però magari se distribuisse un po’ meglio certe cose… i soldi, la gnocca, la felicità, gli scudetti… giusto per sapere di cosa si tratta…
E poi… c’è bisogno di un po’ più di leggerezza quaggiù. Diglielo, se lo vedi...”
Mi alzo, impugno bene le mie stampelle e barcollo fino alla porta. Mi volto a guardarlo: sono sempre tristi le ultime volte.
“Ciao, Elvis. Buon viaggio.”